Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Notturno

Le strane voci gutturali urlarono brevi frasi smozzicate in un idioma sconosciuto. Provenivano da fuori, dal cortile antistante la casa. All’interno, seduti uno di fronte all’altro nelle rispettive poltrone, i due uomini si guardarono negli occhi. Uno era biondo e aveva indosso una divisa militare. All’apparenza un tipo freddo e calmo, sicuro del fatto suo. L’altro era bruno, pallido e nervoso e indossava vecchi abiti strappati e impolverati.

Sono ucraini, estoni, lettoni, lituani. Molto obbedienti, efficaci, disse il giovane biondo in uniforme, riferendosi alle voci. Tornò a fissare l’altro con intensità, coi suoi occhi glauchi dai freddi riflessi azzurri.

Sono... ariani come voi? chiese il giovane dai capelli e gli occhi bruni, stagliati come macchie d’inchiostro su un volto pallidissimo.

Gli slavi no, loro no. Quelli che appartengono ai popoli germanici sì... loro sono di razza ariana... ammise l’altro. Fissò davanti a sé quel fantoccino pallido ripiegato su se stesso con il quale s’era impelagato in una discussione troppo grande e si domandò perplesso se quegli fosse in grado di comprendere i suoi concetti. Poi, pigramente – poiché aveva un tempo infinito di fronte a sé, una landa sconfinata di noia –, si decise ad articolare il suo pensiero: Il loro corpo è perfetto disse. In effetti, proveniamo dallo stesso ceppo razziale. Ma alcuni di loro, molti secoli fa, si sono mescolati coi ceppi asiatici, inferiori. Altri no, sono rimasti puri. Comunque, rispetto a noi non sono altrettanto perfetti nello spirito. Lo disse come fosse un’ovvietà, con stanca condiscendenza. Il loro è uno spirito bruto, che si è allontanato dalla purezza originaria. Lo spirito germanico non si è ancora risvegliato in loro... disse, e si aggiustò il ciuffo disordinato con un gesto molle della mano, ... nonostante il contatto con noi. Sceglieremo i tipi puri e dovremo riprodurci con le loro donne, allevare con cura i piccoli che nasceranno da questi incroci e, nell’arco di una o due generazioni saremo di nuovo un’unica razza.

Il giovane bruno sospirò, e gettò un’occhiata in direzione della finestra. Rimase affascinato dalla luce che filtrava nella stanza attraverso la cortina grigia della polvere. Forse stava invidiando la condizione di quei rudi miliziani di razza ariana che si agitavano per le strade e più ancora quella dei futuri figli del grande Reich, non ancora nati. O forse era intento a ricordare con nostalgia l’antica condizione di libertà, che gli parve ora – contro ogni realismo – perduta da un tempo immemorabile.

Fuori ci furono delle urla rauche – come se quegli uomini stranieri stessero impartendo ordini – e una corsa di passi concitati, poi due brevi raffiche di mitra. Un urto. Qualcosa, di colpo, era caduto al suolo, come un sacco di patate. Un uomo – o una donna – doveva essere stato ucciso lì sul posto. Aveva cercato di fuggire? O forse si era solo distratto per un istante – aveva deviato da una fila, urtato un miliziano, non aveva ceduto una precedenza... – provocando la subitanea reazione degli aguzzini? Impossibile dirlo, e per il morto, di sicuro, la cosa non aveva più importanza.

Allora...? Oggi non si lavora? disse il giovane ariano con un sorriso cortese tagliato sul viso asciutto. Aveva una palpebra leggermente più bassa dell’altra e su quella più pesante si distingueva una lieve protuberanza scura. Un calazio, pensò l’altro, che aveva studiato medicina per un anno, prima dell’occupazione. Si manifesta quando l’occhio è inaridito, quando non piange più. Ci vorrebbero delle lacrime artificiali.

Pianoforte

Naturalmente!» disse «certo che si lavora!. Si sollevò dalla poltrona e parve per un attimo avere un cedimento, forse un capogiro; poi, si diresse verso il piano. Il maestoso strumento musicale lo attendeva come un immenso corvo nero sulle cui ali si fosse posata la polvere di un deserto.

