Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Attacchi di rabbia maschili da insicurezza

Definizione

Considero l’attacco di rabbia come un atto scongiuratorio che l’individuo compie per proteggersi dall’angoscia di una propria temuta impotenza. Lo considero come un “atto scongiuratorio” perché – sia pure per un tempo limitato – la repentina irruzione di una potente emozione ostile permette di esercitare un controllo su un dubbio radicale relativo alla propria dignità umana. Insidiato dal dubbio come da una incipiente e sconfortante delusione o da un sottile bisbiglio calunnioso, l’individuo “alza la voce” e soffoca l’emergere di questa seconda voce, la voce antitetica, la quale sta mettendo in crisi l’opinione che egli ha di sé.

“Uomo emergente”

Dunque, l’uomo incline a reagire a frustrazioni e insuccessi, anche minimi, con esplosioni di collera e attacchi di rabbia è un individuo insicuro sul piano dell’autostima. Il suo atto rabbioso intende ripristinare un livello minimo di sicurezza interna.

In sintesi: la tendenza all’attacco di rabbia sortisce – a mio avviso – da un’unica angoscia, declinata su due diversi piani: l’angoscia di impotenza. I due diversi piani in cui essa si declina sono:

  1. la certezza di essere nel giusto e il rifiuto di sopportare la delusione della propria impotenza;
  2. il dubbio di essere in torto e la necessità di tacitare l’insorgere di una destabilizzante autocoscienza critica.

Descrizione

L’uomo incline all’attacco di rabbia è un individuo insicuro, insidiato da sottili e pervasivi dubbi circa la propria capacità di interagire in modo efficace con gli altri esseri umani.

Muhammad Ali contro Sonny Liston

In un caso, egli è tormentato dall’intima certezza di essere nel giusto, ma anche dalla delusione di non poter far valere le proprie ragioni. Questo è un caso che attiene alla salute e alla coscienza filosofica dei limiti umani, quindi ne tratterò in separata sede. Nel presente articolo vorrei invece parlare del secondo caso, quello nel quale l’individuo teme di essere in torto, o in una falsa posizione relazionale e esistenziale, e sente messa in dubbio la stessa dignità del suo essere umano e sociale. In questo caso, con l’attacco di rabbia egli intende tacitare il sospetto della propria temuta indegnità sia all’esterno, cioè nell’altro (nella compagna o in altra figura, ma non meno spesso in uno sconosciuto), il quale viene intimorito e sviato nel giudizio, sia in se stesso, perché l’esplosione rabbiosa gli appare come una prova autoreferenziale di forza, quindi di valore personale e di dignità umana.

Di che natura sono i dubbi relativi alla dignità umana personale che danno luogo alla sindrome da attacchi di rabbia? Nella nostra società ne vorrei distinguere di almeno tre tipi.

Dubbi di impotenza sociale

In primo luogo, il rapporto angoscioso con se stessi si manifesta con dubbi angosciosi di impotenza caratteriale e sociale. Chi soffre di questi dubbi ha talvolta dei motivi oggettivi per farlo: per esempio è disoccupato e versa in precarie condizioni economiche, oppure vive in un ambiente sociale degradato. Ma l’oggettività non deve ingannare: l’angoscia ossessiva di impotenza è più soggettiva che oggettiva, perché all’analisi dei dati oggettivi, cui sarebbe possibile opporre azioni concrete di cambiamento, l’individuo insicuro oppone costantemente la segreta certezza d’essere un debole, un inetto, un individuo ridicolo e senza autorevolezza, oppure di essere un uomo integro e valido, ma costretto a vivere in un mondo sciocco e spietato, quindi di essere comunque privo di speranza.

Se si esaminano i giudizi di valore che costui esprime, si tratta, a ben vedere, di attribuzioni che non riguardano la propria condizione oggettiva (che sarebbe modificabile) ma la propria qualità intrinseca di persona o la qualità intrinseca del mondo, percepite entrambe come immodificabili. In sostanza, quest’individuo non è impegnato in valutazioni analitiche, bensì in giudizi morali. Tant’è vero che se possiede qualità evidenti positive (gode di buona salute, ha un buon lavoro, ha amici e una bella famiglia ed è apprezzato e rispettato), egli tuttavia non è mai soddisfatto del livello raggiunto, perché si confronta con modelli astratti idealizzati, senza alcun senso del limite.

Infine, la sua vita è un calvario di paure: non è abbastanza forte, sicuro, autorevole, rispettato, non è nemmeno capace di integrarsi in un gruppo di pari: in sostanza si sente indegno di essere parte del contesto sociale di riferimento, e di tutto questo prova un’intollerabile vergogna.

