Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Angoscia di abbandono e attacchi di panico

Teorie sull’angoscia di separazione e di abbandono

È osservazione comune, e soprattutto di chi soffre di ansia e attacchi di panico, che alla separazione (temporanea o definitiva) da una persona amata o comunque ritenuta necessaria alla propria sussistenza psicologica segua sempre un periodo di crisi, caratterizzato da un intenso sentimento di abbandono. Le occasioni che possono dar luogo a questo vissuto possono essere le più varie: una partenza per un viaggio di lavoro, l’attenzione dedicata a un terzo (un parente, un potenziale rivale), un litigio e un conseguente distacco, la dichiarazione della fine di una relazione, ma anche soltanto un prolungato silenzio telefonico da parte della persona amata, possono provocare inconcepibili dolori, sentimenti di smarrimento, vertigini e sensazioni di vuoto, insopportabili ansie, claustrofobiche o agorafobiche, fino all’attacco di panico, alla depressione, all’intenso desiderio di morire.

“In automobile”

Una lunga tradizione psichiatrica e psicoanalitica ha collegato la crisi da abbandono ad una vulnerabilità individuale intrinseca e connaturata. In sostanza, questa tradizione culturale teorizza che il soggetto che soffre di angoscia o panico da abbandono sia affetto da vulnerabilità emotiva sin dalla nascita o comunque sin dalla più remota infanzia. Coloro che formulano l’ipotesi che la vulnerabilità emotiva sia connaturata al soggetto sostengono di fatto che il panico sia una patologia di natura genetica, cioè che esso coincida con un difetto genetico (come la trisomia cromosomica che dà luogo al mongolismo, o come la predisposizione al diabete). Per costoro l’angoscia panica non è curabile: si può solo abituare il soggetto a convivere con essa contenendola mediante l’uso degli psicofarmaci.

Per gli psicoanalisti della relazione, invece, il problema non è genetico, ma deriva da traumi da separazione vissuti in fasi molto precoci. Una madre distratta e abbandonica, un conflitto parentale, una distorsione nella trasmissione dell’affetto sono la base primaria su cui si incardina il disturbo futuro. Tuttavia, anche per questi teorici il soggetto, sottoposto da bambino a traumi comuni e persino banali, ha reagito in modo abnorme, rivelando così una vulnerabilità intrinseca (che si sottintende possa essere genetica). Inoltre, per alcuni di questi teorici, l’individuo è stato danneggiato in modo irreversibile nelle sue connessioni neurologiche, quindi porterà per sempre con sé una traccia incancellabile della sua patologia. È chiaro che per questa tradizione culturale psichiatrica e psicoanalitica (diffusa anche fra molti psicologi cognitivo-comportamentali) gli individui affetti da ansie e panico sono di un altro genere rispetto alle persone normali e sane: essi sono deficitari o malati in modo intrinseco, dalla nascita o dalla più remota infanzia, quindi sono curabili solo in parte.

La mia ipotesi riguardo all’ansia e al panico, ivi compresa l’angoscia di abbandono, è totalmente diversa. Come ho sostenuto in tutti i miei libri (in accordo con la parte più interessante della tradizione psicoanalitica), ritengo che ansia, angoscia e panico siano reazioni emotive che segnalano la presenza di una grave minaccia nel campo esistenziale conscio o inconscio del soggetto. Quando si scopre da cosa il soggetto si senta minacciato, e si renda possibile la sua liberazione da questa minaccia, i sintomi cessano. Questo processo di consapevolezza e apprendimento può durare alcuni mesi, ma talvolta anche anni.

Nel paragrafo che segue intendo confrontare la posizione teorica appena espressa con il tema di fondo di questo articolo: l’angoscia da separazione e abbandono.

L’ipotesi della psicologia dialettica

La relazione mimetica

Quando si parla di separazione il più delle volte si osserva solo ciò che accade al rapporto. Il rapporto si interrompe e l’individuo preso in esame si ritrova privato di una figura amata o comunque avvertita come necessaria. A quel punto, egli entra in crisi. La psicologia moderna, in questo concorde con le banalità della psichiatria organicista, afferma allora che l’individuo, entrando in crisi, rivela la fragilità del suo Io. Si parla allora, con linguaggi più o meno sofisticati, ma sempre con argomenti indimostrati, che l’Io di quell’individuo era affetto da una carenza primaria e, soprattutto, da una debolezza intrinseca, psicobiologica, che aveva occultato proprio grazie alla relazione di dipendenza. Si afferma, in sostanza, che se colui che viene abbandonato ha una reazione abnorme, era patologico in modo intrinseco.

