Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

“Non esser triste come un albero”

“L’uomo che cammina” (1960), scultura in bronzo di Alberto Giacometti.

Talvolta, anche una breve sosta dal barbiere può produrre intuizioni e rivelazioni d’una portata e d’un rilievo stupefacenti.

Sono seduto su una comoda poltroncina nera, nel salone del mio barbiere, in attesa che venga il mio turno. Per le mani ho un giornale che urla i suoi titoli: Israele entra nei territori; un diciassettenne palestinese si fa esplodere a Tel Aviv in mezzo a una folla di madri e bambini all’uscita di una scuola: corpi straziati ovunque; gli Stati Uniti si preparano a bombardare un paese accusato di terrorismo; una coppia di ragazze ha picchiato brutalmente una coetanea, costringendola al ricovero; una madre è accusata di aver assassinato il figlio, ma lo nega pervicacemente: Sono una persona normale, grida, e tutti hanno un brivido, perché sanno che è vera l’una e l’altra cosa.

Sconfortato, sospiro sulle pagine spiegazzate: anche oggi, niente di nuovo sotto il sole.

Distrattamente sollevo gli occhi per osservare a che punto è il lavoro del barbiere.

Il cliente che mi precede è un signore anziano e distinto: un vecchietto magro di media statura, piuttosto pallido, i capelli bianchissimi. Lo colgo con un’occhiata trasversale mentre ignora la sua immagine allo specchio e non s’accorge d’essere osservato. In questo frangente, la sua figura non evoca altro che ciò che è: un comune vecchietto, forma pura della vecchiaia, concreta e astratta allo stesso tempo, come sospesa nell’aura di un’indicibile malinconia, quella prodotta dalla sua nuda innocenza, dallo sperdimento della sua fragilità, della sua più inerme, inconsolata umanità.

Stupito da tanta dolcezza – che mi evoca altre immagini dense di commozione: un bambino solo in un asilo che attende una mamma che non viene; una ragazza delusa nel suo amore, lasciata sola ad una festa; un gattino agonizzante sul selciato d’una strada – percorro le linee del suo viso, la sconfinata apertura sull’infinito generata dalla sua semplice presenza. Benché non mi chieda nulla, essendo inconsapevole del mio sguardo come lo può solo un animale ferito a morte che subisce la sua pena in un rantolo cieco, tuttavia il suo volto è per me un enigma ipnotico, che esige l’attenzione del mio sguardo e tutta la pietà di cui mi sento capace.

