Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Dipendenza affettiva

Quattro distinte tipologie patologiche

Dipendenza affettiva e mito dell’armonia

“Mia Villiers Farrow”

Nel mio recente libro L’amore impossibile ho descritto la dipendenza affettiva come una sindrome piuttosto complessa che include almeno quattro distinte tipologie patologiche maggiori, che sorgono come fasi di un processo di progressiva trasformazione da una struttura elementare di base.

Alla sua origine la dipendenza affettiva è infatti una sindrome relativamente semplice, essendo prodotta da poche dinamiche intrapsichiche elementari composte in una semplice struttura relazionale.

La sindrome della dipendenza affettiva è caratterizzata da due dinamiche fondamentali:

L’idealizzazione
La prima dinamica è una rigida idealizzazione del partner, anche e soprattutto quando costui non ama o talvolta persino sfrutta e maltratta l’innamorato.
La rimozione selettiva
A questa prima dinamica occorre aggiungerne una seconda. L’idealizzazione ha la funzione di impedire al soggetto dipendente di esternare ciò che “sotto pelle” intuisce del partner: cioè l’indifferenza, il rifiuto, talvolta il disprezzo e persino l’ostilità sadica. L’impedimento a prendere coscienza del disagio è realizzato mediante una massiccia opera di rimozione interna e di nuova idealizzazione. Quindi accanto alla idealizzazione, la seconda dinamica caratteristica del disturbo è la rimozione selettiva degli aspetti negativi del partner o del rapporto, nonché del disagio e delle reazioni emotive critiche che ne sortiscono.

In sostanza, il dipendente si impedisce di sentire e capire fino in fondo ciò che sta accadendo nella relazione e quindi di reagire. Perché? I motivi sono due, uno riguarda la storia soggettiva, l’altro la dimensione socio-culturale.

Il senso di colpa e la paura dell’abbandono
Egli non reagisce innanzitutto perché condizionato a rimuovere la consapevolezza del “male” sin dalla prima infanzia: egli spesso si è inibito la capacità analitico-cognitiva nella relazione primaria coi genitori, se abbandonici o abusanti, per evitare di soffrire a causa loro, di arrabbiarsi e di odiarli. In sostanza, da bambino si è impedito di capire e reagire per non dover sprofondare nel senso di colpa e nella paura di abbandono.
Il Mito dell’armonia, ovvero il Codice servile
Nel passato psichico del soggetto c’è spesso un genitore oppressivo da accudire o verso cui essere compiacente; nondimeno questo dato per essere davvero efficace deve esser rinforzato al presente da un’ideologia, una visione del mondo e dei rapporti affettivi, un dato socio-culturale che gli impedisce di avere piena coscienza delle sensazioni avvertite “sotto pelle”. Io ho chiamato questa ideologia socio-culturale inibitoria coi sinonimi Codice servile e Mito dell’armonia. Si tratta di un’importante novità da me introdotta nella spiegazione di molte patologie psicologiche.

Il mito dell’armonia consiste nella presunzione di credere che a un proprio comportamento “buono” (o forse semplicemente “servile”) coincida – debba coincidere – il rabbonimento dell’altro. Quindi, il mito consiste anche nell’idea (di lontana matrice religiosa) che l’amore nasca fondamentalmente dall’annullamento dell’Io.

Ideologia falsa e pericolosa: l’attività clinica ci dimostra infatti che è impossibile guarire dalla dipendenza affettiva senza una piena consapevolezza del maltrattamento in atto e del rapporto di oggettiva “inimicizia” che in realtà lega il dipendente al partner, o dell’autolesionismo di marca masochistica che porta a idealizzare rapporti frustranti o persino inesistenti.

Ho già scritto tante volte che la rabbia, l’odio e la vendicatività fanno parte del corredo psicobiologico umano e servono come “difesa aggressiva” dall’abuso. Non tutti i miei lettori hanno compreso appieno il senso di questo concetto; tanto che alcuni – in verità non molti – mi hanno contestato che la legge dell’amore è universale e che i sentimenti aggressivi dovrebbero scomparire grazie all’esercizio dell’armonia affettiva e dell’annullamento del proprio Io. Ebbene, una tale affermazione, nonché a contestare, sembra piuttosto utile a dimostrare la mia tesi: questo rimando alla “bellezza” dell’annullamento del proprio Io è infatti l’espressione più tipica del mito dell’armonia. Nessun operatore della salute mentale (che fosse sano di mente) oserebbe obiettare al dipendente maltrattato dal suo partner – per esempio alla donna quotidianamente umiliata dal compagno cocainomane – che non ha “annullato abbastanza il proprio Io”. L’evidenza clinica è che lo ha fatto fin troppo!

