Nicola Ghezzani

Foto di Nicola Ghezzani

Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Cambiare attraverso il transfert

Domande sul transfert

Nella relazione di psicoterapia, il paziente di solito vede il suo psicoterapeuta come un professionista, quindi all’interno di un rapporto sociale pragmatico; ma non poche volte lo pensa come un esperto di vita, talvolta persino come un saggio. Lo può avvertire simile a un padre o a una madre, un fratello o un grande amico, talvolta simile a un figlio o a un amore delicato da proteggere da se stessi, da una propria nascosta aggressività. Talvolta è un amico, talaltra un nemico. Le sfaccettature del rapporto che ha con lo psicoterapeuta sono molteplici, complesse quanto la sua personalità. Ma solo di alcune di queste sfaccettature il paziente è consapevole; la gran parte di esse gli sfuggono, sono subliminali, spesso inconsce.

Fotografia di Rodney Smith

E dunque, poniamoci questa domanda: in che modo – con quali emozioni, sentimenti, fantasie, pensieri – il paziente percepisce il suo psicoterapeuta? Come lo sente, lo fantastica, lo pensa? Che tipo di esperienza vive o rivive attraverso di lui? In che misura questa esperienza è lucida e consapevole e in che misura è invece impercettibile e persino inconscia?

Questi sono i quesiti che ci poniamo quando intendiamo capire il transfert, ossia il processo psicologico attraverso il quale il paziente sente, pensa ed elabora la figura del suo terapeuta. Quesiti che si accompagnano a quelli reciproci che appaiono nella mente del terapeuta: Che devo fare di questa massa di sentimenti? si chiede il terapeuta. Che rappresenta lui (o lei) per me, e cosa devo fare dei sentimenti che esprime nei miei confronti?

Un’aria di mistero

Scrivo questi appunti riflettendo su una recente seduta di psicoterapia occorsa con una mia paziente, una donna che conosco da pochi mesi. Si tratta di una giovane donna di circa quarant’anni, graziosa, piccola di statura e timida ed esitante sin dall’avvio del nostro rapporto. Nell’occasione che intendo rievocare, la ricevo alle sette di sera, in un momento in cui nel mio studio s’è fatto ormai buio ed io sono solo. In verità, non la ricevo affatto: come faccio sovente, mi limito a rispondere al citofono, ad aprire la porta d’ingresso e a lasciarla socchiusa in modo che, mentre attendo che il paziente salga le scale e richiuda la porta alle sue spalle per accomodarsi di sua iniziativa nella sala d’attesa, io possa dedicarmi a momenti di vita personale. Allora, mentre ascolto i rumori o il silenzio del mio paziente, finisco di leggere o scrivere una pagina, bevo un sorso d’acqua o un caffè, leggo e rispondo a messaggi ricevuti sul cellulare o sul computer, mi riposo, o semplicemente vado in bagno...

Fotografia di Rodney Smith

Quella sera, Diana (chiamiamola così) esita... Mentre sono nella cucina dello studio e sto sorseggiando un semplice bicchiere d’acqua, sento che è entrata nell’appartamento con cautela. Ha infatti chiuso la porta d’ingresso con un leggero tonfo ed è entrata in sala d’attesa con fare circospetto. Lo ha fatto pian pianino, come domandandosi se abbia il diritto di agire in quel modo così “familiare”: è entrata in casa senza che nessuno l’abbia accolta e invitata a farlo, inoltre è rimasta sorpresa dalla penombra e dal silenzio dell’ambiente. Immagino allora la scena che si svolge a qualche metro da me e mi rendo conto del flusso di emozioni che mi raggiunge. La donna è entrata nell’appartamento di un uomo vent’anni più anziano di lei, molto più alto e per di più stimato, forse persino ammirato. Lo studio è vasto e silenzioso ed è illuminato dalla sola bassa luce dei lumi (per abitudine, poiché amo le atmosfere soffuse, non accendo quasi mai i lampadari del soffitto). Lei non mi sente parlare – come accaduto tante altre volte – con il paziente che la precede. Dunque, è sola nello studio di quest’uomo maturo e silenzioso e avverte tutt’intorno un’aria di mistero. Poiché la conosco, mi rendo conto che ha paura. Si tratta di una paura sottile, inammissibile (io sono pur sempre il suo stimato psicoterapeuta!); eppure è proprio di paura che si tratta!

