Nicola Ghezzani

Foto di Nicola Ghezzani

Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Derealizzazione e depersonalizzazione: per cominciare a capire

Una descrizione di ordine generale

Foto decorativa

È da lungo tempo che mi occupo di questi due strani sintomi che i manuali descrivono come depersonalizzazione e derealizzazione. Li conosco per averne sofferto io stesso da ragazzo e per averli resi oggetto del mio studio nel corso di lunghi decenni di attività clinica. Della mia personale esperienza ho parlato, con dovizia di particolari, nel libro Ricordati di rinascere, del 2013. Essendone guarito del tutto (verso la fine degli anni 70) con soli tre anni di psicoterapia ho fatto di essi una delle mie ragioni di vita, sia nel senso clinico di curarli nei miei pazienti, sia nel senso culturale di farmene portavoce scientifico, allo scopo di correggere le gravi inesattezze di cui sono fatti oggetto.

L’approssimazione relativa ai due disturbi, che domina sia in campo psichiatrico che psicologico, è sconcertante. Il più delle volte sono confusi e associati a sindromi gravi neurologiche o psicologiche come la depressione o la psicosi. Questo errore purtroppo è ancora molto diffuso e io mi picco di volerlo correggere con il mio lavoro e i miei scritti. Derealizzazione e depersonalizzazione non attengono alle disfunzioni del cervello, né sono si per se stesse indice di psicopatologia grave (depressiva o psicotica). Sono piuttosto sindromi autonome, benché spesso correlate a diverse fobie e agli attacchi di panico. Fanno parte della vasta famiglia dei disturbi d’ansia, di cui rappresentano uno dei picchi di maggiore acuzie. Possono essere episodiche e transitorie o stabilizzarsi per anni.

Veniamo ora a descriverne le manifestazioni sintomatiche più comuni. I sintomi più comuni consistono in sensazioni di irrealtà, intense e spesso drammatiche, l’una relativa alla percezione del mondo, l’altra relativa alla percezione della propria mente e del proprio corpo.

“Alienazione”

Le due esperienze nascono da una matrice comune: la percezione di se stessi e del mondo è alterata e irriconoscibile e non appare più possibile ricondurla al senso comune. Il soggetto vede e percepisce se stesso e il mondo come in un sogno, come una mera rappresentazione: tutto gli appare remoto, meccanico, morto, insensato, folle. Lo vede come da dietro una spessa coltre di sonno, o da dietro una lastra di vetro, o come se fosse immerso in un piscina o nelle profondità del mare; e come se lui stesso fosse un palombaro, un automa, un morto, una mente aliena dissociata da ogni essere umano. Il suo punto di vista gli appare diverso da ogni esperienza cognitiva pregressa: tutto gli si mostra strano, estraneo, impersonale, extra-umano o disumano, alieno al senso comune, sconnesso sul piano temporale, composto da piani o da mondi dissociati l’uno dall’altro e non comunicanti; niente è più sostenuto dal “sentimento dell’esserci”, dal sentimento empatico e partecipativo che caratterizza il rapporto che l’Io ha di solito con se stesso e col mondo.

Come il sogno “spiazza” e aliena il punto di vista e il significato abituali, così le esperienze di derealtà separano l’Io dal sottofondo di emozioni che rendono il proprio corpo e il mondo qualcosa di sentito, di intimo e di sensato. Se sono derealizzato o depersonalizzato vedo il mondo o me stesso come se fossi separato dal mio corpo o dal mondo da una lastra di vetro o da una densa superficie liquida o da una luce irreale e, non di rado, da un sentimento di nausea o di orrore. Vedo il mondo e il corpo personale come se ne fossi al di fuori, come in un’allucinazione. Una rappresentazione del tutto irreale, che altera il senso del sé, del tempo e dello spazio prende il posto della mia percezione realistica e immediata.

Nelle esperienze di derealtà il soggetto si sente distaccato, come un osservatore estraneo del proprio corpo, dei processi mentali che avvengono nel proprio Io e delle azioni che avvengono nel mondo. L’esame di realtà è mantenuto integro (di fatto, anche agli esami strumentali, non risulta al alcun vissuto di tipo allucinatorio o delirante), ma l’esperienza di derealtà è comunque spiacevole, raccapricciante, talvolta terrorizzante a un punto tale da portare a reazioni di ansia, angoscia, panico e al sentimento disperante e depressivo di essere preda di una malattia irreversibile.

