Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Thomas Hobbes, Carl Schmitt e la Terza Guerra Mondiale

Thomas Hobbes e il patto di reciprocità

Secondo l’opinione di Hobbes, che ancora nessun politologo ha smentito, lo Stato nasce dall’accordo degli individui a sottomettersi a un potere superiore che reprima l’anarchia e la lotta incondizionata delle fazioni armate le une contro le altre. Alla fantasia romantica di Rousseau di un uomo naturalmente buono, la cui spontanea e permanente rivoluzione dal basso non può altro che condurre a un progresso, Hobbes oppone (molto prima che il ginevrino nascesse) la constatazione empirica, fattuale, della continua competizione degli uomini fra di loro.

Ritratto di Thomas Hobbes

L’epoca di Hobbes era funestata da fazioni interne in lotta e da una spietata guerra di religione. A questo tragico stato di cose egli oppose l’idea dello Stato moderno, come Stato non partigiano e non confessionale, che si assume la delega del potere da parte degli individui e delle fazioni in vista di un ordine superiore. Questa delega di potere avviene grazie ad uno scambio di favori: gli individui e le fazioni cedono allo Stato le potenzialità distruttive intrinseche alla loro libertà; in cambio lo Stato fornisce loro sicurezza fisica e morale. Pertanto, lo Stato funziona ed è legittimato solo nella misura in cui ciascuno si sente al sicuro e non avverte minaccia né condizionamento.

Dunque, anche per lo Stato sussiste un problema di legittimità. Lo Stato può essere contestato e persino negato qualora non rispetti il patto stretto col cittadino di proteggerlo da agenti esterni e interni che minaccino l’equilibrio fra le parti. Non per caso, l’opera più significativa di Hobbes, il Leviatano, pubblicata nel 1651, si chiude con una Conclusione generale, nella quale la guerra civile, superata con la formazione dello Stato, è tuttavia recuperata come diritto dell’individuo di trasgredire la propria lealtà politica qualora il sovrano non sia più in grado di difendere la vita dei suoi sudditi.

Dal momento in cui Hobbes scolpisce la sua visione, ogni cittadino che si riconosca nello Stato moderno dispone solo di una libertà relativa: ha il dovere di rispettare il patto di reciprocità che lo lega allo Stato. Se si appella al “diritto” (individuale) e alla “verità” (per esempio religiosa), contro le leggi dello Stato, egli deve sapere che sta lavorando in funzione di una guerra e deve assumersene per intero la responsabilità. Alla fine, il cittadino o la fazione che avanzano un diritto o pretendono di imporre una verità potrebbero anche risultare vincenti, ma ciò accadrebbe sulla base di una guerra guerreggiata contro lo Stato, non in virtù della rivelazione di un diritto naturale riconosciuto. Non di meno, anche lo Stato dispone di una libertà relativa: esso deve soddisfare tutti i requisiti del patto cui si è sottomesso, primo fra i quali proteggere la vita e la prosperità dei cittadini, pena la perdita della legittimità.

Il cittadino è tenuto a plasmare la sua identità entro i confini dati dalle leggi dello Stato e ogni sua deroga, ogni sua trasgressione deve poter rientrare all’interno della cornice statuale, come contributo alla prosperità della vita collettiva. Allo stesso tempo lo Stato non può esercitare un potere assoluto, ma sempre e soltanto relativo, perché è a sua volta tenuto a rispettare il patto che lo obbliga a proteggere il cittadino da pericoli esterni ed interni. Esterni sono i pericoli che provengono da potenze straniere; interni sono i pericoli che provengono da minoranze o singole soggettività, le quali, con la violenza o dietro il paravento dei diritti, aspirano ad usurpare il potere totale.