La sagoma inquieta del ragazzo si stagliò come un’ombra nel paesaggio desolato della stanza. In quello spazio vuoto, che era stato fino a pochi anni prima la sala della loro vecchia abitazione, un salotto dal lacero tessuto a fiori faceva gli onori di casa assieme all’unico altro mobile rimasto in piedi: il grande Steinway dalla lunga coda nera accostato alla parete, il tetto dell’ampia cassa gonfio e incrinato, una delle tre gambe azzoppata poggiata sul suo moncone, i pedali incrostati di fango e polvere.

Ancora una volta, come il giorno prima, il giovane dai capelli bruni passò con cura la mano sulla larga superficie scura dello strumento, per lucidare il dorso di legno, il quale tuttavia al di sotto del manto di polvere appariva irrimediabilmente graffiato.

Sedette sullo sgabello e di nuovo, come il giorno prima, egli si sentì simile a un burattino cui avessero tagliato di colpo i fili. Un grave sentimento di sconforto sembrò abbatterlo nell’intimo, una stanchezza infinita che gli rendeva plumbeo e faticoso ogni movimento. Sostò immobile alcuni secondi, gli occhi infossati nel volto pallido, le braccia inerti e senza vita. Un attimo dopo le sollevò in alto all’altezza delle spalle, lasciò cadere i polsi e le dita delle mani, e in quella posa curiosamente ad arco le sue magre braccia furono per alcuni istanti come le ali di un’aquila pietrificate in volo, sospese su un abisso, pronte a calare sull’inconsapevole preda.

Poi le dita caddero e di colpo egli prese a suonare. La stanza parve contrarsi in un moto di stupore. Ed era, in effetti, magico e terribile come, ogni volta, quel misero burattino senza vita, al solo contatto con la musica, potesse trasformarsi in un demone animato da un’oscura potenza sovrumana!

Il giovane tedesco ebbe un brivido di orrore.

Le note si sollevarono nell’aria profonde e misteriose, pareva impossibile che in quella stanza potesse librarsi una tale densa materia sonora. Non c’era termine di confronto: la musica aveva tutti i toni e tutti i colori, in più occupava uno spazio di cui era impossibile definire i confini; la stanza era piccola al confronto e grigia di polvere di calcinacci, immersa in una luce fioca e spettrale. In verità la musica sembrò d’un tratto l’unica cosa viva in tutto il mondo, e i due giovani non furono altro che poveri cadaveri sfiorati da un’energia infernale, inconsapevoli come ombre o come sogni della loro morte già avvenuta.