Dubbi di precarietà relazionale

In secondo luogo, l’angoscia di impotenza si manifesta in rapporto al timore della precarietà delle relazioni. In questo caso, l’uomo è tormentato dal dubbio di essere inutile alla sua compagna o di rendersi insopportabile, quindi di poter essere abbandonato e restare solo, scoprendosi così ancora più impotente. In preda a questi dubbi, egli si tormenta di gelosia per la sua partner: ogni uomo con il quale quella si intrattiene o ha un’amicizia gli appare come un potenziale rivale, da cui si sente insidiato e oltraggiato. Teme che lei, la partner, lo disprezzi per la sua minorità sociale o per la sua debolezza caratteriale o per una sua vera o presunta impotenza sessuale; o che lo condanni per via di suoi aspetti caratteriali negativi. Quindi, è sempre a rischio di sentirsi svergognato e umiliato e di veder crollare la propria autostima. A questa angoscia di un crollo imminente reagisce con atti di violenza il cui fine è debellare l’angoscia o anche semplicemente nasconderla il più a lungo possibile.

Ansie da ricatto giuridico

Altre volte, infine, l’angoscia e la rabbia maschili esplodono allorché l’uomo si sente posto sotto ricatto giuridico, qualora sia costretto a pagare un assegno di mantenimento (per lui troppo elevato) per la compagna e i figli, e a subire sempre nuove richieste, e avverta ciò come ingiusto e umiliante.

In tutti questi casi, in cui si sente minacciato dalla rivelazione angosciosa della propria impotenza, l’uomo esercita una rabbia reattiva, ossia reagisce per impulso, come per “difendersi”. Si sente “aggredito” dalla freddezza della società o della partner e dalle accuse, vere o presunte, che ella gli muove, sicché reagisce con furie improvvise, all’apparenza immotivate, perché lui stesso non è ben consapevole del movimento sotterraneo delle sue vergogne e delle sue paure. Le furie hanno sempre la funzione di cancellare la vergogna che sta per abbattersi su di lui; ma in realtà ne aggravano il peso, perché lo fanno sentire ancora più indegno.

Note di psicoterapia

Quando parliamo di insicurezza nell’autostima, o persino di insicurezza ontologica (che per R. D. Laing è l’insicurezza circa la propria consistenza di entità umana stabilmente collocata nel mondo delle relazioni) 1, dobbiamo affrontare anche il tema del narcisismo. In questi casi di solito si specifica che si sta parlando di un narcisismo carente, o di un difetto narcisistico, cioè di un narcisismo perennemente minacciato di crollo per via delle profonde paure che lo scuotono.

Dev’essere chiaro, tuttavia, che nell’adoperare il termine “narcisismo” in questa accezione non si sta facendo riferimento al concetto elaborato da Freud, per il quale il narcisismo è un “amore di sé” assoluto derivato da una pulsione egocentrica innata; ma si fa piuttosto riferimento ai concetti di “autostima”, “autocompiacimento” e “fiducia di base” sviluppati, per esempio, da psicologi classici e psicoanalisti come William James, Alfred Adler, John Bowlby, Heinz Kohut e Otto Kernberg e ancor più da sociologi contemporanei come Christopher Lasch. Seguendo questa accezione del termine, la patologia consiste in un’autostima debilitata da fattori relazionali più o meno antichi e da fattori sociali, che il soggetto ansioso “rattoppa” malamente con la maschera del machismo, dell’aggressività, della violenza. D’altra parte occorre notare che la maschera così costruita è ben fragile, è un falso Sè che la reazione rabbiosa sostiene per qualche minuto o al più per qualche ora, per poi lasciarla cadere di nuovo, rivelando un volto ancora più angosciato e insicuro.

Per capire il disturbo occorre avvalersi di un pensiero dialettico, che di un fenomeno vede sia il dato manifesto che quello nascosto, sia il lato esteriore che quello interiore. Un’analisi psicologica di questo tipo rivela uno scenario inatteso: un uomo tanto aggressivo ed egoista nelle manifestazioni esteriori, quanto fragile e ossessionato dai propri doveri a un livello più intimo e nascosto.

In effetti, l’uomo aggressivo interagisce con la società e con la partner come ha fatto, in passato, con la madre e il padre freddi, apatici, depressi e abbandonici oppure crudeli ed esigenti. Infatti, in una prima fase, egli si sottomette al gruppo sociale o alla compagna: ne percepisce con estrema empatia le aspettative, più o meno normali, da lui amplificate a dismisura a causa dei suoi antichi complessi; quindi si sente costretto ad abnegarsi e a soddisfare le esigenze altrui, che gli appaiono smodate e spietate, fino allo sfruttamento. Poi, in una seconda fase, egli scopre che la sottomissione e lo sfruttamento (di solito autoimposti) lo fanno sentire debole, dipendente e incompiuto, alimentando un rancore incontenibile, di cui non sa darsi alcuna spiegazione razionale.