Il Leviatano e l’uomo-macchina

Nella sua visione letteraria Hobbes si avvale della metafora del Leviatano (che dà il titolo alla sua opera più famosa). Il Leviatano è l’invincibile mostro marino che Jahvè, nella Bibbia ebraica e in quella cristiana, oppone a Giobbe allo scopo di dimostrargli quanto l’uomo sia piccolo di fronte alla più potente fra le creature. Ma più efficacemente Hobbes raffigurò lo Stato come un immenso uomo-macchina, un poderoso automa costituito dal numero totale dei suoi membri, ciascuno dei quali esercita, al suo interno, una sua specifica funzione. In questa sua vivida concezione, i bisogni di opposizione e di individuazione di ciascuno si subordinano a quelli di integrazione sociale personali e collettivi, allo scopo di esaltare ogni singola attitudine sociale. In un sistema politico concepito secondo queste regole, nessuno, per quanto dotato, perde la sua individualità, ma sceglie di metterla a servizio della poderosa macchina dello Stato allo scopo di trarne vantaggi. In un certo senso, ciascuno abdica alla sua religione privata ed erige, sia dentro che fuori di sé, un unico tempio, quello dello Stato cui ha deciso di appartenere.

“Il Leviatano”

In questa concezione, mirata alla massima efficienza comunitaria, non c’è posto per l’utopismo del “diritto assoluto alla felicità individuale”, mito sorto nella Francia del Settecento per scalzare la monarchia (come in effetti poi accadde) e poi trasferito negli Stati Uniti, tra il ’700 e l’800, per volontà dello Stato americano con lo scopo di scatenare gli appetiti individuali in direzione di una crescita economica illimitata (come in effetti avvenne). Ma non c’è un posto nemmeno per un misticismo gnostico pessimista e settario che dipinga lo Stato come un labirinto demoniaco: chi come Dreyfuss o come il signor K., la cui storia surreale Kafka narra nel Processo, si trovi a subire una ingiustizia da parte dello Stato non dovrà mai più scivolare in una metafisica negativa da opporre allo Stato, ma potrà e dovrà usare gli strumenti del dibattito pubblico per ottenere giustizia.

La concezione di Hobbes ha infatti la funzione non solo di evitare le guerre ma anche le persecuzioni interne cui furono sottoposte per secoli le minoranze religiose, persecuzioni che diedero luogo a movimenti di ispirazione gnostica che vedevano nello Stato nient’altro che il legittimatore dello strapotere di una parte su tutte le altre. Da Hobbes in poi, chiunque – maggioranza o minoranza – riesca a fare uso della macchina dello Stato per acquisirne il potere totale si pone fuori dalla legge e va pertanto limitato e, se è il caso, punito.

Il “potere indiretto”

Nell’Europa del ’900 e dei primi del 2000 il mito del “diritto alla felicità” è stato accaparrato dall’anarchismo sociale, una potenzialità sempre presente in ogni società, che nella seconda metà del Novecento europeo è cresciuto all’ombra della scomparsa del significato originario del patto che costituisce lo Stato.

Con la fine delle due grandi guerre, il diritto alla pace è sembrato non solo acquisito ma persino ciò che non è: ossia un dato di natura. L’idea che la pace fosse acquisita ha dato a molti la sensazione di poter esercitare diritti abusivi nella certezza che lo Stato, sopravvissuto alle guerre, sarebbe sopravvissuto anche all’anarchia. Non solo, ma che costoro potessero farlo esercitando un “potere indiretto”, cioè un controllo delle coscienze – dei mezzi di produzione del consenso – utile agli “affiliati” ed estraneo a qualunque patto di reciprocità collettiva.

Potere indiretto fu per esempio quello esercitato dalla classe intellettuale degli studenti e dei loro maestri, che nel 1968 ingaggiarono in tutta Europa duri scontri contro la classe docente e contro le forze di polizia. Essi non rispondevano a nessuno, non rappresentavano che se stessi e una quota minoritaria della popolazione studentesca, eppure modificarono stabilmente l’assetto del sistema universitario, uno dei gangli vitali dello Stato.