Le dita del giovane bruno si muovevano con agile semplicità, senza alcuna enfasi. Pareva che egli stesse componendo sul pianoforte non solo una musica ma anche un trattato sull’arte di vivere. Nei suoi gesti parchi ed essenziali non v’era spazio per alcuna retorica: quella musica, così eseguita, poteva essere portata ovunque, come un linguaggio modesto e senza fronzoli o come uno sguardo nudo e senza speranza. Era un notturno di Chopin, il notturno n. 1; una musica proibita: Chopin era un polacco, eseguirlo in terra di occupazione era considerato un atto sovversivo, che si poteva e si doveva reprimere con la morte. Ma era il 14 gennaio del ’43, nel ghetto di Varsavia era in corso da mesi l’evacuazione totale, senza alcuna resistenza da parte della popolazione ebraica, e la musica veniva eseguita su richiesta di un ufficiale delle forze tedesche di occupazione. Nulla era strano in quei giorni: uomini informi dentro logori indumenti, la stella gialla cucita sul braccio, correvano in qua e in là, come uccelli impazziti. Cercavano disperatamente un ultimo favore, non per sé ma per i propri cari: mogli, madri, figli. Li si vedeva inginocchiati di fronte a ragazzini in uniforme, che li fissavano coi loro occhi gelidi e passavano oltre, quando non li scalciavano via come cani. Donne venivano brutalizzate sui marciapiedi: picchiate perché avevano osato implorare che i loro figli – non tutti, anche uno solo – fossero adottati da un miliziano tedesco; molte si prostituivano – con chiunque, ariano o non ariano, fosse stato disponibile – per un ultimo, vitale favore. Lì qualcuno cercava di vendere un violino, scampato al sequestro, in cambio di un pacco di sale, di due patate. Più in là si barattava un gioiello nascosto fra gli indumenti, o rapinato a una donna indifesa, in cambio di un posto su un camion diretto a nordest, verso improbabili campi di lavoro. I bambini, scarni e infagottati come passerotti allo sbando (i pochi scampati alle deportazioni che ancora resistevano al freddo e alla fame) trafficavano i gioielli delle madri in cambio di alimenti, coi grandi occhi tondi e deliranti, il volto invecchiato di colpo. Gruppi familiari si mettevano spontaneamente in fila, assieme ai loro inutili bagagli, in direzione delle sedi da cui partiva “il trasferimento”, sperando in qualche premio alimentare per la loro buona condotta; mentre sotto un portico o nell’androne di una scala, un uomo con la barba lunga e scura si impiccava restando a penzolare nell’aria fredda come un frutto maturo che nessuno si sarebbe mai dato pena di raccogliere. Tutto era assurdo e allo stesso tempo perfettamente possibile: come se l’immenso zoo dei traffici umani fosse stato sconvolto da una catastrofe immane ed ora di ogni cosa, di ogni esistenza non fosse rimasto altro che uno spettro caotico ed evanescente.

Quel giorno, come fosse stato il primo e l’ultimo della sua vita, il giovane ebreo al pianoforte poteva ancora deliziarsi di quelle splendide, magiche note senza darsi alcuna pena del fatto di commettere un crimine. Forse, egli era già al di là del bene e del male. Gli occhi del tedesco lo fissavano con una strana avidità, sospesi tra una tristezza senza fondo e un arido, cupo risentimento. Occhi asciutti, senza più lacrime, come quelli dilatati, sospesi nel vuoto, del giovane musicista ebreo.

Quando fu sazio del suo svago giornaliero, il giovane ufficiale ariano si alzò e andò via dicendo: Ti trattengo ancora per un giorno, ebreo; domani suonerai ancora. Mangia qualcosa e cerca di non puzzare!.

Daniel si guardò la punta delle lunghe e magre dita. Poi fissò il muro davanti a sé – fissò quanto restava della sua casa, uno dei pochi edifici di via Grzybowska rimasti in piedi dall’assedio del ’39, quando le truppe d’invasione erano penetrate nella città con la stessa facilità con cui un coltello affonda nel burro. Attraverso le mura egli poteva udire il tramestio continuo dei passi lungo il ponte che univa le due ali del ghetto – ali di pietra nere di fuliggine distese sulla terra devastata.

Si sollevò e risalì al piano superiore, poi da questo ancora per una seconda scala per raggiungere lo stretto cunicolo che afferiva alla soffitta. Giunto che fu nell’oscuro e basso locale sedette su una vecchia poltrona impolverata e si accasciò.

Un’ombra scivolò con un fruscio insensibile dietro una catasta di mobili semidistrutti. Una bambina di undici o dodici anni lo fissò con due occhi accesi dal fondo di un viso pallido come la luna. È andato? disse. Il ragazzo annuì.

Con un movimento dei fianchi tanto leggero da sembrare privo di alcuna materialità la bambina gli si sedette di fronte. Ci lascerà vivere? domandò con voce atona.

Il ragazzo la fissò senza rispondere, poi sollevò le spalle. Sporse allora una mano verso la sorella e ne carezzò il volto. Vedremo disse.

Non pensarci, ora lo consolò la sorella. Non sappiamo nulla del domani. Fissò Daniel con i suoi grandi occhi bruni, dal fondo di un viso lunare, e sembrò in apprensione per lui. Poi, ebbe un’idea lieve, repentina. Sollevò da uno scaffale del mobile alle sue spalle, da sotto una matassa confusa di costumi di scena laceri e polverosi, un volumetto rilegato in pelle, di un colore bruno rossiccio. Dei caratteri dorati sulla copertina suggerivano un titolo. La bambina l’aprì e disse: Ascoltami, Daniel. Voglio leggerti una storia. Me la lesse papà tre anni fa, quando i soldati erano appena entrati. L’ho ritrovata per caso. Voglio che tu la ascolti.