L’archetipo del padre

Mi muovo con calma, ma messo sull’avviso dalla percezione che ho appena avuto. Quando infine la accolgo con un sorriso, la conduco nella stanza di lavoro e la faccio sedere di fronte a me, siamo subito in medias res. Mi parla della recente morte del padre e dei sentimenti che prova. Benché non lo abbia amato, mi racconta di come lo abbia accudito con tenerezza nei suoi ultimi giorni, quando, colpito da una serie di ictus, era smagrito e spaventato e le chiedeva di dormire con lui, nel suo letto di malato, stringendole la mano. Il padre era un patriarca vecchia maniera, un padre-padrone, che aveva maltrattato e umiliato la moglie per tutta la vita e squalificato la figlia, preferendole in modo aperto i figli maschi. Per tanti aspetti Diana lo aveva odiato, ritenendolo responsabile della depressione della madre e della sua umiliazione personale, nonché dei mediocri rapporti da lei intrattenuti con gli uomini, fra cui un lungo e penoso matrimonio fallito.

Dunque la paura provata da Diana entrando in studio riguarda non solo e non tanto il padre reale, quanto l’imago paterna, l’archetipo del padre. Diana, entrando in quest’appartamento “vuoto” di presenze umane, abitato dallo “spirito invisibile” del suo analista, ha vissuto in modo inconsapevole la paura che io sia quell’archetipo – che io appartenga all’insieme “Padre” – e che possa esercitare su di lei il potere punitivo che il padre reale non può più esercitare. Si è chiesta: Se mi introduco di soppiatto nella sua vita, scatenerò le potenze della punizione?

Fotografia di Rodney Smith

Parlando allora delle sue ultime esperienze vissute al capezzale dell’uomo le dico che, accudendolo, lei ha compiuto due atti importanti, uno scisso e quindi patologico, l’altro bene integrato e sano. Il primo è stato il nascondere dietro la maschera della figlia buona l’ostilità provata per lui per tutto il corso della loro vita in comune; il secondo è stato invece il rovesciare in un rapporto di tenerezza la durezza che ha improntato da sempre i loro rapporti. Dunque, il gesto caritatevole compiuto accudendo il padre è stato allo stesso tempo sia vero che falso. Le dico inoltre che il rapporto col padre è stato alla base della sua sottomissione al carisma maschile, e uso intenzionalmente il termine “carisma” piuttosto che “potere”. Per carisma voglio sottintendere il fascino positivo che l’uomo “forte”, “maturo”, “autorevole” le ha sempre suscitato; ma allo stesso tempo anche il potere negativo di suggestione che questo tipo d’uomo ha esercitato su di lei. A questa sottomissione al carisma dell’uomo, lei ha risposto – aggiungo – provando odio e sviluppando una fantasia di controllo onnipotente della figura maschile. Cioè, mentre accettava di sottomettersi all’uomo, allo stesso tempo provava odio per l’uomo che le chiedeva un tale sacrificio e ne diventava l’adulatrice e la tiranna.

Il carisma maschile

Mentre le offro queste interpretazioni, la osservo accarezzandole il volto con lo sguardo. Il suo volto grazioso appare “imbambolato”. Mentre mi osserva a sua volta, è totalmente protesa con il corpo verso di me e gli occhi le brillano rapiti. Per sua stessa ammissione, capisce tutto quello che le dico, eppure si sente confusa. È sotto l’effetto di una fascinazione ipnotica. L’effetto di confusione le deriva dal sentire il suo io rapito dal mio carisma. Comincia allora ad apparirle chiaro che ho usato il termine carisma per renderle evidenti le analogie fra il rapporto avuto col padre da bambina e quello stato di stupore in cui si trova quel giorno di fronte a me. Solo pochi minuti prima, appena entrata nell’appartamento, Diana era impaurita; ora, in seduta, vedendomi attento a lei e padrone della situazione è rimasta affascinata. Pur non avendo affatto parlato in modo diretto del nostro rapporto, io vi ho alluso e lei lo ha intuito, sebbene in modo appunto confuso.

Dunque, grazie al transfert con me lei può sperimentare degli affetti diversi da quelli che la sua memoria le ricorda di aver vissuto nel rapporto col padre e nelle relazioni non meno ambivalenti avute coi compagni di vita. Grazie a me, Diana sta sperimentando emozioni del tutto diverse. Subisce il mio carisma, eppure non mi odia! E se pure mi odiasse, il pensiero malevolo le sarebbe subito cosciente e dovrebbe criticarlo, per l’incongruità con la situazione oggettiva, che non è affatto minacciosa. Non ha nulla da imputarmi, a parte il fascino che esercito su di lei; e non ha nulla da imputarsi, a parte l’avere un inconscio seducibile e pensieri e sentimenti di cui non sa ancora darsi una ragione.