Ma potere indiretto è anche quello delle religioni o dei mezzi di informazione pubblici che acquisiscono un credito dalla popolazione per trasferirlo alla loro parte politica e alla loro visione culturale e non all’intero corpo dello Stato. In Italia, potere indiretto è quello che la Chiesa cattolica esercita sullo Stato quando suggerisce e favorisce l’obiezione di coscienza del medico dipendente pubblico nei confronti dell’aborto, che è un diritto garantito dalla legge a tutte le donne, cattoliche e non cattoliche. Oppure quando insistentemente predica che il buon cristiano non può non accogliere le masse migratorie provenienti da altri continenti. Utilizza la fede (che è un fenomeno extra-statale) a fini propri, per irradiare il proprio potere e drenare risorse economiche allo Stato nazionale.

Sempre in Italia, potere indiretto è anche quello delle organizzazioni politiche clandestine e delle associazioni di volontariato che si arrogano il diritto di favorire le migrazioni dei popoli senza che lo Stato le abbia ufficialmente autorizzate a farlo: il risultato della loro azione è la violazione anche forzosa delle frontiere, il drenaggio delle risorse pubbliche, il dissesto urbano e una minacciosa crescita della tensione sociale. Non di rado, in questo caso, il governo in carica ignora tendenziosamente che per le emergenze umanitarie lo Stato deve disporre delle sue istituzioni e dei suoi enti, dalla Protezione civile alla Croce rossa ai Vigili del fuoco fino alle Forze armate, e che le azioni di emergenza devono essere effettuate sempre e comunque in subordine all’interesse nazionale. Qualunque cedimento in direzione di interventi esterni sistematici può consentire l’esproprio dello Stato da parte di soggetti terzi. Spesso i governi in carica in Italia hanno trascurato queste ovvietà favorendo di fatto il potere indiretto di istituzioni e comunità esterne, talvolta persino ostili, allo Stato di diritto, che è stato svuotato della sua funzione precipua di proteggere i suoi cittadini, defraudato e messo a disposizione di organizzazioni e comunità a lui estranee. I governi che hanno agito in questa direzione hanno messo a rischio la sicurezza dei cittadini (in senso fisico, sociale, economico e psicologico) rendendosi indegni del loro ruolo.

Queste e cento altre che potremmo evocare sono figure rappresentative delle tendenze anarchiche presenti nel corpo dello Stato. Tendenze entropiche all’anarchia sono sempre attive ovunque vi siano vasti ed eterogenei raggruppamenti umani, ma in Italia – Paese che si è dotato da appena un secolo di uno Stato nazionale, mentre altri Paesi europei vantano tradizioni di quattro o cinque secoli – sono particolarmente attive nel rivendicare diritti e accrescere il proprio guadagno particolare, arrecando danno all’interesse generale.

Carl Schmitt e la Germania nazista

Un periodo di caos simile a quello italiano attuale fu quello in cui precipitò la Germania della Repubblica di Weimar nel decennio che precedette l’avvento del nazismo. Nella Germania di quegli anni, il disordine sociale dovuto a un’inflazione incontrollabile, alla disoccupazione crescente e alla contesa fra partiti estremisti sfociò in uno stato di guerra civile che portò all’instaurarsi di temporanee dittature comuniste – come quella di Monaco, di fatto favorita dall’Unione sovietica – subito represse nel sangue. La maggioranza della popolazione, esasperata, finì per affidarsi a un “partito forte”, che prometteva di annientare la minaccia comunista e di risolvere il disordine sociale, disordine imputato ai patti successivi alla prima guerra mondiale e alla perniciosa influenza della cultura e della finanza ebraiche. Quel partito era il NSDAP, il Partito nazionalsocialista. Nel 1932, in due elezioni successive, Hitler conseguì la maggioranza e all’inizio del 1933 gli fu conferito il cancellierato.

