Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Ansia da prestazione e angoscia di fallimento

Le presenti annotazioni sono ancora allo stato di abbozzo e saranno quindi riprese e corroborate in seguito.

La ricerca del consenso pubblico

Nel mondo odierno, la maggioranza della popolazione passa un numero sempre più elevato di ore della propria giornata a contatto coi mass media, sia a scopo informativo che di intrattenimento. La televisione innanzitutto e, a seguire, il cinema, le riviste, i giornali, internet sono diventati nella vita di ciascuno veri e propri “educatori” (agenzie di socializzazione) quanto lo sono stati un tempo i genitori e i maestri. Ciò è ancora più evidente per le generazioni più giovani, le quali se passano cinque ore al giorno a scuola, ne dedicano altrettante coi mass media: la TV e soprattutto Internet. A ciò si aggiunga che, se il contatto coi genitori dura in media una ventina d’anni e con gli insegnanti più o meno altrettanto, i mass media accompagnano la vita di ogni essere umano – infante, giovane e adulto – vita natural durante, quindi sono di fatto le agenzie di socializzazione più presenti nella vita di ognuno.

Questa singolare circostanza – che rende la comunicazione mass-mediatica importante quanto un tempo lo furono solo le religioni – ha fatto sì che la prospettiva di figurare all’interno di un programma televisivo o comunque su una scena pubblica sia diventata ormai uno dei privilegi universalmente più ambiti. Una apparizione accanto a un personaggio pubblico può di fatto cambiare la vita; la presenza sistematica in un programma televisivo, come personaggio del momento, fa piovere denaro, contratti, ammirazione.

Di conseguenza, il valore del successo è diventato sempre più perentorio e invasivo: grazie ai media, i miti sociali sono in tutte le case e sembrano essere alla portata di ognuno; inoltre, con il loro rimando continuo alla ricchezza e al potere, promettono una soluzione magica a ogni genere di bisogno, quindi, illudono di poter di risolvere lo stesso peso della vita. Essi, nella loro qualità di miti pressoché religiosi, sollevano dall’obbligo morale e intellettuale di mettere a punto il senso radicale – unico per ciascuno di noi – dell’essere autonomi (ossia liberi) e e allo stesso tempo umani. La dipendenza dal mito solleva dalla responsabilità di essere intelligenti, riflessivi, profondi.

Non di meno, occorre prendere atto che attitudini e talenti sono in noi entità psicobiologiche potenziali che hanno bisogno di un lunghissimo e tenace esercizio per definirsi e maturare. Tale esercizio sarebbe impossibile se non fosse motivato e, di volta in volta, rinforzato da un fattore esterno di enorme importanza: il consenso pubblico.

Il bisogno di avere successo, di ottenere appunto un consenso pubblico – avvertibile come stima sociale e, in un senso molto concreto e profondo, come amore sociale –, è dunque connaturato allo sviluppo di qualunque attitudine, per almeno un paio di motivi.

  1. Innanzitutto, perché un’attitudine ha bisogno di un campo semantico per definirsi e manifestarsi (una situazione storico-sociale che le faccia da contesto, un linguaggio comune con cui interagire e comunicare, una attività umana – un’arte, una disciplina, una scienza – cui applicarsi);
  2. e, in secondo luogo, perché, essendo noi animali sociali, traiamo il senso delle nostre azioni e dei nostri progetti e della nostra stessa esistenza dalla relazione che abbiamo con gli altri (in senso stretto: dalla relazione che abbiamo con i nostri simili), e dal valore che ricaviamo da essa.

Sviamenti

Allo stesso tempo, è materia di osservazione comune che colui che cerca il successo, che ha il successo come mira essenziale della sua attività e della sua vita, si rende per ciò stesso vulnerabile al giudizio, quindi sviluppa un’ansia specifica: l’ansia da prestazione e da competizione. Tale ansia, tuttavia, non è altro che il primo stadio di un malessere crescente, che può determinare la sua definitiva infelicità. L’ansia da prestazione può infatti giungere a radicarsi su convinzioni negative circa il proprio Sé e quindi a strutturarsi in una stabile nevrosi del successo, la smodata e incessante ricerca di consenso pubblico e di fama. E questa può ulteriormente evolvere fino strutturarsi in una ancor più temibile depressione da idee catastrofiche di fallimento.