Ed è proprio in quell’istante illuminato dalla pietà che scorgo d’un tratto nello specchio in cui si riflette il controsenso assoluto, l’impensabile: ciò che la Arendt, con felice ossimoro, ha chiamato “la banalità del male”. Sollevato il capo – che un istante prima giaceva reclinato in una posa candida e mesta – lo sguardo del dolce vecchietto incontra, come per caso, il suo stesso volto, riflesso nello specchio. Vedo allora che il taglio richiesto al barbiere è la strana antitesi di tutte le sensazioni che avevo sino a quel momento ricevuto dalla pallida figura: si tratta di un taglio cortissimo, rigoroso, a spazzola, leggermente asimmetrico e sgraziato, che mi fa pensare a un giovane punk, a uno skin head, o forse a un ufficiale nazista risorto dalle ceneri di un lungo occultamento. Ma ciò che più mi stupisce è lo sguardo che colgo negli occhi dell’incredibile vecchietto nell’istante fulmineo della sua autocoscienza: c’è il giubilo di vedersi e, insieme, un lampo di purissima malvagità, un ghigno d’esultanza e di rabbia ferina e gioiosa, improvvisamente libera, dissepolta da chissà quale remoto cimitero di tristezze e di malinconie. Vedo allora la sconnessione istantanea fra il corpo e l’anima: lo spirito, duro come una lama, ha agito con lucida, metallica violenza: odia quello stesso corpo che invece io un attimo prima stavo considerando con pena e quasi con amore; e odia l’anima, che quel corpo ha generato come una madre genera un bambino che le somiglia. Dall’istante in cui è saettato il gelido sguardo, quel corpo non è più la sostanza animale, nuda e inerme, da me contemplata un istante prima: è un mero supporto, materia debole da trasformare in macchina per rapporti e trasporti d’odio. Trasceso nel taglio aggressivo dei capelli e nel folle sguardo obliquo, quel corpo mostra in una luce tersa e dolorosa l’odio che la mente dell’uomo prova per la sua stessa anima, l’anima che ha la colpa di unire, col suo solo esistere, tutte le cose – gli esseri e gli oggetti – in un’unica, infinita trama di rimandi e di consonanze. E come in risposta a quel lampo d’odio, al fuoco inceneritore sortito da quello sguardo sottile come una lama, l’anima s’è ritratta, s’è eclissata dal vecchio corpo, dalla sua forma materiale, lasciando l’immagine corporea del candido vecchietto arida e pura come le pietre e i solchi di un deserto: svuotata d’ogni dolcezza o simpatia o semplice, umana accessibilità. L’anima ha avvertito la sofferenza improvvisa del corpo scudisciato dall’odio e, reagito al suo appello, è scomparsa, quasi evaporando, fino a rendersi del tutto assente dal campo percettivo... Ma – se essa ancora da qualche parte esiste – per finire dove?...

La risposta è fulminea quanto lo stupore generato dalla mia domanda. È proprio qui, mi dico, s’è rifugiata nel mio sguardo! È qui che – in una sorta d’invisibile metempsicosi – l’anima è trasmigrata; ed è da qui che prova compassione di quello sguardo, di quella forma perversa e futile di autocoscienza, condannata all’esilio permanente dal parco luminoso degli amori, dalla dolcezza delle unioni, dal giardino estatico dei cieli e delle stelle confusi in un unico abbraccio.

L’ha voluto lui, mi dico. Ma non lo sa: ha perso il diritto di saperlo. Io vedo, vedo ogni cosa; mentre lui ignora persino di essere visto. È in questa indistruttibile presenza, in questa inafferrabile trasmigrazione, in questa impercettibile inerenza a tutte le cose, l’invincibilità dell’anima. Sopravvive ad ogni volontà, anche alla più demoniaca e perversa, semplicemente perché la antecede e la determina, riempiendo di senso tutto ciò che essa, la volontà, nella sua insuperabile, intrinseca miseria, lascia di vuoto e di irrisolto.


Negli anni dei miei studi universitari alla facoltà di Psicologia di Roma, girava per le strade della città un noto antipsichiatra d’antan. Era stato della corte di Basaglia quando Basaglia era “vincente” e andava di moda; poi, traditolo con un gesto che fece scalpore, chiese e ottenne di accedere alla casta degli psicoanalisti ortodossi. Già non parlava più, nelle sue lezioni, dei vizi e dei mali della società; alludeva piuttosto alla malvagità dell’uomo, rifacendosi alla freudiana “pulsione di morte”. Girava ancora sulla sua moto sgangherata, con gli occhiali a molla da pilota, come si usava quando l’identificazione col matto e col teatrante alla Artaud era quasi una moda culturale; ma i suoi pensieri avevano preso tutt’altra direzione. La sua nuova scelta si rivelò ancora una volta vincente; l’Italia aveva bisogno di certezze, di una nuova stagione di yuppismo e di rampantismo, di fiducia nei mezzi e nei fini del sistema: non voleva interrogarsi sui mali che insidiavano l’anima da ogni margine e da ogni confine. L’ex antipsichiatra pubblicò libri che parvero colti e complessi, stipulando patti con le più grosse case editrici. Nei cenacoli dove si continuava a cercare ostinatamente il rapporto fra il dolore morale degli uomini e le strutture della vita sociale egli era ancora stimato, circonfuso da un’aura simile ad un culto della personalità (benché qualcuno, in verità, cominciasse a nutrire dei dubbi).