Foto di Carl Schmitt

Interessante al riguardo la vicenda del famoso giurista Carl Schmitt. Di estrazione cattolica conservatrice, egli fu fino al 1933 uno strenuo difensore dello Stato di diritto liberale, tanto da essere inviso alla classe politica emergente nazista. La sua difesa dell’articolo 48 della costituzione tedesca, articolo che dava al Presidente della Repubblica poteri speciali in caso di “stato di emergenza”, era funzionale a impedire che partiti antidemocratici – quali erano il nascente NSADP, il Partito nazista, e il KPD, il Partito comunista di diretta influenza sovietica – potessero prendere il potere per via elettorale per poi modificare la costituzione in senso totalitario.

Poco prima della presa di potere da parte dei nazisti egli vide nella Chiesa cattolica una istituzione anti-statale che si muoveva all’interno dello Stato tedesco per finalità proprie, quindi si dissociò sia da essa che dalla stessa fede cattolica. Da quel momento perse quel sentimento di un Noi trascendente, cioè di una appartenenza forte, che lo aveva fino a quel punto difeso da una deriva conformista. Dal 33 ebbe il solo Stato tedesco come punto di riferimento per dare una base sicura al proprio Io. E poiché lo Stato era ormai nelle mani di Hitler, egli aderì, pur debolmente e senza una vera convinzione, al Partito nazista. Per non perdere le sicurezze acquisite di una cattedra universitaria a Berlino e di un importante incarico pubblico in Prussia cercò di suggerire norme di diritto costituzionale alla gerarchia nazista, che si sentì oltraggiata. Nonostante avesse avuto amici ebrei e fosse sposato con una donna serba (per i nazisti, gli slavi erano una razza inferiore), peraltro amatissima, infarcì gli articoli di quegli anni di osservazioni antisemite, sperando di ingraziarsi il potere; ma venne accusato di opportunismo e ipocrisia. In un’epoca in cui vecchi amici venivano condannati a morte da un giorno all’altro, egli si salvò la vita grazie all’intervento diretto di Goebbels che, per un suo singolare e grottesco paternalismo, ebbe in simpatia intellettuali e artisti “borghesi” caduti in disgrazia. Nel dopoguerra, Schmitt dovette sopportare le accuse, in parte meritate, di complicità col regime nazista. Solo nel corso dei decenni successivi (per sua fortuna ebbe una vita lunga) rinacque come intellettuale liberale al di sopra del cattolicesimo originario, del nazismo di facciata e dell’imperante liberalismo di matrice anglosassone. Fu un devoto studioso di Hobbes e di Machiavelli che ritenne l’uno tradito dall’Inghilterra, l’altro dalla Firenze dei Medici.

Immagine di una parata nazista

Schmitt è l’esempio (molto tedesco) di una dipendenza, ai limiti del patologico, nei confronti del sistema di integrazione sociale. Egli servì sempre e soltanto la Germania del momento, sia quando questa era liberale, sia quando questa divenne nazista. Non sviluppò mai un Io autonomo, che è l’unica “fortezza” cui l’individuo possa fare riferimento quando il Noi contingente, cioè l’appartenenza sociale del momento, sia inadeguata ai propri bisogni e alla totalità della propria personalità. L’Io autonomo può sopportare la violenza del mondo perché poggia su un Noi trascendente che lo legittima in ogni suo aspetto, anche quando si rende abile nella menzogna pur di conservare uno spazio protetto di autonomia interiore.

L’Io autonomo come noi oggi lo concepiamo si è costruito nei secoli avendo per modello gli eroi della filosofia, come il Socrate platonico, che non cede di fronte alla tirannide, continua a dire ciò che pensa e accetta la condanna a morte da parte della città. O anche gli eroi militari, come il greco Leonida, certi e fieri di morire per difendere la patria; o il Gesù ellenizzato dei Vangeli, che accetta il suo destino di morte in funzione di una verità che lo trascende. Questi ideali nascono ovunque nell’Europa classica, ma vengono codificati innanzitutto dalla filosofia greca, in particolare dal sistema filosofico-politico dello stoicismo che presenta nelle sue fila un Marco Aurelio, modello di devozione assoluta alla causa del Noi trascendente (nel suo caso l’Impero romano). L’imperatore e padrone del mondo rinuncia a godere il suo immenso potere mondano e muore sul campo di battaglia a soli 59 anni, come un qualunque soldato, divenendo così uno degli esempi più eclatanti della morale etico-politica stoica.