Sei così cara, Zivia!... disse il ragazzo. Poi si appoggiò con le spalle alla poltrona: Fa’ pure, disse. Leggi!.

Ora ascolta e riposa. È quasi una favola disse lei. S’intitola Storia del sultano di Bassora e del giovane pittore indiano. E cominciò a leggere.

Storia del sultano di Bassora e del giovane pittore indiano

Da qualche parte, in quel vasto tessuto di racconti che è il mondo, esiste certamente una storia in tutto e per tutto simile a quella che sto per raccontare. È una storia talmente comune che non ho alcun merito nel riferirla; non è mia più di quanto non sia anche vostra: il mio compito è solo di metterla in parole. Più che un racconto, infatti, questa storia sembra un ricordo, il ricordo di un evento accaduto a uno di noi, ma così semplicemente umano da possedere un valore universale. Un racconto di tal genere può nascere spontaneo da qualunque angolo della natura, purché lo si ascolti, o dalla vita onirica di ciascuno, che ci consola e ci accompagna, o come piacere dei sensi, come il gusto per ciò che è dolce e aspro e il godimento dei suoni melodiosi. Raccontato da uno, ma comune a tutta l’umanità, esso è dunque un archetipo: un limpido frammento del cuore universale.

La sua trama m’apparve un giorno in uno stato mentale simile a una trance: forse feci mia in una reminiscenza, una storia narratami da qualcuno che l’aveva vissuta o che l’aveva a sua volta sentita da qualcun altro; o forse si trattò del lampo visionario di un’ispirazione dettata da una fonte misteriosa in uno di quegli istanti fuori del tempo e dello spazio in cui si vaga in preda all’estasi. Tuttavia, come sia arrivato alla mia coscienza non ha alcuna importanza. Per questa via oscura, inaccessibile alla volontà, arrivano conoscenze che appartengono a tutti: frammenti di verità dimenticate eppure disponibili in forma di favola o di sogno al cuori di ciascuno.

Forse un tempo questa storia fu un racconto delle Mille e una notte, ma uno di quelli che scivolarono via assieme ai fogli su cui erano trascritti, e che in tal modo furono perduti per sempre. O forse era l’eco di una leggenda sospesa nella tradizione orale di un popolo scomparso, giunta a me per vie misteriose.

La bellezza, dice la storia, è coscienza che tutto è effimero e che al suo confronto anche il potere è poca cosa, con la sua presunzione di durare più a lungo della morte. La bellezza è l’unica cosa che duri più del potere e più della morte, perché è la coscienza della fine di ogni cosa. Essa scaturisce come una scintilla dal cuore di ogni evento, anche il più terribile, purché lo si porti alla dignità della memoria. La morte stessa, il più terribile degli eventi, si eleva alla dimensione della bellezza attraverso l’esercizio spirituale della memoria. Amare la vita è glorificare la sua memoria, situandola nel pensiero della morte.

C’era un tempo a Bassora un Sultano di cui si hanno versioni contrastanti. In una di queste – invero la più credibile – egli fu un regnante d’inaudita crudeltà, seguace dell’arte orientale della tirannide. Il suo nome era Muhammad ibn Sulaimàn az-Zàini. Di lui è stato detto: Ha fatto delle lance i suoi calami, delle vite dei nemici i suoi fogli, e il loro sangue l’ha usato come inchiostro.

Alla corte di questo re, un giorno, venne condotto un giovane schiavo sottratto alle terre al di là dell’Amu Darya, a nordovest del grande e popoloso continente indiano. In quei luoghi, in un regno minore, il giovane era un pittore di corte, ammirato per la rara eleganza dei gesti e per la sublime bellezza dei dipinti.