Di recente, infine – quasi a conferma e coronamento della sua sostanziale coerenza nel perseguire a tutti i costi le strategie della dominanza – egli ha pubblicato un nuovo libro, che esprime con chiarezza il suo attuale pensiero. Con questo passo decisivo, lo psichiatra è uscito dalle comode ombre della villa padronale della Società di Psicoanalisi, dove ha vissuto con agio negli ultimi vent’anni, per entrare con le carte in regola nella festa del Grande Mercato Globale. Il nuovo libro – edito da una nota casa editrice – è un volumetto sulla depressione, ad uso di tecnici e di gente comune, colpita, in modo diretto o indiretto, dalla cupa malattia.

Ecco a volo d’aquila, alcune delle lapidarie affermazioni ivi contenute.

Da un terzo alla metà dei grandi scrittori e poeti e degli artisti di genio soffre di un disturbo bipolare.

Bella constatazione, molto suggestiva, alla quale potremmo aggiungere la precisazione che la strana malattia tocca in verità nella stessa proporzione non solo l’artista, ma l’uomo di genio in genere, anche di scienze astratte come la matematica, la fisica, l’astronomia. Volendo confinarla nel ristretto ambito degli inquieti patologici, lo psichiatra riesce solo a gettare un mantello di mistero sulla strana malattia. Non di meno, lo psichiatra, questo eroe dei nostri giorni, fa seguire altri perentori, terribili giudizi. Eccoli:

Esiste un fattore culturale particolare, che da un quarto di secolo contribuisce in Italia ad allontanare i depressi da terapie efficaci. Esso è dato dalle ideologie ostili alla biologia moderna, alla medicina e al metodo sperimentale. A partire dalla metà degli anni ’70 si diffusero varie correnti di idee che, in concorso tra loro, trovarono un fertile terreno nella tradizionale mancanza di cultura scientifica tra gli italiani e nel lascito della filosofia idealistica. Intorno al 1975 un qualsiasi psichiatra, fosse pure schierato a sinistra, veniva pubblicamente deriso quando aveva l’imprudenza di scrivere che la depressione era legata a fattori genetici e che anche l’elettroshock poteva servire a qualcosa. È vero che le implicazioni politiche, di tipo spontaneista, che in quegli anni erano proprie di un vasto schieramento di opposizione giovanile persero rapidamente terreno con l’esaurirsi di quel decennio: in compenso, però, tornarono subito a farsi sentire con più forza, e talora in forme nuove, i tradizionali richiami spiritualistici circa i misteri della mente umana. L’idea che ogni disagio psichico dovesse avere esclusive cause ambientali e psicologico-esistenziali si legò, malgrado gli avvertimenti degli studiosi più seri, al diffondersi di orientamenti eccessivamente psicologisti [...]. In un simile clima gli psicofarmaci antidepressivi, che ormai da molto tempo rappresentavano il caposaldo del trattamento della depressione, cominciarono a essere criticati sempre più frequentemente. Questa impostazione ideologica permeò la media cultura degli anni ’80 e di una parte degli anni ’90 [...]. Il prezzo sociale e umano (anche in termini di vite spezzate dal suicidio) di questa forma di incultura clinico-scientifica è stato alto. Solo da pochi anni la situazione è andata lentamente migliorando.