“Senza speranza” (1963), olio su tela, di Roy Lichtenstein

Fantasma che ossessiona l’intero percorso esistenziale, il fallimento è d’altra parte, per questi soggetti, una prospettiva sempre più probabile, perché l’ansia da prestazione instaura una dipendenza dall’opinione altrui, quindi da un lato indirizza il talento personale verso scopi convenzionali, non di rado inadatti al soggetto, che può così essere sviato dai suoi scopi intrinseci, fino a impoverire il talento di cui dispone e a fargli perdere ogni valore non relativo e contingente; dall’altro indirizza l’intera personalità verso un gioco di finzioni sempre più complesso, al termine del quale il raggiunto fallimento si configura come una liberazione.

Chi cerca il successo con ossessiva compulsione può voler ignorare e dimenticare il carattere più specifico del proprio talento, per assoggettarlo a valori estemporanei che possono apparire funzionali alla conquista della visibilità pubblica e del prestigio sociale. Un individuo abile nella musica, per esempio, può cedere alla tentazione di trovare il “motivetto giusto” per guadagnarsi una apparizione su un’emittente pubblica, trascurando così idee meno “convenzionali”, ma più sincere, per esempio nel campo della musica “seria” o “classica” o di altre nicchie musicali poco conosciute.

Se pensiamo alla realtà socio-culturale italiana attuale, giocata in gran parte su ipocrisie morali e clientelismi, è agevole constatare che colui che si lascia indirizzare dal contesto mediatico ha molte probabilità di spingere il proprio talento in direzione di scopi contingenti, quindi per lui stesso miseri e deludenti, fino a distruggere quel talento, non di rado distruggendo anche il complesso della propria persona, corpo e anima.

Avendo adottato come parametro di misura del valore personale il giudizio sociale dominante, egli è preda di valutazioni incerte e contraddittorie, giudicandosi un fallito qualora non ottenga il consenso pubblico, o esaltandosi oltre misura se, anche per caso, ottiene di apparire su un giornale o su uno schermo o se raccoglie un qualche gradimento su un social network.

Il caso delle “veline” lo dimostra: le ragazze presentate sullo schermo televisivo come modello estetico e comportamentale sono scelte sulla base del metro di misura della bellezza fine a stessa: una fisionomia giovane e gradevole che non deve lasciar trasparire alcuna competenza professionale salvo la disponibilità all’uso passivo di sé. Si tratta del modello femminile dominante sugli schermi televisivi, divenuto nel giro di un decennio uno dei pochi “valori condivisi” degli italiani (ben più della bandiera o della Resistenza). L’influsso di questo modello è a tale da aver indotto nuovi parametri di valore: se non rispondono al canone estetico dominante, ragazze e giovani donne si sentono inferiori, anche se hanno tre lauree e un bel carattere; vengono scoraggiati comportamenti estetici e intellettuali difformi, invalidate in radice le identità fisionomiche non conformi e, per contro, incoraggiati sia la disponibilità passiva della giovane donna senza meriti che l’attiva arroganza della donna magari meno giovane e carina, ma più sfacciata ed esibizionista. A riprova di ciò è sufficiente incrociare i dati dei proventi della chirurgia estetica e dell’industria cosmetica, come fa in un suo bel libro Laura Bruzzaniti 1.

Allo stesso titolo nei reality show le persone coinvolte nelle trasmissioni sono scelte e premiate sulla base del loro carattere estroverso, prepotente ed esibizionista, con la conseguente promozione pubblica di un modello identitario conforme. La distruzione dei concetti e valori come umiltà, modestia, temperanza, pazienza, consapevolezza, apprendimento, competenza, esperienza è ormai cosa fatta.

L’ansia da prestazione

L’individuo che segue i modelli comportamentali pubblici può facilmente sviluppare ciò che si definisce ansia o angoscia da prestazione con la correlata nevrosi da insuccesso.

Dipendente dal giudizio sociale, l’individuo che cerca con ossessiva ostinazione il successo pubblico comincia a dubitare di sé, perché intuisce che sta abdicando alla proprietà di sé, del suo io e dei suoi scopi, per asservirsi alla volontà sociale immediata, volontà che può essere in più o meno palese dissidio con la propria.

A questo primo dissidio se ne può aggiungere uno ancora più grave. Infatti, la scissione interna fra sé e la volontà sociale può apparire al soggetto stesso come inadeguatezza e, al limite, come tradimento della collettività che lo ospita. Poiché non è riuscito a ottenere apprezzamento e plauso egli si sente inadeguato, sbagliato, in errore, in qualche modo persino in colpa; e come un bambino che ha deluso i genitori finisce per accusarsi di aver deluso e tradito i valori di appartenenza cui ha diretto la sua vita.