In sede psicologica, i due massimi letterati dell’Europa moderna, Dante e Shakespeare, incarnano l’Io autonomo nei suoi punti estremi: l’Io autonomo di Dante, sincero fino all’ingaggio della battaglia politica, alla condanna e alla morte in esilio; l’Io autonomo di Shakespeare, reticente e ambiguo al punto di fare dell’arte, quindi della finzione, l’unica sua forma espressiva, evitando con cura i pericolosi gorghi della politica, pur essendo il drammaturgo preferito della corte inglese. Fra questi due estremi, vediamo un Machiavelli che studia e descrive le meccaniche del potere e paga anche lui con l’esilio; un Giordano Bruno che muore arso sul rogo dall’Inquisizione cattolica e un Galilei che fa abiura delle sue scoperte pur di salvare la vita e tramandare le sue teorie nei secoli a venire come parti del campo della scienza, piuttosto che come strumenti dell’espressione etica. Ma vediamo anche un Wolfgang Goethe, che seppe aderire a tutti i poterei politici del momento senza mai perdere un grammo della sua ironica e fulgida autonomia artistica.

Cosa c’entra Carl Schmitt, il giurista che affiancò per un paio d’anni il nazismo pur non credendoci, con questi modelli di intelligenza etica e di astuzia pragmatica? C’entra per difetto, perché mostra con esattezza a che conseguenze possa portare l’assenza di un Io autonomo. Carl Schmitt non sviluppò mai, tranne forse negli ultimi anni, una salda autonomia morale che lo difendesse dal conformarsi al potere costituito. Non ebbe un Io forte: né eroico come quello di Socrate, né polemico come quello di Dante e nemmeno compiutamente ambiguo come quello di Shakespeare o di Goethe.

Nel continuare a scrivere di diritto anche in epoca nazista, Schmitt fu trasparente come un bambino. Nell’esprimere il suo dissenso fu ingenuo in modo sconcertante, in fondo perché ignaro del potere che andava a sfidare. Ciò lo costrinse a goffi e frettolosi tentativi di riparazione, come quando cercò di ingraziarsi la gerarchia nazista con una non richiesta giustificazione giuridica del regime e con tardive prese di posizione antisemite. Nella sua biografia, la paura di perdere i privilegi sociali acquisiti o la stessa vita danno l’idea di quanto fosse debole la sua autonomia morale e puerile la sua dipendenza dal potere del momento. Un intellettuale a lui coevo, Thomas Mann, poté emigrare all’estero senza perdere alcun tratto della sua germanicità proprio perché dotato di un Noi trascendente su cui poggiava la sua autonomia morale: la Germania cui si riferiva era quella di Goethe, non quella contingente del momento.

E cosa c’entra la Germania di Weimar, in cui vissero Schmitt e Mann, con la situazione italiana attuale? In Italia – come nella Germania pre-nazista, ma per diversi motivi storici – non c’è un vero e proprio Stato di diritto, perché la sua architettura è costantemente minacciata da un sottostante, pervasivo stato di anarchia che detta le sue regole. Ognuno vive per sé, esercitando il suo potere indiretto: la Chiesa cattolica determina la politica dei governi nazionali, compreso il favore nei confronti dell’islam locale e delle migrazioni islamiche, perché ha in mente un mondo fatto non di Stati di diritto, bensì di Stati confessionali; la classe politica pensa ai propri interessi personali e di clan, di fatto collocandosi in quella casta sovranazionale che vive di rapina delle risorse locali e di finanza internazionale; una classe minoritaria ma agguerrita avanza ingiustificate pretese economiche sullo Stato, che deve fornire denaro per le associazioni ed edifici pubblici gratis; le organizzazioni mafiose, sparse ormai su tutto il territorio, continuano a fare i loro sporchi affari con sempre nuovi traffici (oggi anche con lo sfruttamento delle migrazioni e del giro di denaro nero e pubblico da esse generato); per finire, un islam minoritario, ma molto esigente, chiede sempre più tutele, denaro e potere. Tirato per tutti i versi, lo Stato di diritto minaccia di andare in pezzi.

