Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Attacchi di rabbia, attacchi di panico

Due facce della stessa medaglia?

Da alcuni anni sia le ricerche psicologiche che le comunicazioni sui mass media segnalano l’emersione di una nuova sindrome psicopatologica: la sindrome da attacchi di rabbia. Come sindrome essa è sempre esistita, ma di nuovo, oggi, c’è la sua impressionante estensione, tale da far pensare ad una pandemia non minore di quella ansiosa rivelata anni fa come DAP (il disturbo da attacchi di panico) o di quella alimentare descritta ancor prima col termine anoressia.

Le caratteristiche salienti della sindrome da attacchi di rabbia sono almeno tre:

  1. le irruzioni improvvise di rabbia, talvolta tanto imprevedibili da apparire arbitrarie, irrazionali o “folli”; quindi,
  2. i comportamenti collerici asociali, tali da distruggere relazioni parentali, amicizie, amori e lasciare il soggetto solo e in preda alla disperante sensazione di essere un reietto condannato dalla propria natura all’isolamento perpetuo; talvolta, infine,
  3. un rancore e un odio costanti, persistenti, che avvelenano lunghissimi periodi o l’intera vita della persona che n’è affetta.
“Testa di tigre” (1955), olio su ??, di Antonio Ligabue

La persona che soffre di attacchi di rabbia è oppressa e ribelle allo stesso tempo, ma nel suo caso si tratta di una ribellione sterile, che prende a oggetto bersagli simbolici (oggetti o situazioni neutre) oppure, se colpisce persone importanti, è poi seguita da un senso di impotenza, frustrazione, colpa che la rende più un danno che una liberazione.

I dati statistici mostrano livelli di espansione impressionanti: l’80% degli italiani ha quotidiani impulsi rabbiosi; il 20% soffre di un rancore acuto costante. Impossibile parlare di una patologia di tale estensione, senza far riferimento alle circostanze ambientali che la determinano.

Dal punto di vista della mia disciplina, la psicoterapia dialettica, la causa principale del disturbo è l’ipersocializzazione gerarchica, tipica del mondo occidentale, che costringe l’individuo a stressanti regimi di scambio sociale utilitario, improntati a rigidi criteri di sottomissione e regolarità o di efficienza e successo che, non gratificando l’individuo di intime soddisfazioni, lo fanno sentire vittima di uno sfruttamento sociale o di un’ingiustizia morale sottile e costante.

La sensazione di sfruttamento e di ingiustizia può manifestarsi in modo precoce in seno alla famiglia, dove il giovane, sin dall’adolescenza ma non di rado anche dall’infanzia, si scopre perseguitato da una sottile trama di prescrizioni e proscrizioni, incitamenti e ammonimenti, fatti passare per regole morali di carattere universale. L’imposizione al bambino e al ragazzo di tali regole, date per assolute e rese indiscutibili con la minaccia della colpa, è tale da provocare la sua reazione esplosiva, sovente espressa in crisi clastiche (distruttive) che prendono di mira gli oggetti di arredo dotati di valore affettivo o simbolico. Ma può manifestarsi anche in età adulta, nel contesto della vita sociale, qualora l’individuo sia irretito da relazioni ipocrite, che mentre si mostrano guidate da determinati valori, in realtà di nascosto ne mettono in gioco altri, valori che quell’individuo non solo non può fare suoi, ma di cui nemmeno può denunciare l’esistenza, pena il sentirsi giudicato un malfidato, un asociale, un traditore.

“Leopardo”, olio su faesite, di Antonio Ligabue

In questi casi, la funzione della rabbia è duplice, in parte positiva, in parte negativa. L’individuo rabbioso mette fra sé e gli altri un muro di negativismo, un fuoco di sbarramento tale da difendere e preservare la sua individualità psicologica, spesso sensibile e morale e perciò vulnerabile. Allo stesso tempo, però, egli mette a nudo la sua anima in rivolta, ostenta le sue piaghe, fino ad apparire insopportabile e intrattabile non solo agli altri ma anche a se stesso. Il risultato è un isolamento che, impoverendolo di scambi sociali e di verifica delle emozioni, lo rende sempre più indifeso e sempre più soggetto a rischiose regressioni caratteriali.