Quindi alla relativa diversità dei valori individuali da quelli sociali si aggiunge il dato di una vergogna sociale sempre più paralizzante. Ciò attiva in lui un bisogno di “recuperare” il giudizio pubblico positivo che teme e avverte perduto, avviando così una spirale angosciosa di ricerche e tentativi, di dubbi ossessivi e di cadute depressive, oscillanti fra effimere esaltazioni di grandezza e lunghe e drammatiche certezze circa la sconfitta finale.

L’angoscia catastrofica lo invade perché non si rassegna al fatto di ospitare dentro di sé valori sociali diversi e concorrenti e che la sua soggettività non crede fino in fondo a quelli derivati dalla collocazione sociale immediata.

In sostanza, egli teme di doversi riconoscere nella forma disperata dell’“uno contro tutti”.

I bisogni di base

Il dilemma si risolve a mio avviso mediante una attenta rielaborazione del concetto di super-io. In questo mi ha aiutato, già molti anni fa, il libro Anatomia della dipendenza, dello psichiatra giapponese Takeo Doi 2.

Takeo Doi mi aiutò a capire che il concetto occidentale di libertà è fallace su un punto essenziale: per nessun individuo esiste la possibilità di esercitare la propria libertà nel vuoto sociale; essa può essere vissuta solo in virtù del transito da un tipo di appartenenza a un’altra. Poiché nessuno è libero da solo, la libertà personale si misura con la possibilità soggettiva di transitare da un’appartenenza a sempre nuove appartenenze.

“Ragazza che annega” (1963), olio su tela, di Roy Lichtenstein

A rigore, l’io non esiste senza l’immanenza in esso del super-io, nel senso che l’io risulta dall’integrazione di fattori bio-psico-sociali radicali, non visibili nel campo sociale immediato. Chiamiamo “io” quella percezione di sé, quell’istanza della persona che mette in evidenza lo scarto differenziale fra sé e gli altri; e chiamiamo “super-io” la messa in evidenza di fattori bio-psico-sociali di base relativi all’essere una sola cosa con gli altri.

È in questo senso che la mia disciplina, la psicologia dialettica, parla di un bisogno di integrazione sociale e un bisogno di integrazione personale (o bisogno di individuazione), un bisogno di unione con gli altri e uno di separazione differenziale, qualitativa. Ed è nello stesso senso che affermo l’io sorge in virtù della buona integrazione dinamica di questi due fattori psichici disomogenei.

Uscire dall’ansia. La terapia

Pertanto, nella cura dell’ansia patologica da prestazione e da insuccesso si tratta di:

  1. individuare i fattori sociali di persuasione e fascino, interpretandoli come entità dinamiche che assoggettano l’io alla società circostante, esponendolo al rischio del rinnegamento di sé.
  2. In un secondo momento, come Ulisse con le sirene, si tratta di resistere ad essi senza cedere in modo passivo, ma esercitando su di essi una facoltà di analisi critica (al limite relativizzandoli, ossia s-valutando e trans-valutando la pretesa di valore con cui si presentano).
  3. Poi, si tratta di focalizzare i fattori interni viceversa autenticabili (i valori radicali di riferimento, individuabili sul rovescio delle emozioni di disagio), confrontandoli con quelli sociali.
  4. Quindi, occorrerà far riferimento alle socialità sottese ai fattori interni (socialità invisibili) rendendole visibili. I valori psicologici di cui disponiamo sono l’espressione di una socialità potenziale (una cultura, un gruppo, un mondo) non ancora esplicita e attiva.
  5. Infine, laddove possibile, occorrerà frequentare e integrare nell’io queste nuove socialità, le socialità invisibili sottese ai valori interni profondi.

In tal modo ci si costituisce un super-io egosintonico, una socialità di riferimento non più ideale o invisibile ma materiale e praticabile che orienta l’io e lo rinforza.


Bibliografia

  1. Laura Bruzzaniti, Il trucco della bellezza, Nuovi mondi, Modena, 2009.
  2. Takeo Doi, Anatomia della dipendenza, 1971, ed. italiana Raffaello Cortina, Milano, 2001.
  3. Nicola Ghezzani, La logica dell’ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.