Ma è sufficiente spostare il punto vista e osservare l’individuo piuttosto che la relazione per notare qualcosa di interessante. Qual è la condizione oggettiva (non psicologica) dell’individuo separato dalla sua relazione di dipendenza? Ebbene, quell’individuo ora è solo, quindi egli ha, per vivere, la necessità di esporsi. Il primo dato oggettivo che risulta evidente nel caso di una separazione è, dunque, l’esposizione. Ma che cosa è l’esposizione?

Scena dal film “Improvvisamente l’estate scorsa”

Es-porsi significa porsi fuori, porre se stesso, il proprio Sé, al di fuori di un certo confine. Atteniamoci al dato oggettivo: esporsi significa porre il proprio corpo fuori da un ambiente controllato e interagire con situazioni e/o persone poco o punto conosciute. Esporsi significa dunque fare appello alle proprie caratteristiche personali per gestire una situazione estranea. Esporsi significa fare appello a tutto se stesso, significa suscitare, porre in essere e attivare parti della propria personalità che, finché durava la dipendenza, venivano supplite, vicariate dall’altro, dalla figura d’appoggio (o co-dipendente).

Il punto è, dunque, questo. L’altro, la metà ora mancante, veniva di fatto adoperato dal soggetto dipendente per mediare il rapporto sia col mondo esterno che con quello interno. Cerchiamo di analizzare nei particolari questa complessa dinamica di relazione.

In che senso il soggetto dipendente adopera la figura d’appoggio per mediare il rapporto col mondo esterno? Nel senso che, laddove ha paura delle proprie reazioni emotive e comportamentali relative a eventi “forti”, che possono mettere in gioco il sentimento di inadeguatezza o quello di ingiustizia, quindi la vergogna e la rabbia, egli filtra le sue emozioni attraverso la figura da cui dipende. Si scherma, si difende dalle esperienze troppo intense ponendo davanti a sé l’altro.

Per il soggetto ansioso l’altro deve essere, dunque, una figura “forte” qualora il sentimento dominante sia di inadeguatezza, “socievole” nel caso domini la paura di reagire aggressivamente a situazioni avvertite come ingiuste. Si crea così una simbiosi (una forma di vita parassitaria), nella quale la figura d’appoggio incarna tutte le caratteristiche “abili a vivere” che il soggetto dipendente ritiene di non possedere. Più esattamente, questa simbiosi è una relazione mimetica1, perché consente al soggetto dipendente di nascondere a se stesso e agli altri quelle parti di sé che giudica negative e per le quali avverte vergogna o senso di colpa, parti che per ciò stesso minacciano la sua coesistenza con l’insieme sociale e con se stesso.

In questo senso la figura d’appoggio media il rapporto che il soggetto dipendente intrattiene non solo nei confronti del mondo esterno ma anche col proprio mondo interno. Qui, nel rapporto mimetico, ha dunque luogo l’occultamento o la rimozione dell’io antitetico, la parte “oscura”, sgradita e temuta della propria personalità. Infatti, una volta che abbia delegato alla figura d’appoggio la gestione dei rapporti da intrattenere, in modo socialmente adeguato, col mondo esterno, egli può dimenticare, rimuovere, la consapevolezza di possedere quegli aspetti negativi che l’avevano tanto terrorizzato. In tal modo egli si costruisce una falsa immagine di sé positiva, ossia un falso sé.

Attraverso questa simbiosi il soggetto ansioso si è creato una ingannevole illusione di autostima e di benessere, ma ha anche perso il contatto veritiero con la propria interiorità. La parte negativa, per quanto rimossa, grava tuttavia nell’interiorità ed egli teme di vederla uscire allo scoperto se non ha qualcuno che la aiuti a nasconderla.