Dal punto di vista etico, il soggetto rabbioso è un impulsivo che rifiuta la responsabilità sulle conseguenze dei suoi atti. In questo senso egli è anche l’opposto speculare dell’ansioso e del malato di disturbo da attacchi di panico, il quale più che dagli atti, che non compie quasi mai, è angosciato dalle stesse fantasie che formula o semplicemente teme di poter immaginare nella sua intimità. Sicché, se il collerico è definibile come “irresponsabile” (nel senso che non riesce ad articolare una positiva responsabilità circa la sua collera, che potrebbe invece rivelarsi una ricca potenzialità dinamica); l’ansioso e l’affetto da panico sono definibili (senza alcun intento offensivo) come “pavidi” di fronte alla forza degli impulsi che ospitano dentro di sé e che tendono a nascondere agli altri come a se stessi.

Le due sindromi (da attacchi di rabbia e da attacchi di panico) sono talvolta l’una la faccia nascosta dell’altra. Sicché il “pavido” affetto da panico può di colpo mutarsi in un ardimentoso ma anche collerico individuo in rivolta col mondo circostante. Infatti, al momento della risoluzione delle sindromi d’ansia, si avvia spesso una fase più o meno lunga di attacchi di rabbia e di rancore. La rabbia che era incapsulata nel sintomo fobico ha ormai invaso l’io, che ne è dominato. L’ansioso, da “pavido” che era, passa per una fase di irresponsabilità, è pieno di rabbie esplosive e di rancori che egli ha ora il compito di moderare e organizzare.

Talvolta questa rabbia rivela il fondo di rancore affettivo e sociale di cui il soggetto è pervaso e lo pone di fronte alla “verità” di fondo della sua rete sociale; ma il altrettanti casi la persona incollerita è spaventata dalle possibili conseguenze delle sue furie e delle sue “denunce” e ad ogni attacco di rabbia fa poi seguito una depressione, oppure, a titolo preventivo, gli attacchi di panico riprendono forza e occupano di nuovo l'orizzonte della vita.

Nel miei due libri sull’ansia e gli attacchi di panico Uscire dal panico e La logica dell’ansia (editore Franco Angeli), nei quali ho modificato in profondità la teoria psicologica relativa alla genesi dell’ansia e degli attacchi di panico, spiego con chiarezza come l’ansia e il panico derivino da pensieri di ribellione, separazione e indipendenza repressi e cancellati dalla coscienza per via dei sensi di colpa e delle paure di abbandono che provocano nell’individuo. E spiego come, nella mia attività clinica, la corretta articolazione fra panico, rabbia e ricerca dell’autonomia personale produca sempre durevoli effetti di guarigione.

Spesso nella mia attività ho osservato che il soggetto ansioso che si libera della paura si rivela d’un tratto pieno di rabbia e di rancore, e nutre fantasie di riscatto e di vendetta. Talvolta, anche nei casi in cui la psicoterapia che ha in corso sia nel complesso buona (tanto da averlo portato alla coscienza dei torti subiti), egli attiva nei confronti del terapeuta un’intensa ribellione. Si tratta di una dinamica che riflette di questo nuovo e incalzante stato di fastidio per ogni forma di dipendenza, tale che ogni situazione di rapporto stretto e coinvolgente genera in lui dapprima angoscia poi rifiuto. Il paziente, a questo punto, è preda di un “microdelirio narcisistico”, nel quale afferma di avere solo crediti, non più debiti né doveri di sorta.

Se per un verso questa dinamica può dar luogo alla nascita di uno spirito critico andando quindi nel senso della salute e dell’autoguarigione, per l’altro essa può portare a snobbare una terapia positiva e ad abbandonarla, rischiando così di firmare la propria condanna psicologica e sociale.

Non di meno, il terapista deve essere consapevole che questa rabbia è uno dei motori della guarigione, e che pertanto essa deve essere compresa e ben gestita. Di fatto, se si riesce a capirla e contenerla (con la psicoterapia e con l’esercizio di discipline etiche e filosofiche) e ad articolarla in un’azione positiva e moralmente sensata, orientandola verso l’autonomia, l’individuo diviene sempre migliore di quello che era: senz'altro più coraggioso, ma non di rado anche più compassionevole, sia nell’ascolto delle proprie emozioni che nel rapporto con gli altri.