Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Attacchi di rabbia e violenza nella relazione affettiva patologica

Spesso nella relazione caratterizzata da dipendenza e co-dipendenza affettiva uno dei due partner va incontro ad attacchi di rabbia che sono vere e proprie esplosioni di furia aggressiva e distruttiva, il più delle volte motivate da insicurezza e senso di delusione e di impotenza. Questo tipo di reazione rabbiosa lo classifichiamo come disturbo dell’umore (espresso all’interno di un più vasto disturbo della relazione affettiva). Altre volte la rabbia è un’emozione fredda e costante, strutturata nella personalità, e viene adoperata con insensibile determinazione allo scopo esercitare un dominio sul partner. Questo tipo di reazione la classifichiamo come disturbo della personalità.

“Due amici a casa, N. Y. C., 1965”

La rabbia maschile da insicurezza

Quando l’attacco di rabbia si manifesta in un uomo, spesso costui è un individuo insicuro sul piano dell’identità, che ha bisogno di esercitare un controllo sulla partner per proteggersi dall’angoscia della propria temuta insufficienza. Innanzitutto, questa angoscia si manifesta in rapporto a dubbi ansiosi di impotenza caratteriale e sociale: egli non ha lavoro, non è ricco, ha paura di non essere abbastanza solido e rispettato, e di tutto questo si vergogna.

La stessa angoscia di insufficienza si manifesta, in secondo luogo, in rapporto al timore della precarietà delle relazioni: in questi casi, l’uomo è tormentato dal dubbio di essere inutile o insopportabile, quindi di essere abbandonato e di restare solo e di scoprirsi così ancora più impotente. Altre volte, infine, l’angoscia maschile esplode allorché ci si sente posti sotto ricatto giuridico, qualora si sia costretti all’assegno di mantenimento per la moglie o compagna e per i figli e a sempre nuove richieste, e si avverta ciò come ingiusto e umiliante.

In tutti questi casi, in cui si sente minacciato da insicurezza, l’uomo esercita una rabbia reattiva, ossia reagisce per impulso, come per “difendersi”: si sente “aggredito” dalla freddezza della partner o dalle accuse, vere o presunte, che ella gli muove, sicché può reagire con furie improvvise, all’apparenza immotivate, perché lui stesso non è ben consapevole del movimento sotterraneo delle sue vergogne e delle sue paure.

In questo caso, la psicoterapia dovrà aggredire le strutture più antiche della memoria affettiva, nelle quali è depositata una storia di sfruttamento e di umiliazione (spesso difficile da ammettere, perché coinvolge persone un tempo amate). L’uomo interagisce con la partner come ha fatto, in passato, con la madre o il padre (malati ed esigenti), quindi si sottomette alla compagna, per poi scoprire che la sottomissione alimenta un rancore di cui non dà darsi alcuna spiegazione razionale. Oltre a ciò la psicoterapia dovrà analizzare e correggere le ideologie sociali che fanno di quest’uomo una persona ansiosa, ossessiva, insicura e il più delle volte con un basso di livello di autostima. Consiglio a questo proposito la lettura del mio libro, La paura di amare.

La violenza maschile da narcisismo manipolatorio

Altre volte l’uomo è invece un narcisista manipolatore, ossia affetto da un narcisismo accompagnato da tratti sadici. Un narcisista manipolatore ha bisogno di un soggetto passivo, una vittima da ipnotizzare e poi ferire, in un’altalena da incubo, per ottenere la costante conferma della propria potenza e della propria “vincente” insensibilità. In questo caso la violenza è intrinseca al carattere, non è impulsiva e reattiva, al contrario è fredda e meditata e non ha mai lo scopo di estorcere amore o stima, bensì di soggiogare e umiliare. Per ottenere la sua soddisfazione narcisistica l’uomo individua una donna fragile e insicura o con tratti masochistici o anche semplicemente innamorata e la sottopone a un dressage di illusione e delusione, di corteggiamento e sadico disprezzo, o semplicemente di continuo e umiliante maltrattamento.