La parte oscura

Due esempi

Immaginiamo un uomo che intuire di essere un individuo frustrato e collerico. Preferisce relazioni sociali amicali solo con la moglie che è una donna socievole e simpatica. Un giorno però la moglie è impossibilitata ad accompagnarlo ad un importante riunione privata con colleghi di lavoro; quindi lui va nel panico. Perché? Perché teme che senza l’ausilio della sua relazione mimetica, cioè senza la presenza della moglie, egli non sappia gestire prevedibili momenti di tensione e dare segni di collera oppure avere preventivamente un attacco di panico di fronte a tutti, con conseguenze che immagina catastrofiche.

Fotografia decorativa

Immaginiamo ora una donna che ha avuto un’infanzia ed una adolescenza oppresse da una madre tirannica e ansiosa. Chiamiamola Anna. Sin da piccola, Anna ha sviluppato contro la madre rabbia una rabbia tacita e mai esplicita. Da ragazza potrebbe compiere qualche trasgressione, per qualche tempo si sente seriamente a rischio; ma un giorno conosce un uomo serio e responsabile e lo sposa. Diventata donna sembra apparentemente calma. Nasce anche un figlio. Ma dopo alcuni anni, Anna scopre che il marito ha una storia con un’atra donna. Se ne sente molto ferita, riemerge la vecchia rabbia e lo lascia. L’uomo accetta la separazione e va a vivere con l’amante. Anna d’un tratto si ritrova sola con il figlio ancora piccolo. Ed ecco che comincia ad accettare incontri al buio con uomini conosciuti su una chat di incontri. Sta malissimo e alla fine ha depressione e attacchi di panico. Cosa è successo? È successo che ospitava dentro di sé un parte oscura, maturata negli anni di odio verso la madre, che aveva già preso la direzione, ancora immaginaria, di atti trasgressivi. Quando si è sentita tradita dal marito la vecchia rabbia è riemersa e lo ha lasciato; ma da quel momento ha dato via libera alle fantasie trasgressive che aveva solo immaginato da ragazza e se è sentita nauseata e spaventata. La depressione esprime il giudizio negativo che ha di sé e la reazione da attacco di panico le impedisce ora ogni nuova trasgressione. Il marito era stato la figura d’appoggio di una relazione mimetica. Chiuso il rapporto con lui, Anna è stata invasa dalla realtà antitetica presente in lei, che ha avuto d’un tratto libero corso.

La relazione mimetica è dunque una relazione nella quale il soggetto dipendente, grazie ai servigi resigli dalla figura di appoggio, occulta a se stesso e agli altri la percezione intima che ha di sé, collegata ad aspetti della personalità percepiti e temuti come negativi.

Il terribile accade quando, a causa di una separazione fisica o psichica, viene a mancare lo schermo difensivo costituito dalla figura d’appoggio: a quel punto, infatti, l’individuo dipendente è solo col mondo e solo con se stesso. Egli è costretto ad affrontare la realtà esterna ricorrendo a tutte le parti della sua personalità, comprese quelle che aveva delegato all’altro e aveva occultato o rimosso. Da questo momento, ha un confronto diretto con la realtà. Può allora trovarsi nella condizione angosciosa di uscire di casa da solo e di sottoporsi in prima persona al giudizio sociale implicito in ogni sguardo e al giudizio, anche il più spietato, che può formulare su se stesso. Sarà allora nella condizione di giudicarsi o di sentirsi giudicato ora un individuo debole e inetto oppure malvagio e asociale; ogni suo atto, persino ogni sua intenzione, potrà essere messa al vaglio come nel peggiore dei suoi incubi. Potrà sentirsi inetto come era da bambino, oppure sentire l’onda di piena della rabbia, relativa a un sentimento di minorità: una eccessiva obbedienza gerarchica o un passivo conformismo sociale o una devozione affettiva sacrificale.

Il più delle volte questa terribile sensazione di giudizio è soverchiata e coperta dall’insorgere preventivo di sintomi di ansia, di panico o di derealizzazione; ma ad un’attenta analisi essi vi sono sempre. Il soggetto ansioso riscopre allora ciò che credeva di aver sepolto: la disarmonia della sua personalità, la sensazione di aver dentro di sé caratteri e impulsi negativi – una parte oscura – che, poiché sono a rischio di essere scoperti dagli altri, possono comportare la condanna sociale e l’esclusione.

