Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Africa

Premessa

Negli anni fra il 1990 e il 1998 scrissi queste cinque poesie dedicate all’Africa. L’occasione era in verità non tanto politica quanto intima: il ricordo di anni remoti vissuti – a Roma, negli anni fra il 1977 e il 1982, dunque fra i miei ventidue e ventisei anni – ospite di una famiglia somala, che mi adottò come un figlio. All’interno di questa vasta famiglia – un vero e proprio clan – ebbi delle fidanzate, amai delle donne.

“La negra”

L’infibulazione di cui parlo qua e là in questi componimenti è una pratica rituale africana che implica la mutilazione della donna delle sue parti sessuali: clitoride e grandi e piccole labbra, e la conseguente cucitura dell’accesso alla vagina. Una volta effettuata l’infibulazione, i rapporti sessuali – funzionali al solo “piacere” maschile e alla riproduzione – non potranno che essere per la donna atrocemente dolorosi. Una pratica disumana, retaggio della più arcaica possessività maschile nei confronti della sessualità e della riproduzione femminili. Per inciso, vorrei dire che le mie fidanzate, con le quali ebbi normali rapporti sessuali, appartenendo ad una cultura mista non avevano subito questa tortura.

Nelle presenti poesie, l’infibulazione vi appare come mutilazione dell’anima, oltre che del corpo, e si pone quindi come simbolo altissimo di ogni umana limitazione. Hawa (il personaggio centrale di queste poesie, una mia personale “Eva”) vi si manifesta come una figura multipla e trascendente: è l’antica e segreta depressione di mia madre; è quanto del mio passato non ha potuto venire alla luce perché irreparabilmente perduto; è l’Anima – nel senso junghiano del termine – o l’oggetto antitetico – nel mio linguaggio –, o ancora il dolore assorbito nella pratica clinica: tutte queste istanze vivono in Hawa e premono per essere accolte da uno sguardo, riconosciute e messe in luce, riportate a piena vita.

Che dire del dolore nella pratica clinica? David Cooper disse, una volta: L’inconscio è il terzo mondo della psiche, volendo suggerire che l’inconscio è un mondo negletto e abbandonato come i paesi poveri del pianeta. Le cinque poesie che vi propongo, oltre a quanto già detto, sono l’inconscio dell’attività psicoterapeutica. Parlano di un argomento specifico, l’infibulazione, l’orrenda pratica di mutilazione del genitale femminile; ma in sostanza sono evocative di un argomento correlato: il dolore delle esistenze “mutilate”, ossia non realizzate. Uno psicoterapeuta vive sempre a contatto con questo dolore (più o meno esplicito): i pazienti gli inviano di continuo i segnali di questo dolore e lo chiamano a parteciparlo. A un capo della sua pratica clinica, egli ne fa oggetto di azione terapeutica attraverso l’analisi del transfert e del controtransfert: l’analisi consapevole delle emozioni inconsce che il paziente gli destina personalmente e della sua personale risposta emotiva. Ma all’altro capo (su un polo meno cosciente e razionale), molte di queste emozioni non vengono elaborate e restano “nell’aria” (o nell’anima) come stati psichici rimossi e abbandonati, pregni di una richiesta di aiuto non verbalizzata. Queste cinque poesie, mentre parlano della donna africana, sono il simbolo della mia elaborazione poetica di questi stati psichici non verbalizzati.

Dunque c’è, in ognuno di noi, qualcosa che non ha potuto vivere appieno e che non cessa mai di dare segni della sua esistenza, allo scopo essere individuato, riscoperto e portato a nuova nascita.

Questa parte rimossa e involuta la vediamo talvolta come un bambino che langue dentro di noi, oppure come un demone imperioso che prima o poi ci colpirà, deluso dalla nostra disattenzione. Altre volte – come in questo caso – ci si mostra invece come un partner erotico carico di rimpianti o di promesse. Questa relazione complementare è parte imprescindibile della nostra psiche: tutti noi siamo animati dal bisogno di una relazione viva, attiva, pronta all’amore. Solo l’essere in rapporto con questa alterità complementare ci consente avere almeno un’intuizione delle nostre potenzialità umane e della nostra inafferrabile “completezza”.