In cosa consistono i vantati miglioramenti? Eccoli descritti con compiaciuto sadismo dall’amabile psichiatra:

Soprattutto a partire dalla fine degli anni ’70, studi accurati dimostrarono che l’elettroshock è un presidio non solo utile, ma anche ineliminabile... Sappiamo oggi che vi sono casi ben precisi in cui non vi sono altri trattamenti adeguati, e dove il suo uso può dare miglioramenti non solo risolutivi ma anche molto rapidi... L’ES è attualmente usato soprattutto quando la cura farmacologica della depressione maggiore non si rilevi efficace. Tuttavia vi si ricorre anche in certi casi dove, invece, gli psicofarmaci non vengono utilizzati per primi. L’ES è infatti il trattamento di prima scelta nei casi di depressione molto grave con rischi immediati di suicidio [...] nelle depressioni in gravidanza [...] nonché in molti casi di depressione degli anziani. Inoltre è efficace nelle fasi maniacali, ed è indispensabile quando gli episodi maniacali e quelli depressivi si succedono con frequenza.

Quanta acqua è passata sotto i ponti! E quanto frettolosamente!

Non pronuncerò il nome dell’illustre psichiatra: è indifferente. In effetti – come il vecchietto che ho sbirciato di nascosto nel negozio del barbiere – egli potrebbe non avere alcun nome ed essere, alla lettera, “chiunque”. La compiacenza nel cercare la vittoria, camminando su un tappeto di morti, lo rende tristemente simile a tanti. A lui voglio opporre solo una breve considerazione morale (poiché ormai siamo del tutto al di fuori di ogni ragionevole discorso scientifico): chi colpisce me, colpisce se stesso; uccide l’anima di cui è dotato, e la costringe a trasmigrare altrove, sulla sponda opposta e complementare alla sua.

Quindi gli contrappongo soltanto una breve poesia, scritta da uno psicotico manicomiale poco prima di suicidarsi. Dalla sacra sponda della morte, il poeta “malato” suggerisce al suo interlocutore una soluzione che con ogni probabilità l’altro, lo psichiatra, non potrà mai più né udire, né tanto meno capire. Forse talvolta lo psichiatra avvertirà la soluzione del poeta in un tacito bisbiglio, in una notte traversata da incubi; o forse gli apparirà traslata nel ricordo improvviso di un amore perduto, o magari di un figlio morto suicida come il nostro poeta; ma non riuscirà mai più – crediamo – a intuire in essa i segni di una grandezza che lo trascende.

Ho ripreso la poesia da un volumetto antologico alla cui compilazione io stesso partecipai di persona, adoperando le mie mani per ribattere pazientemente a macchina carte scomposte e disperse e per raccogliere i fogli in un tomo coerente.

Il poeta ha redatto il suo breve componimento nella stessa lingua in cui sono scritti i pensieri del nostro psichiatra. Eppure, l’immagine del poeta si profila dalla distanza di un’irriducibile estraneità, dalla quale sembra giudicare con fredda indifferenza la follia del caso che pose l’illustre psichiatra in cima al trono e lui, matto e suicida, ai suoi piedi.

Ecco la poesia; s’intitola

Notte stellata

L’abete vicino al lago
trafigge il corpo della luna
e, sangue blu nero
si versa da quella signora 
dalla faccia argentata
la cui immagine si riflette
sul dorso di pesci dormenti.

Non esser triste come un albero
non piangere dopo che la pioggia
ha smesso.

Non colpire il tuo simile – dicono i versi –; non fare come l’albero che ha cercato di uccidere la luna, restando solo e disperato nel pianto della pioggia. Ciò che hai tentato di sopprimere si riflette ovunque, come un’immensa eco luminosa. Non colpire il tuo simile; non farlo: non sentirti mai superiore. Non cercare di salvare te stesso a scapito degli altri. Indurendoti in una solitudine sprezzante ed altera trafiggerai la tua stessa anima, la madre del mondo, restando solo e triste col pianto desolato del colpevole. Ciò che soffre uno, lo soffrono tutti; ciò che soffrono tutti, lo soffri anche tu. Nessuno è diverso da un altro; nessuno può salvarsi da solo.

Vedi l’anima che hai cercato di uccidere come si riflette ovunque intorno a te? Vedi l’immensità del suo pensiero? Il gesto di ucciderla, mio caro, la moltiplica all’infinito.