La regressione all’ordine

Faccio un altro esempio. Una donna di cinquant’anni sta per essere lasciata dai due figli, divenuti adulti e prossimi a sposarsi o a convivere con i loro partner. La donna, chiamiamola Giuliana, ha vissuto una lunghissima parte della vita col marito (un uomo affettuoso, ma anche rigido riguardo alla differenza di ruolo fra uomo e donna all’interno di una coppia), e coi due figli. Poi, giunta a un’età delicata, nella quale si fanno severi bilanci esistenziali, i figli la lasciano per andare a vivere altrove.

Giuliana cessa così, da un giorno all’altro, il suo quotidiano lavoro di madre e deve adeguarsi a vivere col marito, verso il quale ha invisibili e inespressi rancori. Un giorno, deve uscire di casa per andare a fare la spesa. Si è svegliata più depressa del solito, ha sognato di litigare con qualcuno, ma non ricorda con chi. Il marito è fuori, è uscito per portare a spasso il cane. Giuliana apre la porta e viene folgorata dalla luce del sole, quindi ha un’improvvisa vertigine, tutto prende a ruotare in modo vorticoso e caotico, le manca il respiro, il cuore impazzisce. Chiude la porta e si getta sul letto. Da quel giorno, uscirà solo col marito, la mattina, quando lui porta il cane a fare i suoi bisogni. Da una parte c’è il cane, dall’altra lei; il marito, eretto e sicuro, è al centro. Questo è il nuovo quadro familiare.

Cosa è accaduto a questa donna? Con la perdita dei figli, che sono andati a vivere altrove, ella si è vista privata del suo schermo difensivo. Pur avendo rancori verso il marito e verso l’intera vita coniugale (dalla quale sono nati due figli, che pure ama), e forse avendo rancori anche verso la sua famiglia originaria, che le ha impedito di studiare, ritenendo che una donna abbia soltanto bisogno di un uomo che la sposi, questi sentimenti erano stati controllati mediante i suoi quotidiani doveri di madre. Venendo meno lo scudo protettivo morale e comportamentale – la relazione mimetica – costituito dall’essere madre, Giuliana si è trovata sola con se stessa, cioè a contatto coi suoi sentimenti repressi e nascosti. Quel giorno in cui usciva di casa per fare la spesa, aveva preso coscienza del suo stato di solitudine e della condanna a vivere col marito. La sua coscienza si era esposta (ma solo per un attimo) alla violenza dei sentimenti, il suo corpo stava per esserne risvegliato, e a quel punto ha subito l’esperienza del panico. Ha vissuto la sordida paura di mettere in gioco la propria mente e il proprio corpo esponendoli al rischio di vivere secondo la sua sepolta verità.

Da quel momento (dal momento della resa al panico, della sconfitta in una battaglia per il controllo della propria vita), Giuliana ha riparato il suo schermo difensivo, danneggiato dalla scomparsa dei figli, mediante la figura d’appoggio del marito, che diverrà d’ora in poi il suo tutore di fronte a se stessa, il suo filtro emotivo, il padrone della sua vita interiore e di conseguenza anche di quella fisica.

Il panico, dunque, non fa altro che segnalare che la donna è stata d’un tratto vicina alla sua intima verità e dunque all’avvio di una qualche forma di liberazione, ma anche che ne ha avuto una paura mortale, e quindi si è riparata in una condizione di “libertà vigilata”: è regredita all’ordine, allo status quo ante.

In sintesi: allorché la figura d’appoggio manca, si ha:

  1. un sentimento insidioso di esposizione
  2. la sensazione di una grave disomogeneità interna
  3. la paura, più o meno conscia, di una condanna mediata da vergogna o colpa
  4. un attacco di panico, o di derealizzazione, con una funzione restaurativa (in esso il soggetto, benché non ne sia cosciente, invoca e ottiene il ritorno allo status quo ante).

Il sentimento di abbandono

Tre livelli di complessità

Quest’ultimo capitoletto è di tipo più marcatamente tecnico, perciò è rapido e sintetico. L’ho scritto soprattutto per chi abbia qualche strumento tecnico o per il temerario che voglia comunque arrischiarsi ad entrare nel labirinto della dinamiche intrapsichiche e intersoggettive.