In questi casi, la psicoterapia dovrà analizzare ed aggredire le strutture più antiche della memoria affettiva, nelle quali è depositata una storia di effettiva negazione ed effettivo abbandono, o anche di sfruttamento e umiliazione; situazioni peraltro molto difficili da ricordare e ammettere, sia perché coinvolgono persone un tempo amate, sia perché l’ammissione implica la coscienza della propria vulnerabilità, che è proprio ciò che si vuole nascondere.1

Oltre a ciò la psicoterapia dovrà individuare e demistificare le ideologie sociali che fanno di quest’uomo una persona tormentata dalla prestazione, quindi ansiosa, ossessiva, insicura e con un basso di livello di autostima.2

La Psicologia dialettica – disciplina che include nelle sue analisi individuali la presenza della storia sociale – è particolarmente attenta a questo livello dell’esperienza psicologica. I fattori ideologici personali possono infatti costituire una forza traumatica pari o anche superiore a quella interiorizzata nelle relazioni primarie. Quindi, a mio avviso, non si può fare una buona ed efficace psicoterapia senza far riferimento a valori personali, codici culturali, sistemi sociali, micro e macro storia collettiva.

Romy Schneider e Klaus Kinski nel film “L’importante è amare”

Infine, vorrei notare che nel mio approccio terapeutico una completa risoluzione del sintomo non dipende soltanto dal recupero di una sana e armoniosa capacità di relazione affettiva (cosa consigliata, con opportuna saggezza, da tutti gli approcci psicologici), ma anche dalla conquista di un altrettanto sano e armonioso orgoglio d’essere se stessi. Quello di orgoglio è un concetto quasi del tutto rimosso dalla prassi terapeutica ordinaria, in specie quella psicoanalitica di matrice freudiana e kleiniana. Ma l’orgoglio non è il narcisismo: un termine non può sostituire l’altro. Per quanto si possa parlare, con una certa confusa approssimazione, di “narcisismo sano”, il concetto di narcisismo contiene sempre un’implicita sfumatura negativa, anche morale, quello di orgoglio no.

L’orgoglio è il piacere di essere se stessi e di stare con se stessi come col miglior amico e, allo stesso tempo, di porsi di fronte alla propria personalità con la piena disponibilità riflessiva a conoscersi, stimarsi, rimodellarsi. Quindi, in psicoterapia, se da un lato gli effetti distruttivi degli attacchi di rabbia vengono superati grazie alla riconquista della capacità di relazione affettiva, dall’altro la tendenza a dotarsi di un carattere forte – implicita in ogni manifestazione di aggressività – può essere mitigata e riassorbita nello sviluppo di un orgoglio maturo. L’una cosa non esclude l’altra. In una buona psicoterapia occorre saper bilanciare il bisogno di integrazione sociale col bisogno di individuazione. La consapevolezza orgogliosa di sé è parte coerente di quel processo di individuazione di cui la psicoanalisi freudiana e kleiniana – ossessionata dall’inconscio come forza negativa, quindi da concetti come la pulsione di morte e il narcisismo – non riesce a darsi conto. Di fatto, una piena capacità di relazione affettiva non può esistere in assenza di un intimo e saldo piacere di essere se stessi.

Le teorie psicologiche che non adottano un modello dialettico tendono a privilegiare sempre un aspetto piuttosto che l’altro. Nel caso in cui vengano privilegiati i bisogni di integrazione sociale, il Sé come opera esistenziale non viene preso in considerazione; nel caso in cui si dia un’enfasi particolare alla liberazione dell’Io e all’affermazione di sé, non viene presa in considerazione la funzione equilibratrice della relazione affettiva.

Se non si adopera un modello dialettico si finisce sempre per eccedere in un senso o nell’altro. È per questo motivo che la mia proposta teorica poggia nella sua architettura essenziale sull’antica tradizione del pensiero dialettico.


Note

  1. In questo senso sono attenti e precisi (e quindi da consultare) gli studi di John Bowlby, Donald Winnicott, Alice Miller, e in genere della psicoanalisi relazionale e intersoggettiva.
  2. Consiglio a questo proposito la lettura di due miei libri: Volersi male, dove analizzo la nevrosi del dovere, e La paura di amare, in cui descrivo la personalità impaurita e difesa nei confronti dei normali sentimenti di relazione.

Bibliografia

  1. R. D. Laing, L’Io diviso (1959), Einaudi, Torino, 1969.