In entrambi i casi, quello meno grave, quello caratterizzato da angoscia di impotenza, e quello più grave, contrassegnato dal piacere di sottomettere, l’esplosione di rabbia può raggiungere — per fortuna solo in situazioni estreme — il livello della violenza fisica e persino del delitto: la riduzione all’impotenza con la totale umiliazione o anche il ferimento o la morte della partner rappresentano allora il massimo del controllo maschile sulla donna: l’uomo punisce e “incorpora” in modo definitivo le velleità libertarie della partner. Dato il contesto sociologico in cui si svolgono, che arriva talvolta a giustificarle, le storie di rabbia e di violenza maschile sono il più delle volte visibili e persino esibite. Per quanto invisibili talvolta alla donna (perché può essere vittima di una idealizzazione del partner) esse sono sempre percepibili da altri, se bene informati. Sono state pertanto studiate da specialisti e curiosi di ogni sorta. Ne consegue che le dinamiche psicologiche che le contraddistinguono sono ormai di dominio pubblico, trasparenti e ben leggibili.

La rabbia femminile da reattività masochista

Meno visibili — ma non per questo meno frequenti — le violenze femminili sull’uomo. Fra i vari tipi di violenza femminile, il più ambiguo e sfuggente è quello in cui la donna è, almeno in apparenza e per tendenza caratteriale, un soggetto devoto, passivo, talvolta masochista. La donna in questione appare, a prima vista, come una creatura innamorata e generosa, persino immolata alla più perfetta dedizione nei confronti del partner.

“Crocodile eating ballerina” (1983), foto di Helmut Newton.

Poi però rivela di colpo il suo lato oscuro. In alcuni di questi casi, la donna ha una struttura di identità caratterizzata da una forte idealizzazione della figura maschile, non di rado legata a un genitore ammirato o temuto in qualche suo aspetto e all’altro genitore poco presente e significativo o anche disprezzato e odiato. L’idealizzazione primaria del genitore oppressivo è stata conservata a un punto tale che essa viene replicata nei rapporti affettivi (o anche solo sessuali) adulti; sicché la donna con tale struttura di personalità è sempre impegnata in una ineluttabile ricerca dell’uomo percepito e idealizzato come potente, un partner “forte”, ossia ricco e prestigioso su un piano sociale, oppure, quando non possieda queste caratteristiche, freddo e distaccato, o diretto, duro, poco sensibile, o anche brutale. In casi solo in apparenza differenti, ma in sostanza analoghi, l’uomo è avvertito come “forte” in quanto ha già una compagna, forse anche dei figli, quindi si pone verso l’amante da una posizione più sicura, di maggior resistenza, quindi di forza.

Tuttavia, per quanto idealizzato, è inevitabile che l’uomo prima o poi compia atti di gestione del rapporto disattenti o anche prepotenti, atti che la donna interpreta allora come rivelatori di un carattere insensibile ed egoista che essendo stato “nascosto” le si palesa ora come ingannevole, quindi perverso. A questo punto scatta nella donna una rabbia reattiva ribelle, giustificata dalla certezza di essere stata “ingannata” e trattata da “serva” e da “suddita”. Umiliata dalla lunga soggezione, la donna si sente ora autorizzata a interpretare univocamente i comportamenti del partner come attestanti la sua disonestà e violenza, quindi a indagarlo di nascosto per le sue colpe (vere o presunte) per poi attaccarlo in modo aperto e diretto. La rabbia è spesso manifestata in forma di attacchi privi di controllo, altre volte in una tendenza incoercibile e continua al conflitto, altre volte ancora viene posticipata nell’esecuzione e così trasformata in una vendetta meditata e implacabile. In questi casi, la donna può raggiungere livelli di perfidia tanto più sconcertanti in quanto da lei percepiti come “giusti”. In taluni casi, non rari, la partner — che spergiurava solo poco tempo prima di amarlo alla follia — costringe il partner “traditore” nella disperazione, inducendogli angoscia da senso di colpa e ricatto affettivo, riuscendo a sconvolgerlo tanto da estorcergli contrizione, denaro e talvolta spingerlo al suicidio.

