Nicola Ghezzani

Foto di Nicola Ghezzani

Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

L’attimo perfetto e la fine dell’eternità

La ricerca senza fine

L’amore deve a un certo punto divenire cosciente e rendersi conto della sua propria impotenza. L’impotenza di cui l’amore si rende conto è un dato intrinseco dell’esistenza e lui, l’amore, per quanto ami, non può farci nulla.

Fotografia rappresentativa dell’infinito

L’uomo è l’animale più strano dell’universo, perché come individuo e come specie nasce con un potenziale neurologico di adattamento alla realtà, cioè di mutamento di sé e del mondo e di scoperta di sempre nuove soddisfazioni, praticamente infinito. Abbiamo di fonte un mondo (e un tempo) che sappiamo infinito, che ci sovrasta da ogni lato, e abbiamo un patrimonio mentale, neurologico, che ci consente di cambiare di continuo, e quindi di adattarci e rifornirci di soddisfazioni continue. Eppure allo stesso tempo sappiamo che quel limite infinito è irraggiungibile e che noi saremo sempre in itinere, nella ricerca, senza mai “arrivare”. Ci sentiremo come quando siamo seduti di fronte all’orizzonte del mare e non ci stanchiamo mai di spaziare su quella linea piena di fascino e di mistero; o, nella peggiore delle ipotesi, come se corressimo disperati verso una casa che brucia per salvare i nostri cari. Una contemplazione e una corsa che non finiscono mai. Andremo avanti di ricerca in ricerca e di conquista in conquista senza mai raggiungere la meta del perfetto adattamento, quindi della perfetta felicità.

Infatti (e nel fondo dei nostri cuori lo sappiamo tutti, ma proprio tutti) moriamo sempre molto prima di aver raggiunto la piena soddisfazione, moriamo con una inesausta “fame di vita”, e con un bilancio in passivo (per quanto piccolo questo passivo possa apparirci). La soddisfazione totale possiamo immaginarla, sognarla, desiderarla e vivere serenamente o smaniosamente per realizzarla, ma in cuor nostro sappiamo che nella realtà effettiva essa non esiste; e non esiste nella misura in cui l’universo e il tempo sono infiniti. Saremo sempre insoddisfatti, non potremo mai colmare lo scarto fra la nostra finitezza e l’infinito del tempo e dello spazio; e questo è un dato ontologico, ineliminabile: è parte intrinseca e paradossale della natura umana.

La coscienza, che è il tratto caratteristico dell’uomo, ci rende coscienti dell’insoddisfazione, e ci rende coscienti del fatto che questa insoddisfazione è illimitata (quanto la nostra capacità di adattarci e di soddisfarci nell’infinito del tempo e dello spazio. E infatti cambiamo sempre e ci adattiamo sempre, cioè senza mai la minima speranza di raggiungere i confini dell’infinito e la totalità della soddisfazione). Mentre l’essere è illimitato, illimitata non è la nostra vita, né quella individuale né quella della specie.

Il disadattamento permanente

Ora che cosa fa l’amore di fronte a questo straordinario paradosso? Ebbene, l’amore (direi con immensa pietà) ci fornisce l’illusione di aver raggiunto la totalità, la pienezza, la felicità, e di non aver bisogno di altro. Lo fa nell’innamoramento, che è una esperienza estatica, nella quale l’io, con la sua finitezza, si scioglie per fondersi in una esperienza di immensità e di pace fuori del tempo e dello spazio. Poi però, non appena vogliamo vivere quella esperienza nel quotidiano, mettendola a contatto con la nostra realtà concreta, fatta di comuni insoddisfazioni e di banali sconfitte, l’amore diviene (può divenire) maturo ponendoci allora davanti agli occhi il limite dell’altro e quindi dello stesso amore; e così ci insegna la pietà, la compassione, la commozione per la nostra comune impotenza. Solo allora l’innamoramento supera se stesso e diventa vero amore: quando ammette la sua incapacità di offrirci la piena felicità.

Fotografia scattata durante l’orbita sulla luna (fonte: NASA)

Perché alla fine la certezza di non aver bisogno di altro che dell’amore è illusoria, è un prodotto della fantasia. Per quanto possa apparire cinico dirlo, l’innamoramento ha bisogno – in termini clinici – di uno stato ipomanicale, cioè eccitato, per continuare a esistere. E questo stato impedisce l’adattamento alla realtà, lo sospende in una dimensione “altra” dal reale. L’amore invece vuole la realtà e scopre la propria impotenza.