Nella scorribanda che ha accompagnato la sua cattura – e quella di altre decine di schiavi e di schiave – i soldati hanno depredato il ricco bottino degli oggetti preziosi della corte, fra cui le innumerevoli sete dipinte dal giovane. Distese, alcune mostrano paesaggi meravigliosi e città incantevoli e sconosciute; altre giardini multicolori, pieni di alberi in rigoglio e carichi di frutti e uccelli dai più diversi piumaggi, in volo o placidamente adagiati sopra i rami; nei giardini si possono osservare gruppi di musici, seduti su tappeti variopinti, impegnati a suonare strani strumenti; e ammirare bellissime donne, più numerose dei frutti che pendono dagli alberi, flessuose e morbide come l’amore.

Il giovane pittore, cui diamo il nome di Giawdàr, divenuto schiavo alla corte del Sultano, continua presso di lui la sua attività, riempiendo tessuti d’ogni genere (poveri come il lino o ricchi come la seta) delle sue molteplici visioni. Non una sola di quelle straordinarie immagini dipinte somiglia a un’altra. Sembra che il giovane veda direttamente in un mondo di dei o forse il Paradiso stesso del Profeta, che abbonda di urì.

Ma poiché la felicità terrena non è destinata a durare a lungo, accade che in breve tempo il Sultano diviene invidioso di quel pittore che non cessa mai di vedere e mostrare i suoi scenari di sogno. Prende allora a odiarlo di un odio cupo e rancoroso, perché il ragazzo crea qualcosa che prescinde dalla volontà, dal potere e dalla stessa esistenza del suo padrone.

Per giustificare (ma solo di fronte a se stesso) l’improvviso mutamento di opinione, il Sultano afferma un giorno che il Profeta ha bandito le immagini, e con perfetta ragione, poiché esse inducono l’animo al disordine e al vizio. Più che al vizio, egli pensa all’evidente e insopportabile libertà del mondo di sogno evocato dal pittore rispetto al suo limitato potere di tiranno e al regno circoscritto cui impone il suo dominio.

In un’ora tormentosa di dubbio e di angoscia egli teme che le visioni del giovane possano indurre altri a sospettare la terribile verità che si è rivelata a lui stesso: che il potere del Sultano, dunque il suo potere, non può estendersi tanto da raggiungere i confini dell’immaginazione. Comanda allora che il giovane Giawdàr sia accecato. I soldati eseguono l’ordine.

L’operazione è rapida e dolorosa. Le lame roventi si accostano ai globi oculari del ragazzo fino a bruciarli. Gli occhi, medicati con distrazione nei giorni successivi, diventano piaghe, poi pian piano crespe cicatrici. Passano alcuni mesi durante i quali il ragazzo vaga come un mendicante nei giardini del palazzo, assistito per ordine del Sultano (sia lode alla sua Grande Anima) da uno schiavo personale. Le sue lacrime sono sgorgate tutte e ormai finite. Un giorno Giawdàr chiede di poter tornare nel suo vecchio appartamento. Gli viene concesso.

Ricondotto nelle sue stanze (perché possa soffrire le pene dell’inferno a contatto coi tessuti che non può più vedere), il pittore, nonostante la cecità, riprende a dipingere i suoi leggeri, immateriali paesaggi di sogno; e ciò è un mistero che conferma al Sultano i suoi più inquieti presagi. Da dove prende quelle immagini ora che non può vedere coi suoi occhi? Sono dei o demoni che lo ispirano e gli muovono la mano? O è la visione stessa del Paradiso cui egli può accedere mentre il Sultano ne è escluso? Il tiranno, allora, non pago della prima orrenda mutilazione, gli fa tagliare le mani.

Anche questa volta il giovane artista – rimessosi dall’orribile trauma fisico e dall’abbondante perdita di sangue, e dopo un lungo e paziente esercizio – riprende a dipingere le sue tele e i suoi tessuti con i piedi e con la bocca, e i suoi scenari tornano a comparire miracolosamente di fronte agli occhi di tutti.