Hawa

“La negra”
Ancora torni in sogno, Oscura,
come quand’ero giovane e t’amavo
nel sangue. E nell’illusione pura
della mente t’inseguivo, schiavo

del tuo color d’ebano e d’ambra,
folle del tuo sguardo, che languiva
come una luce smorzata nell’ombra.
Stanotte la tua imago era viva

scena della memoria, animazione
strenua del desiderio, piaga
cicatrizzata di malinconia.

Ho visto, Hawa, la tua infibulazione,
segno d’una pazienza antica, paga
di silenzio – e di muta rassegnazione.

Il segno

Il segno che porti nella carne, mio
segreto sogno, mia desolazione,
è bellezza rigettata nell’oblio,
perenne imperscrutabile visione.

Continente rimosso nell’assenza,
umanità che si trascende in pura
essenza, Africa senza pace, senza
futuro. Lascia ch’io veda la paura

che mi chiude il cuore, che cada
il velo che ti copre e che di dura luce
tu sia infine apparizione fuggitiva.

Il segno che porti inciso in viva
carne è il silenzioso abisso di violentata
pena che il male ovunque scava.

Vai fantasma del mio amore...

Vai, fantasma del mio amore,
vascello che scivoli su un mare
azzurro d’iniquità… Risorgi mio dolore
e va’! Plana su quelle amare

sponde e mostra ciò che vedi: un cuore
escisso dal suo petto, e assassinato.
Quale amore fu disfatto? C’è l’orrore
folle del gesto che le ha tagliato

il ventre, che le ha reso l’occhio cieco
per la più nera eternità. Hawa, offesa
donna del tempo della Creazione,

che su aride rovine e fuoco
di rimpianto ti levi e bruci, accesa
di volontà – e di muta disperazione.

Guardami

Volgiti ancora e guardami in attesa.
Guarda la mia vista mutila, rapita.
Guardami pentito d’averti carpita
alla tua solitudine di sposa,

sottratta alla sconfinata lontananza
in cui ti tiene la tua ferita accesa
– il taglio di cui mostri e celi la presenza –
scavata nelle carni e nel dolore incisa.

Lo sguardo mio che sfiora l’offesa
mutilazione fa gemere la stanza,
reciso dal suo lume.

Con gli occhi cerco invano la speranza,
in te, da chi piagata di sofferenza ha già
donato tutto, milioni di anni fa.

Africa

Foto decorativa
Perché il tuo sguardo, amata
mia oscura, mi getti ancora
come di vittima sacrificale
e la tua bocca apri appena,
come una ferita che inviti al male?
Perché, mia livida creatura,
torcendoti sui fianchi
la corda ora mi mostri,
la corda che ai polsi ti costringe?
Forse perché io non sappia mai
se é un richiamo d’amore
quello che mi dai,
benché abissale,
o perversione pura?
E perché allora, amore mio carnale,
perché d’un tratto
fissandomi negli occhi
uno sguardo dolente tu m’implori
là dove sorge il tuo,
di luce morta e dura,
e sul tuo corpo prigioniero
nel vuoto d’una stanza?
Perché io veda infine
che cosa sei realmente?
Veda che tu sei l’Africa intera,
la più cupa essenza luminosa
che non sia né luce né speranza
ma che trascende
i vertici più estremi del sangue
per divenire fuoco?
O perché io sappia, amore,
che sei per me vagina,
eterna, incandescente,
antro di delizia e di tormento
dove il lampo di violenza
ch’é nel cuore
trapassi in vento abbacinato,
in buio cieco ed assoluto
che bruci te e bruci me,
luce perenne e senza fine
e tenebrosa felicità demente,
che ci trascenda noi due confusi
in un lampo della mente,
e ci cancelli infine
in un solo inusitato
e illuminato
Niente?