Dopo l’evento aggressivo, tuttavia, la donna, se non è resa insensibile da un implacabile bisogno di vendetta, può incorrere anche lei nei sensi di colpa. Può allora soffrire sul piano morale e può sentirsi rifiutata con ragione; sicché a questo punto prega di essere perdonata, oppure si provoca un incidente e si fa del male. Ne consegue che finché non abbia appreso a gestire questi attacchi di rabbia — che spesso rivolge non solo al partner, ma a tutti coloro che le vogliono bene e intendono aiutarla: parenti, amici, psicoterapeuti — la donna è condannata all’infermo della ripetizione, dell’eterno ritorno dell’identico: dinamiche che si ripetono senza requie, come la pena di Sisifo, in un ciclo continuo e autodistruttivo; perché un messaggio non capito, un messaggio senza un ricevente, si ripete senza fine, trasformandosi in un’ossessione. In psicoterapia la corretta gestione di questa parte conflittuale necessita che la donna sia consapevole di ospitare dentro di sé un’aspirazione (tipicamente isterica) alla forza, che ella spesso nega e non riesce a riconoscere come la sua motivazione di base. La funzione dello psicoterapeuta è allora quella di porgerle uno specchio che lei non sa impugnare e di aiutarla a gestire la rabbia che la anima e la delusione e la depressione sottostanti. Preda di un’angoscia sconfinata e di una rabbia “divorante” ella può trovare conforto solo in una figura esterna, come uno psicoterapeuta che sappia individuare e leggere correttamente la dinamica e gestirla al meglio.

Senza l’ausilio esterno, la donna è preda di dinamiche interne senza fine. In realtà la dipendente affettiva rabbiosa ha terrore di riconoscersi “legata” dall’amore, quindi fa di tutto per renderlo impossibile. Ma, poiché è accecata dall’idea di essere “innocente” e di desiderare nient’altro che l’amore, non riesce a vedere in quanti e quali modi riesca a rendersi insopportabile, temibile e di fatto pericolosa. Purtroppo, talvolta, e per la stessa motivazione, attacca e fa fallire anche la psicoterapia, ritrovandosi di nuovo sola e in balia dei suoi incontrollati impulsi. La donna con questa struttura caratteriale dovrebbe dunque fare molta attenzione ai suoi attacchi di rabbia; perché è soprattutto nella buona gestione dei sentimenti ostili — più o meno arbitrari — che si gioca la partita della salute. A proposito di queste complesse dinamiche consiglio la lettura dei miei libri Volersi male e Quando l’amore è una schiavitù.

La violenza della donna brutale sull’uomo masochista

Altre volte — e non sono rare, anche se poco narrate dalla letteratura clinica e dai media — la donna ha un carattere brutale con più o meno evidenti tratti sadici. In questo caso, ella ha ben presenti la sua prepotenza e la sua distruttività e le usa con fredda determinazione. Non ne viene sorpresa come da un’irruzione improvvisa (come accade alla donna masochista che alberga rabbia nell’inconscio); al contrario, la sua violenza è calcolata e messa in atto col preciso scopo di soggiogare l’uomo. Il partner di questa donna è di solito un individuo molto insicuro e dipendente, che vede nella violenza della donna un’espressione ammirevole e persino affidabile di “forza caratteriale” e perciò se ne lascia dominare; oppure è un masochista che trae un senso di sollievo nel placare con la sua sottomissione la violenza femminile, incatenato a un copione scritto nel suo inconscio. Non è raro che, in questi casi, la donna abbia caratteristiche sgradevoli o francamente brutte non solo su un piano mentale ma anche fisico, caratteristiche che tuttavia il masochista, accecato dall’idealizzazione, arriva a percepire come oggettivamente belle e invidiate dagli altri uomini.

In questo caso, la donna è affetta da una psicopatia delinquenziale o da una sindrome borderline, con rapidi mutamenti dalla depressione cupa alla esaltazione maniacale di sé. In entrambi i casi, si tratta di una tipologia con poche possibilità di guarigione; la terapia dovrebbe essere mirata a produrre ciò che lei evita e nega grazie all’insensibilità: la coscienza di colpa. Non di meno, talvolta è possibile che l’uomo si renda conto di essere malato. Si tratta di una consapevolezza molto dolorosa perché gli rivela la sua natura masochista, di cui l’uomo, di solito, si vergogna profondamente e che spesso copre un abisso depressivo. Se accetta di fare una psicoterapia, l’uomo affetto da masochismo dovrebbe essere reso consapevole di ripetere il copione della sua totale soggezione a una donna potente (un succedaneo di una “madre fallica”) e del sollievo ottenuto dalla sottomissione. Una dinamica che di fatto lo danneggia e gli impedisce di attingere alle sue piene potenzialità umane.