Giunto a questo punto, il Sultano odia il suo umile suddito come non ha mai odiato nessuno (eppure egli, in terra di conquista, ha ucciso neonati strappandoli alle braccia delle madri, ha spiccato teste dai tronchi e impalato corpi, ha cavato personalmente occhi dal capo di uomini a lui ostili). È lui in persona, allora, che si precipita nelle stanze del suo schiavo per vederlo all’opera. «Non ti resta che uccidermi», gli dice stancamente il pittore. Il Sultano lo fa appendere a una ruota di tortura, dove infine viene squartato.

Fino a questo punto del racconto, ogni cosa è, in fondo, tristemente prevedibile. La storia ha tuttavia un epilogo che la rende in qualche modo memorabile. L’epilogo è quello che segue.

Nell’assistere allo squartamento del pittore, il tiranno coglie d’un tratto, fra splendidi e fulgidi colori, la profonda e maestosa bellezza della scena. Il suo schiavo, quel piccolo, insignificante essere umano, viene frantumato dallo strumento di tortura perché il suo cuore non ha saputo smettere di desiderare e vedere quelle pure immagini di sogno. Il corpo allora, mentre viene lacerato e fatto a brandelli, effonde di getto il rosso del sangue sul bruno della pelle, sul verde del prato, sull’azzurro sconfinato del cielo. Il Sultano, a quel punto, non può impedirsi di restare abbagliato dalla stupefacente bellezza dell’evento. Non era mai stato folgorato così in profondità. È solo un istante, e tuttavia egli resta sconvolto. Ha avvertito (per la prima volta) che nell’impenetrabile crudeltà della sua anima s’è insinuato, impercettibile come una serpe, il sentimento struggente della Bellezza. In principio ne è letteralmente atterrito; poi, pian piano, discerne nell’onda dei sentimenti la fiamma di un’indicibile vergogna: lui, il Grande, il Potente, il Terribile, ha tremato come un bambino di fronte alla Bellezza! Il presagio è funesto.

Volge allora gli occhi altrove, in preda alla disperazione, e ciò che vede è più mortale della lama d’un pugnale che gli scavi lentamente nel cuore. Vede infatti ovunque paesaggi meravigliosi, gli stessi che il giovane pittore ha visto e dipinto fino a un istante prima della morte.

Ciò che è avvenuto ha dell’incredibile: gli occhi del suo nemico sono ormai divenuti i suoi! Attraverso quelle misteriose porte, che egli credeva di aver chiuso per sempre, la visione della Bellezza si va ormai impossessando di lui. Un’intima contraddizione – egli comprende – è sorta a causa del sacrificio del giovane nelle profondità della sua anima. Quella contraddizione, per cui il sovrano è ormai dominato da qualcosa di più forte di lui, gli rivela una verità orribile, che si fa strada nel suo animo con la stessa incoercibile evidenza con cui la voce dell’angelo si presentò alle orecchie del Profeta. Lui il Sultano, il più Grande fra i Grandi, il più Terribile fra i Terribili, è caduto in ginocchio di fronte a qualcosa di più grande di lui! Lo sa solo lui, ma la sua anima è piegata!

Muhammad ibn Sulaimàn az-Zàini il Sultano, il Grande fra i Grandi, il Terribile fra i Terribili, la luce suprema dell’Oriente, sente allora calare l’ombra dell’angoscia sul suo cuore, che è sempre più indifeso. È terrorizzato da quanto ha infine compreso: ormai sa (ha capito) che non potrà più in alcun modo spegnere quell’intollerabile visione della mente, la visione della Bellezza, non potrà sopprimerla dentro di sé nemmeno pagando egli stesso il prezzo pagato dal prigioniero. Non varrà a nulla accecarsi o mutilarsi, perché la bellezza lo tormenterà attraverso l’immaginazione. Non varrà a nulla nemmeno suicidarsi, perché la bellezza rimbalzerà negli occhi degli altri, di coloro che vedranno la scena commovente del suo gesto. Il prezzo – egli ha ormai compreso – l’unico che possa chiudere il conto con se stesso, è infine la morte dell’anima, la fine di tutto ciò per cui ha vissuto: egli vivrà come un morto che cammina di fronte all’assoluto della Bellezza.