Come nella derealizzazione il mondo appare meccanico, scollegato, arbitrario, triste e privo di senso, così nella depersonalizzazione il corpo e l’Io psicologico possono apparire vuoti, trasparenti, eterei, torpidi, gonfi, distanti, assenti, con le parti scollegate le une dalle altre, talvolta ci si osserva dall’alto, da lontano, da fuori del corpo stesso e si visualizza al posto del corpo abituale un oggetto morto, meccanico, abnorme, estraneo.

L’angoscia di secondo grado

C’è un momento che precede l’episodio di derealizzazione durante il quale il soggetto cessa di avvertire il processo vitale in corso; ogni cosa fuori e dentro di lui sembra come “rallentare” o “fermarsi” del tutto; ed egli non avverte più la qualità che un attimo prima caratterizzava la vita.

Poi fanno irruzione tutti i sintomi che abbiamo già citato. A volte è il mondo là fuori ad essere privo di vita: allora esso appare come un teatro di burattini, uno scenario di cartapesta abitato da automi, una buca popolata di insetti; altre volte è l’Io che perde la sensazione d’essere vivo: l’Io si separa allora dal proprio corpo (si identifica con una parte della sua percezione a danno di un’altra: p. es. coincide con lo sguardo, ma rinnega il tatto; ecc.). Dunque, l’Io vede il suo corpo come un corpo inerte e lontano, un agglomerato di protesi organiche insensate e nauseanti, un’immagine riflessa in uno specchio, una serie di entità fisiche (corpo, voce, posizione nello spazio e nel tempo) dissociate l’una dall’altra, come in uno specchio rotto.

Foto decorativa

Giunti a questo punto, tuttavia, la percezione appare così “strana”, così fuori dal senso comune, così remota e “alienata”, così priva di ogni familiarità con le cognizioni pregresse che di solito si ha una immediata reazione difensiva e si avvia un processo secondario. Questo processo secondario, che esita in un’angoscia di secondo grado: il soggetto teme di star vivendo l’episodio fatale che sottraendogli il controllo della mente lo porterà alla follia. Precipita allora nel terrore di impazzire, le percezioni si cristallizzano e spesso ha una lunga, interminabile crisi di angoscia, oppure un attacco di panico. Se questa angoscia non viene ridotta, è facile che il derealizzato precipiti dalla fobia di perdere il controllo e dall’angoscia di impazzire o di essere già pazzo a uno stato depressivo costante, che può anche, col tempo, diventare grave. A livelli di ansia molto elevati, egli può giungere a pensare che il mondo sia già finito, o che tutti siano morti, o scomparsi, o che tutto – mondo, persone, universo intero – sia solo una creazione della sua mente. L’ansia da derealizzazione si è fusa con l’angoscia secondaria di impazzire o di essere già pazzo producendo una sofferenza aggiuntiva, del tutto inutile ed estrinseca al sintomo. L’idea di essere folle è solo un’interpretazione del soggetto, che nulla ha a che fare col disturbo di base.

Questo ansioso processo secondario non è parte del fenomeno di base, si innesca solo in quanto il soggetto precipita nel terrore di fronte a una realtà psichica che gli è sconosciuta e non sa classificare. Ciò si dimostra a contrario: infatti, qualora si riesca a placare l’ansia relativa al fenomeno (con mezzi propri o – per chi non sia in grado di farlo – con uno psicofarmaco) il terrore scompare e resta solo la percezione di base, l’alienazione da se stessi e/o dal mondo, con un velo di assenza che copre e pervade ogni cosa.

Dunque, la prima cosa da fare in psicoterapia è riportare il paziente dalla fase dell’angoscia secondaria, particolarmente tormentosa, a quella iniziale, primaria, nella quale il sintomo è drammatico e severo, ma di per se stesso non sconfinerebbe né nel panico, né nella depressione, né nella fobia ipocondriaca della follia. Se il paziente si rende conto di questo, se riesce a de-oggettivare ciò che arbitrariamente gli appare oggettivo (danno cerebrale o follia presunti), allora è possibile cominciare una seconda fase del lavoro che è quella di renderlo consapevole dei suoi conflitti interni.

È ovvio che, qualora il paziente prenda farmaci, lo psichiatra e il medico curante dovrebbero essere sufficientemente svegli e illuminati da non atterrirlo con diagnosi infondate di patologia biologica irreversibile.