Ma era mio nonno che osservavo con occhi più curiosi. Una eterea creatura di più di ottant’anni, ben custodito dalla figlia cinquantenne e la nipote ventenne militarizzate intorno a lui come il personale di una efficiente casa di riposo, e coccolato dai nipoti, tutti più grandi di me di dieci o più anni, come fosse per loro l’amico più dolce, reso infermo da una benedizione angelica. In realtà, non era affatto infermo, era solo vecchio, come lo si era allora, cioè col physique du rôle della vecchiaia e con quel suo lieve, aereo distacco nei confronti dei traffici giovanili.
Aveva la sua sedia preferita, un elegante dondolo di legno subito accanto alla porta finestra della sala, dalla quale, essendo un piano alto, filtrava ogni giorno un fiume di luce. Lì seduto – alto, sottile, leggero, sempre con una linda camicia bianca o azzurra e i pantaloni enormi intorno alle gambe rese magre dalla forzata immobilità – passava ore ed ore immerso nella lettura. Dovevano essere tante quelle ore, ma io, il più piccolo di tutti, ero il meno indicato a valutarle, vivendo come lui in un tempo illimitato, anzi inesistente.
Costretto dalla pretesa infermità dell’infanzia a passare in casa quantità immense di tempo (mentre i miei cugini e fratelli di età variabili fra i quattordici e i vent’anni erano fuori ad assistere alle gare olimpiche), avevo agio di osservarlo avvicinarsi pian piano alla sua finestra piena di luce e poi mettersi seduto sulla sedia a dondolo, mentre me ne stavo a mia volta seduto su una poltrona o steso sul giaciglio improvvisato nella stessa stanza – un comodo materasso di gommapiuma poggiato sul pavimento che mi faceva da letto.
Era più docile di me e più remoto. Ogni tanto sollevava lo sguardo e mi indirizzava un sorriso complice, come se fossimo della stessa razza o della stessa condizione. Prigionieri della calda, premurosa dolcezza altrui. Estenuati, sconfitti, da quella dolcezza. Soldati senza speranza di una guerra eroica ormai dimenticata. Poi tornava a immergere la mente nelle remote lontananze della lettura. Qualche volta, dopo averlo osservato, chinavo di nuovo il capo per andare a intrattenermi coi miei oggetti, che non ricordo più quali fossero, libri illustrati e giocattoli comuni, ma anche residui della vita adulta, che tanto mi affascinavano: portachiavi in pelle (vuoti e senza chiavi), misteriose sfere di metallo, telefoni in disuso. Altre volte invece, cauto come un gatto, mi avvicinavo a lui.
Lui allora mi invitava ad osare, ad avventurarmi, sollevando uno sguardo furbo. Io allora mi accostavo alle sue ginocchia e da lì, da quella posizione, spiavo sulle pagine del libro. L’effetto era sempre lo stesso: file interminabili di righe tremolanti composte di minuscoli simboli neri su pagine leggere, fragili, mobili come pensieri. Nemmeno una figura! Un mistero assoluto. Tanto più che talvolta quella dolce e incorporea divinità dai capelli bianchi cingendomi il fianco con una mano e assentandosi di colpo cominciava a mormorare, ed io mi rendevo conto che stava leggendo, che stava dando vita a quei fantastici ghirigori neri.
Non ricordo che libri fossero; mi venne detto in seguito – quando ormai mio nonno era morto ultranovantenne – che si trattava perlopiù di libri gialli, thrilling della migliore tradizione inglese e americana. Ma altri, molti altri, erano ponderosi volumi di storia, dai quali mio nonno, un ex dirigente di Stato, era a tal punto affascinato da aver scritto da giovane due romanzi storici che non aveva mai pubblicato.
Non so se fu da allora, da quella antica esperienza romana, che cominciai a porre gli occhi, sempre più di frequente, sui libri, su quei misteriosi oggetti per me ancora opachi, ma anche lievi, sfogliabili, aerei come i quaderni su cui tratteggiavo i miei disegni, come i sogni che facevo la notte...
Fu verso i dodici anni che cominciai a scrivere.
Fu dopo aver letto un breve componimento, un flash, di un antico poeta greco, un certo Saffo (che non avevo ancora capito se fosse un uomo o una donna). Ero rimasto colpito, ricordo, dalla breve poesia, una frase lapidaria, letta su un sussidiario di scuola, forse di un fratello maggiore. Sicché, quando pochi giorni dopo l’insegnante di Italiano chiese alla classe di riportare una poesia o un verso che ci avessero colpiti con forza, io non ebbi dubbi, e scrissi la poesia sul mio quadernetto a righe. Ricordo il professore, un uomo giovane di non più di quarant’anni, che però a me appariva remoto come una vecchia e arcigna autorità, chiamare col cognome i miei compagni fino a giungere a me. La “esse” era lontana... Strati...
con quel sibilo che sembrava un sospiro o un invito al silenzio... Mi alzai in piedi. Mi chiese allora, come aveva già fatto con gli altri, di leggere il brano e di argomentare a voce il motivo della mia preferenza.