Come ebbe terminata la lettura del racconto la piccola Zivia poggiò il volume sulle magre cosce e fissò negli occhi il fratello maggiore. Daniel le ricambiò lo sguardo; poi sospirò.

Il giorno dopo l’ufficiale tedesco si presentò ancora una volta in quel cumulo di rovine che era stata la loro casa.

Come le altre volte, Daniel lo raggiunse al piano inferiore, dove il lacero salotto li attendeva silenzioso assieme al grande Steinway dalla lunga coda nera accostato alla parete.

Zivia, silenziosa come l’ombra ch’era divenuta dopo tre anni di stenti e di digiuni, se ne stava acquattata su in soffitta, avvolta e nascosta in mezzo agli stracci che erano stati i costumi di scena del padre, attore di teatro, assassinato da un miliziano polacco perché sorpreso con un pezzo di strutto sotto la giacca. Poiché i vecchi vicini di casa erano ormai tutti o morti o deportati, intorno a loro nessuno dei vivi sapeva dell’esistenza di Zivia. Tra i vivi, chi l’aveva conosciuta era già stato trasferito nei campi di lavoro o stava morendo di freddo e di fame e non era in grado di denunciarla nemmeno se lo avesse voluto. I morti, per parte loro, di sicuro non l’avrebbero tradita.

Anche quel giorno, su ordine dell’ufficiale, il giovane pianista eseguì mirabilmente il solito notturno di Chopin, ancora una volta portando le loro anime al di sopra di tutto quell’orrore. E di nuovo il tedesco dovette assistere all’odioso miracolo: quel ridicolo fantoccio che, per quanto lo riguardava, avrebbe potuto essere già fracassato e morto da un pezzo, si animava d’una vita diabolica e misteriosa e, facendosi attraversare dalla musica come un’arco voltaico dall’energia elettrica, vibrava fino a sollevarsi al di sopra di tutto, finché il potere delle armi, la potenza del grande Reich, sembrava non toccarlo più.

Da dove attingeva il dannato, il maledetto ebreo quel magico passo, quella suprema indifferenza?

Il tedesco avrebbe gettato all’istante in una pattumiera quell’inutile mucchio di ossa e di stracci che gli stava di fronte, se solo fosse riuscito a darsi una risposta definitiva. Ma quella risposta ancora non veniva, non sembrava nemmeno lontanamente essere alla sua portata. Si perdeva nell’aria, con le note fluttuanti della musica.

Grande fu il suo stupore, allora, quando si avvide di ciò che il ragazzo – che aveva creduto gratificato da quelle ore, da quei giorni di insperata sopravvivenza – stava in quell’istante per compiere. La scena aveva qualcosa di grottesco; il tedesco avrebbe voluto emettere, nella meraviglia del momento, un grido di soddisfazione. Ma lo trattenne: ebbe il sospetto che, con la mossa che si accingeva a fare, il prigioniero stesse tentando di dargli scacco, avendo compreso che la dilazione offertagli dalla musica non sarebbe durata a lungo. E forse quel gesto non era tanto un gesto di disperazione, quanto un’ultima, insopportabile affermazione di se stesso.

Il ragazzo – quel mucchio di spazzatura ebraica che un tempo era stato un ragazzo – impugnava una pistola! Ma anziché puntarla su di lui, sul suo persecutore, come sarebbe stato giusto e comprensibile se egli fosse stato un normale essere umano, egli la puntava contro di sé, l’aveva piantata con risolutezza sulla propria tempia nel gesto tipico del suicida. E dopo un solo breve istante di esitazione, aveva premuto il grilletto.