L’Italia, a differenza della Germania degli anni Trenta, non corre il rischio della dittatura perché non ha una struttura statale forte che possa supportarla; ma rischia la frantumazione anarchica e la morte sociale e culturale. In questo contesto di analisi, Carl Schmitt con la sua debolezza morale ci fa pensare tanto al tedesco medio di quegli anni quanto all’italiano medio di oggi: entrambi affidati allo stato di cose esistente e pronti a piegarsi a qualunque nuovo potere si appropri dello Stato. La profezia di Michel de Houellebecq di una nazione che si piega per ignavia ai nuovi padroni è oggi più calzante per l’Italia di quanto non lo sia per la Francia.

Per non fare la fine dell’ingenuo Carl Schmitt, l’obbediente giurista del Reich, o dei passivi personaggi dello scrittore francese, dobbiamo riconoscere quale sia il nostro Noi trascendente, l’idea forte di una appartenenza che trascenda il momento contingente e dia fondamento allo Stato di diritto.

Come cambiano le cose con la guerra

Oggi le cose stanno cambiando molto rapidamente, perché siamo di fronte a quello “stato di eccezione” costituito dalla guerra, una delle condizione di emergenza da cui trae fondamento lo Stato. Stiamo riscoprendo che la pace nasce soltanto dalla repressione dell’anarchismo e del tradimento e dalla composizione della guerra interna tra le fazioni. La pace nasce grazie alla costituzione di quel patto sociale che dà luogo allo Stato.

Come in una fotografia del Big Bang, che fissa il momento iniziale della genesi del cosmo, nello stato di emergenza la fondazione originaria dello Stato torna di nuovo visibile. Ecco allora che le azioni di polizia, prima invisibili, possono diventare palesi senza apparire “oscene”; i cittadini (governati e governanti) sono chiamati all’unità dei valori e delle passioni su cui il patto si fonda, quindi sono invitati a fare il loro dovere e ad esigere solo quei diritti che sono di interesse pubblico; infine, se esistono masse di popolazione disomogenee, sul piano dei valori, rispetto allo Stato, questo non può altro che difendersi, quindi individuarle e controllarle. L’autodifesa da parte dello Stato è un meccanismo automatico, intrinseco alla sua natura giuridica di patto di reciprocità stipulato fra gli individui di una comunità, che lo Stato si obbliga a onorare pena la sua illegittimità. Quando vediamo la polizia e l’esercito che sorvegliano le strade, le stazioni, i porti e gli aeroporti, quando veniamo a sapere che forze militari speciali sono impegnate all’estero, quando vediamo le popolazioni locali insorgere chiedendo sicurezza, in quel momento siamo di fronte alla rifondazione dello Stato: come in un viaggio a ritroso nel tempo o in una visione strumentale diretta del DNA, noi vediamo l’essenza originaria dello Stato, la sua prima cellula, le sue dinamiche fondanti, il momento di costituzione che si rende di nuovo attuale.

Immagine di un militare sullo sfondo del Colosseo

Ecco allora spiegato il conflitto sociale (che se non accolto potrebbe sfociare in imprevedibili forme di resistenza civile) che sta per attraversare l’Occidente, in parallelo con la guerra militare già in atto. A forze non statuali che perseguono interessi propri (per esempio forze religiose, politiche e finanziarie anti-statali) si opporrà non già la sola polizia, ma la massa generale della popolazione, la quale intende continuare a riconoscersi nello Stato di diritto. In molti Stati europei la popolazione ha fornito indicazioni elettorali di forte protesta, spostandosi sempre più a destra; e in conseguenza di ciò i governi (della destra governativa o della sinistra), per salvare il residuo consenso elettorale, hanno serrato i controlli di polizia, sia alle frontiere che sul territorio, ottenendo il benestare della maggioranza.