La strategia ambivalente

Nel corso del colloquio, in conseguenza di riflessioni fatte anche in altre sedute, Diana si rende sempre più consapevole dei suoi sentimenti misconosciuti e rimossi. In termini junghiani, possiamo dire che si rende sempre più consapevole della sua Ombra, di tutta un’area della sua personalità che le è apparsa fino a quel momento labile e sfuggente1. Il carisma su di lei esercitato dall’uomo, cioè il suo bisogno di confrontarsi con una figura maschile, si è unito all’odio per il padre, e la miscela fra i due fattori è stata micidiale. L’ha portata infatti ad avere con gli uomini rapporti saturi di ambivalenza: rapporti in apparenza adoranti, invece pieni di rabbia e di livore. Tanto che nelle relazioni sentimentali la prima domanda, sebbene inconscia, che Diana si è sempre posta non è se l’uomo la ami davvero, bensì se lei sarebbe riuscita o meno ad ingannarlo circa i propri reali sentimenti. Diana ha con gli uomini una strategia, un “copione”, che segue da sempre. Poiché sa di essere ambivalente verso di loro, sceglie un compagno narcisista da ingannare mediante l’adulazione e l’adorazione; poi, poiché è infuriata della sua stessa sottomissione, non appena lo vede pieno della sua vanagloria, lo disprezza. Infine, fa in modo che il rapporto finisca.

Fotografia di Rodney Smith

L’Ombra di Diana, il suo io antitetico – come lo chiamo io –, ripetono in continuazione questa strategia di cattura e di ripudio nei confronti di un esemplare maschile insensibile e vanesio. Strategia vincente sul piano del potere, ma perdente sul piano dell’amore e della vita di relazione. Strategia che infatti l’ha mutilata di ogni sua evoluzione complessa e di ogni sua ulteriore umanizzazione. Tanto più che all’attivarsi di questa strategia difensiva-offensiva segue sempre un’oscura angoscia di colpa: la sensazione di essere cattiva, di non essere amabile, quindi di essere una non-donna, un’entità abnorme2. All’interno di questa strategia, l’uomo è sempre stato per lei sia il prepotente vanesio da sconfiggere, sia l’imperioso giudice da temere.

Il significante enigmatico

Cambiare attraverso il transfert

Diana cambia attraverso il transfert: nel momento in cui accetta di vivere con me una relazione “sorprendente”. Ha accettato di subire il mio carisma personale, cioè il fascino di un uomo diverso dai suoi soliti compagni e la paura nei confronti della misteriosa entità maschile che io rappresento. Questa sua prima accettazione le ha consentito di rievocare qualcosa di ancora più profondo: la suggestione per il fascino primario, arcaico, dell’archetipo del maschio e del padre.

Mentre interagisce con me e comprende le mie interpretazioni, non ha più di fronte a sé il padre punitivo della sua infanzia e della sua adolescenza, e neppure i tanti uomini che l’hanno delusa; ha invece di fronte il padre archetipico, l’entità misteriosa che dà la vita e la sostiene...

Dunque, io, il suo analista, sono diventato per lei il significante enigmatico, a partire dal quale porsi di nuovo e da capo queste domande fondamentali: Cos’è un uomo? Chi è quest’uomo che è di fronte a me? Cosa possiamo volere l’uno dall’altra?

Di fronte a queste domande aperte e senza risposta, si avvia la creatività del cambiamento. Come figlia e come donna tutto torna possibile. L’analista è ora per lei l’occasione di ripensare la sua percezione del padre e dell’uomo. Da questo momento, forse, Diana sarà in grado di vedere un padre e un uomo diversi: un padre che feconda la sua anima, e un uomo, un compagno, capace di amorosa reciprocità.


Note

  1. Dopo il concetto di processo di individuazione, quello dell’Ombra è forse il contributo più geniale di Jung. Nata dalle riflessioni (come quelle di Frederick Myers) di fine Ottocento, inizi Novecento, sulla scissone della personalità e le personalità doppie o multiple, l’Ombra rappresenta per Jung il lato rimosso della nostra personalità, quello che la nostra coscienza morale non ammette e non sopporta. E che deve tuttavia capire e, se possibile integrare in se stessa, se intende cessare di esserne squilibrata e pervenire a un nuovo, più vasto equilibrio.
  2. Ho descritto queste dinamiche affettive in almeno un paio di libri editi: Quando l’amore è una schiavitù 1 e Perché amiamo 2. Una nuova e più stringente sintesi delle mie riflessioni al riguardo è contenuta nel libro Amore mio, idolo crudele, in uscita con Sonzogno per il 2014.

Bibliografia

  1. Nicola Ghezzani, Quando l’amore è una schiavitù, Franco Angeli, Milano, 2006.
  2. Nicola Ghezzani, Perché amiamo, Sonzogno, Milano, 2013.