Il sentimento di abbandono si muove a tre livelli diversi di complessità; finché è al primo livello, esso è del tutto naturale; appena accede ai successivi due livelli, assume una valenza patologica.

Sentimento di mancanza (ontologico)

Il sentimento di abbandono è avvertito come se mancasse una metà di sé, la metà più importante, senza la quale non si riesce, non è possibile, vivere. La metà mancante in questo senso è fonte di vita. In questo caso, molto comune, c’è a monte un dato di natura: che ogni essere umano, che lo sappia o no, vive sempre in un regime di relazione intima e imprescindibile con qualcuno. Nei miei libri ho chiamato relazione fondamentale l’espressione tangibile di questo bisogno, la sua concreta realizzazione in un rapporto duale.

In questo caso, dunque, si tratta di una insufficienza ontologica, intrinseca alla natura umana, dell’individuo: egli ha sempre bisogno del due, dell’altro.

Sentimento di esposizione

La mancanza ontologica è avvertita come un sentimento nostalgico, talvolta doloroso, ma sano. Per spiegare il sentimento di angoscia di abbandono – patologico – occorre postulare un secondo livello. Il livello dell’angoscia di abbandono si raggiunge quando il soggetto ha la percezione di una esposizione coatta di una propria natura negativa, dunque non solo il dato della propria negatività, ma anche della necessità/pericolosità del partner. Nella nostra struttura psichica, l’altro fondamentale ci ha traditi e ci tradirà sempre – non abbiamo conservato il sentimento della fiducia – quindi ci sentiamo impotenti, abbiamo paura, e odiamo colui che ci fa rivivere quella insopportabile paura. L’intuizione, anche inconscia, della pericolosità della relazione mimetica col partner dà luogo di solito al timore fobico di essere lasciati soli ed esposti al pericolo esterno, ma può dar luogo anche alla crudeltà isterica e alla rivendicazione paranoide nei suoi confronti, perché l’altro non deve, non può abbandonarci, pena il nostro crollo. L’ostilità segreta verso il partner necessario dà allora luogo a ulteriori emozioni negative, che aumentano l’indice della propria pericolosità.

La rimozione del negativo necessita il rinforzo crescente della relazione mimetica, nella quale le parti pericolose sono nascoste e controllate. Naturalmente, ogni più piccola possibilità che questa relazione vada in crisi o termini genera sentimenti panici di una misteriosa catastrofe imminente.

Sentimento di condanna all’esclusione

Alla fine di questo processo emotivo, che trasforma l’ansia in angoscia psicopatologica, c’è l’idea che l’abbandono sia infine un’esclusione attiva (una condanna) dovuta alla propria indegnità. In tal senso, lo stato di attacco di panico cela e scongiura il rischio di una più grave condizione paranoide o depressiva.


La psicoterapia dovrà elaborare:

  1. la paura dell’abbandono
  2. l’angoscia di tornare a contatto con le emozioni prima rimosse, che si pensava di aver controllato
  3. la vergogna e la colpa per quanto sta accadendo nella propria interiorità e nella propria vita
  4. consentire la buona gestione del proprio mondo interno: ossia l’integrazione positiva delle parti ritenute negative e lo sviluppo di una nuova e più sana capacità di relazione.

Note

  1. Nella mia teoria, la psicologia dialettica, adopero il termine “relazione mimetica” in modo affatto diverso da come lo usa René Girard. Per il filosofo francese un soggetto instaura una relazione mimetica con un altro allo scopo di imitarlo, poiché lo ammira e ne invidia lo status. Nella mia teoria, è mimetica quella relazione nella quale un soggetto si adegua a un altro per nascondere parti di sé, anche a se stesso. La relazione mimetica può essere “speculare”, quando l’uno imita l’altro, o “complementare”, quando delega all’altro le proprie parti rifiutate. In entrambi i casi lo scopo è l’occultamento o la rimozione di parti di sé.

Bibliografia

  1. Nicola Ghezzani, Uscire dal panico, Franco Angeli, Milano, 2000.
  2. Nicola Ghezzani, La logica dell’ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.