Solo l’Italia – paese i cui eletti hanno la possibilità legale di tradire il mandato elettorale e i cui governi hanno l’abitudine di comprare il consenso aumentando il debito pubblico e l’anarchia generale – mantiene ancora in piedi i vecchi assetti, salvo la nascita del Movimento 5 stelle, un movimento politico che contesta la caduta economica e morale dello Stato, ma evita però di ingerirsi, almeno per il momento, in questioni di politica estera.

D’altra parte l’Italia non è mai stata così male: l’immenso debito pubblico la espone ai ricatti della finanza internazionale; le attività economiche private sono state costrette all’emigrazione o al fallimento da una politica fiscale medioevale; la disoccupazione è cresciuta fino a raggiungere livelli inediti; si creano posti di lavoro fittizi come quelli, appunto, del volontariato, che prosperano con l’assistenzialismo di Stato a danno del debito pubblico; infine, alla progressiva desertificazione biologica, dovuta alla grande difficoltà dei giovani di metter su famiglia, si risponde con l’accoglienza indiscriminata di popoli stranieri perlopiù inetti al lavoro, resistenti allo Stato di diritto e con un tasso riproduttivo due o tre volte maggiore di quello italiano.

È prevedibile che la popolazione italiana sarà travolta col tempo da difficoltà sempre più gravi, al limite del sostenibile. È dunque possibile che chieda allo Stato che agisca in sua difesa, perché si sente minacciata nella sicurezza fisica, economica, sociale e psicologica. A questo punto il bisogno di opposizione individuale e collettivo riprenderà vigore. La popolazione minacciata si sentirà autorizzata a opporre un “diritto di resistenza” inteso a ricordare allo Stato la necessità della propria salvaguardia. Per ottenere ciò, qualunque popolo è costretto a imporre allo Stato (quindi ai governi che ne hanno il parziale controllo) il patto di reciprocità, patto nel quale, all’offerta della disponibilità a trasformare la propria libertà individuale in obblighi giuridici e doveri civici, chiede in cambio la sicurezza di cui ha bisogno.

Ciò accadrà anche in Italia, a meno che il popolo italiano non abbracci, nella sua maggioranza, una qualche forma di suicidio collettivo, come gioire dell’emigrazione dei figli verso i paesi anglosassoni; fornire assistenza alle masse migratorie straniere a spese dei molti milioni di disoccupati italiani; continuare a indebitare il Paese per far sopravvivere governi i cui membri (non eletti, ma nominati) mirano al solo interesse personale. Si tratta in effetti di tecniche di suicidio che il popolo italiano ha praticato con un certo entusiasmo, come in una delirante festa da ballo sul ponte del Titanic durante il naufragio.

Nondimeno sarei propenso a pensare che, essendo vicino al tracollo, il Paese sia nella condizione di riconoscere le politiche autolesioniste che ha sino a questo momento abbracciato. Emigrazione dei giovani, immigrazione incontrollata, creazione di associazioni di soccorso private a spese dello Stato, fiscalità medioevale a carico delle piccole imprese, evasione fiscale garantita per gli stranieri, annientamento delle piccole imprese a favore delle multinazionali, difesa delle banche piuttosto che dei risparmiatori non sono state espressioni di libera, intelligente e compassionevole volontà di apertura al mondo, bensì subdole istigazioni al masochismo collettivo da parte di poteri indiretti che hanno perseguito il proprio interesse.

L’Italia ha dormito a lungo. Il risveglio potrebbe essere amaro, come da un incubo. Non di meno, è auspicabile essere lucidi e consapevoli piuttosto che persistere nell’errore di negare e ignorare la realtà.