L’esplosione fu chiara, ma soffocata nel generale trambusto dell’evacuazione e degli sporadici spari che annunciavano ad ogni canto di strada l’ennesima esecuzione sul posto di qualche pigro disobbediente. Si perse nella luce perlacea del mattino come uno schiocco di frusta e nulla più. Un fiume di rosso sangue (... come non stupirsi del fatto che anche questi sporchi ratti di città potessero possedere una sostanza così simile a quella umana!...) – un fiume di rosso sangue, un fiume di linfa vitale, prese a sgorgare dalla tempia del giovane, attraverso il foro aperto fra i tessuti bruciati dall’esplosione, rigando il volto di un grigiore cadaverico, che d’un tratto gli sembrò bello, spargendosi in una vasta pozza sulla polvere nera del pavimento. Le pareti grigie schizzate di tinta viva, la tastiera del piano chiazzata di rosso, tra il bianco e il nero dei tasti.

L’ufficiale emise un grido soffocato. Si alzò in piedi di scatto, nello stesso istante in cui il corpo senza vita del ragazzo cadeva al suolo con un tonfo leggero.

In preda a una confusa vergogna – la vergogna d’essersi fatto ingannare da quel piccolo intrigante ebreo – egli s’avvicinò al cadavere e con un gesto pieno di ripugnanza lo scalciò con la punta del piede. S’avvide che era flaccido e inerte. Semmai v’era stata vera vita, vita umana, in quel misero corpo, ora di sicuro non ve n’era più. Poco male; era solo giunto il termine del suo piccolo concertino. Null’altro. L’ufficiale roteò su se stesso e, ancora in preda a una confusa agitazione, abbandonò la casa.

Come fu all’aperto, gettò uno sguardo al cielo dove uno stormo di corvi vorticava fra mille strida; e fu allora che con la coda dell’occhio si avvide dell’agguato. Fu il secondo prodigio della giornata: mai avrebbe pensato, nemmeno in una delle sue più spericolate speculazioni, che un ebreo – un altro ebreo! – potesse arrivare a tanto.

Vide un goffo pupazzo di stoffa con una stella gialla al braccio acquattato su un tetto di fronte a lui, e vide la nera pistola che quegli stringeva in pugno, poggiata sul ciglio di un camino e puntata su di lui come un fucile.

L’ufficiale tedesco non fece in tempo a gridare l’allarme che il proiettile, vomitato dal fondo dell’inferno, gli trapassò l’occhio destro, facendolo esplodere come una gelatina per raggiungere senza intralcio la tappa conclusiva del cervello.

Il colpo fu fortunato; la morte istantanea.

Lentamente, con cautela, Daniel si sollevò dal suolo.

Così in piedi nella sala deserta, obliquo come uno spettro coi grumi di finto sangue appiccicati alla tempia e la vernice rossa sparsa ovunque, sembrava suggerire un moderno film dell’orrore. Lentamente, con cautela, Daniel si sollevò dal suolo.

La realtà è il teatro vivente d’ogni più ardita finzione, diceva spesso il padre, e occorre riuscire a vederla sotto questo aspetto per poterla superare, trascendere e scoprirne sempre di nuova. I trucchi teatrali del padre – che egli aveva adorato quand’ancora era vivo come si adora l’affabile ingenuità di un bambino e insieme aveva disprezzato per la sua ridicola impotenza – quei trucchi erano tornati infine utili, e nella maniera più inattesa. Erano rimasti nascosti in una cassetta in soffitta, abbandonati. E d’un tratto aveva capito come avrebbero potuto essergli utili.

Corse allora in soffitta, dove Zivia lo attendeva pallida e col cuore in gola. I due si abbracciarono a lungo, consumando in quell’abbraccio le residue energie; il ragazzo dritto, gli occhi serrati in una contrazione dolorosa, lo sguardo cieco perso chissà dove, la ragazza curva e rattrappita, la testa incassata nel petto di lui.

Poi insieme, l’uno accanto all’altra, sedettero lentamente sul divano. Restarono così per un tempo che parve loro infinito, le mani nelle mani, immobili e silenziosi nell’atto di contemplare il portone d’ingresso di fronte a loro e le pareti bianche intorno. Erano in preda allo sbigottimento: erano ancora vivi, entrambi, e si stringevano forte, come se così abbracciati con le mani sul grembo di lei, lui col capo di lei schiacciato sul proprio petto, fossero l’unica luce rimasta accesa in tutta quell’atroce, nera, lugubre devastazione.