È vero che l’amore sollecita la fantasia del mutamento del mondo e della felicità universale, e che ci spinge a perseguirli; ma si tratta appunto di uno stato che dura finché possiamo agire e modificare la nostra realtà di coppia e quella del mondo intorno a noi. Ma sempre, alla fine, poiché questo mutamento è limitato, scopriamo l’insufficienza, l’impotenza dell’amore a produrre la felicità totale, e ricadiamo nella realtà.

E se anche la specie intera si adattasse al nostro amore, nel senso di divenire una specie solidale, amorevole, accuditiva non faremmo altro che spostare i confini dell’impotenza dalla coppia alla specie intera, e dovremmo a un certo punto ammettere che la specie è finita, l’universo e il tempo no; che la specie è impotente a rendersi felice e che si trova, come l’individuo, di fronte a un disadattamento permanente, perché anche lei si trova di fronte l’infinito del tempo e dello spazio, cui può opporre soltanto l’inesausta esigenza di un riadattamento infinito.

La materia oscura e la fede in Dio

Il cosmo ha il 90 % dicono i cosmologi di materia oscura, totalmente incomprensibile. Non sappiamo di che natura sia, quindi non possiamo immaginare alcuna forma di adattamento ad essa. Ebbene, io penso che la “percezione”, la “scoperta” della materia oscura non sia nient’altro che il tentativo che la specie compie di concettualizzare la sua impossibilità di adattarsi a un universo infinito e inconoscibile, quindi la sua insoddisfazione (se non proprio infelicità) permanente. Per quanto potessimo viaggiare nello spazio e nel tempo, non raggiungeremmo mai i confini di quello smisurato infinito; anzi forse ci fermeremmo sull’uscio di casa: dalle parti della luna, di Marte, di Giove... Il resto ci sarebbe sempre, per sempre, oscuro.

La fede in Dio (in un qualunque dio, uno o molteplice) ha gli stessi paradossi dell’amore. Dio, nella concezione che l’umanità ne ha sempre avuto, è l’unica entità co-estesa all’infinito, che quindi lo comprende tutto. L’uomo ha pensato che risolvendosi in Dio sarebbe stato felice, avrebbe risolto il dato della sua finitudine e impotenza. Ma la fede in Dio è dotata della stessa illusorietà, della stessa ipomaniacalità dell’amore: quando siamo nella fede, la realtà non esiste, c’è solo Dio, e da un lato possiamo vivere la storia umana come dramma della realizzazione di Dio in questa terra (cui noi ci adoperiamo con il volontarismo e la passione tipici della fede); ma dall’altro siamo consapevoli che la felicità totale coincide solo con la fusione estatica in Dio. Fusione che mentre è in atto ci aliena dalla vita reale rendendoci disadattivi e disadattati e con l’unica prospettiva di perfetto compimento offertaci dalla morte.

Perché? Perché, se la realizzazione della fede è nella storia, cioè nell’azione permanente in suo favore, la perfezione della fede è la nostra dissoluzione in Dio, cioè la morte. Infatti, solo con la morte finisce il paradosso della infinita soddisfacibilità e quindi della perenne insoddisfazione.

L’attimo perfetto

Quindi (come la fede) l’amore per sua stessa natura oscilla fra uno stato estatico (che dall’esterno percepiamo come esaltato) di realizzazione istantanea della felicità, una realizzazione che sospende la coppia (o la comunità amante) in una condizione di derealtà attiva, operativa; e in uno stato parallelo di delusione in cui gli individui, come coppia e come comunità, tornano “coi piedi per terra”. Si sono resi conto che hanno potuto modificare alcune contingenze terrene, che hanno reso la loro vita piacevole per quel tanto che è durata la trasformazione di sé e del mondo e la nuova conquista; ma che queste pur piacevoli contingenze non sono tuttavia l’assoluto, se non per un atto della fantasia che nel frangente dell’estasi rende la coppia e la specie disadattiva e disadattata rispetto alla realtà. Quindi a rischio – e nella volontà – di morire.

Fotografia scattata durante la passeggiata sulla luna (fonte: NASA)

E infatti non a caso l’amore e l’estasi collettiva scoprono sempre, prima o poi, il fascino della morte: perché intuiscono che solo la morte, cioè la fine dell’eternità, può porre termine alla oscillazione fra la luce e il buio, fra la caducità dell’estasi e la nuova ricerca, e rendere così l’attimo davvero e irreversibilmente perfetto.