I sentimenti “negativi” possono scomparire solo se tradotti in intelligenza critica. Difendersi allora significa separarsi dal “nemico”: dal partner indifferente favoleggiato come innamorato, dal violento abusante con tratti sadici, e infine anche dal persecutore interno, rappresentato da quello esterno. Guarire alla fine significa separarsi dal “nemico” senza mai derogare al dato di fatto che maturare il Sé personale è sempre anche un esercizio di intelligenza critica, di distinzione e di separazione.

La dipendenza affettiva come scissione della personalità

La dipendenza affettiva può a questo punto essere analizzata come una scissione della personalità in due parti contrapposte, che alla fine risultano obbedire a un'unica spietata logica.

Francesca Woodman

Con una parte di sé il dipendente affettivo vive immerso il quello stato d’animo che ho chiamato Mito dell’armonia. Da bambino e da adolescente è stato devoto e sottomesso a un genitore, nel senso che ha tollerato i suoi aspetti prepotenti, denigratori o depressivi. E anche quando egli si è posto in conflitto con questo genitore lo ha fatto sempre lasciando l’ultima parola ai tormenti del senso di colpa. Pertanto, da adulto – con la stessa modalità con cui ha approcciato il genitore –, è portato a idealizzare il partner anche se questo lo ignora o lo maltratta ed è del tutto inadatto a fare coppia con lui. Lo idealizza, quindi è esaltato dal fascino del suo compagno e immagina il suo amore come unico e meraviglioso.

(Al dipendente affettivo accade, allora, quello che accade a tante persone nei social network, dominati da parole d’ordine virali: tutto è bello e meraviglioso, ognuno è un santo, ovunque ci sono solo amore e armonia: non c’è male nel mondo che non possa essere risolto con la “bontà”).

Dunque, ogni qual volta il partner compie degli atti crudeli nei suoi confronti, il dipendente affettivo nega e rimuove quanto avvenuto: ed ecco che il partner torna subito ad essere un affascinante oggetto del desiderio. Un attimo prima egli ha offeso, tradito, umiliato, un attimo dopo il dipendente ha il terrore di esserne abbandonato e gli perdona tutto. Idealizzazione, negazione e rimozione sono i modi di azione di questa parte della personalità.

Ma con l’altra parte della personalità, il dipendente soffre, accumula sensazioni di pericolo e avverte sconforto, rabbia, talvolta odio. Spesso questa parte è inattivata dal senso di colpa e dalla paura dell’abbandono. Ma altrettante volte si manifesta in conflitti improvvisi: a questo punto però il Mito dell’armonia riprende a funzionare e il dipendente si sente colpevole e indegno di amore: lui ha distrutto l’armonia amorosa che regnava sovrana col suo compagno! Lui ha offeso e disgustato il suo meraviglioso amante, quindi ora è invaso dalla vergogna e dalla colpa! È tormentato dall’angoscia di abbandono e costretto a riparare il danno che ha fatto. Ed ecco che torna a chiedere amore, non più trasognato com’era prima, nella fase idealizzante, ma implorante e pieno di angoscia, colpa, vergogna.

In questa fase il sentimento di negatività è dominante, si è strutturato nella personalità come una seconda identità, un’identità “cattiva” opposta a quella “buona”, che costringe a conflitti e a drammatici pentimenti.

Fra queste due parti della personalità – quella armonica e servile e quella furiosa e ribelle – si gioca una partita ossessiva e ripetitiva per cui il soggetto è preso in loop senza fine:

  1. idealizzazione e rimozione del negativo,
  2. poi scatto dell’ira,
  3. senso di colpa e regressione nel pentimento e nel bisogno spasmodico di riparare.
  4. A questo punto si è costruita una prigione psicologica (una struttura psicopatologica che ho chiamato collusione sadomasochista) da cui risulta sempre più difficile uscire.

Una delle fasi più drammatiche di questa sindrome è uno stato di depressione cronica, basato sul sentimento di un ineluttabile dolore esistenziale. Il dipendente cerca consapevolmente un’esperienza che lo renderà infelice, oppure, anche se non la cerca, si muove di fatto sulla base di un sentimento di indegnità, di rifiuto, di nullità, antico e non risolto, che ogni nuovo abbandono renderà di nuovo attuale e intollerabile, benché amaramente “familiare”. Il “dolore” è ormai diventato il sentimento distintivo dell’identità.

Quattro tipi di dipendenza

Nel libro L’amore impossibile descrivo quattro tipologie diverse di dipendenza. Fino al momento della sua pubblicazione, nessun altro teorico aveva pensato ad una classificazione basata su precise distinzioni; quindi il libro presenta una novità assoluta nel panorama teorico relativo alla patologia.

Spiego subito che il disturbo si sviluppa in diverse strutture patologiche a partire da un elemento “puro”.

Ecco la descrizione, in sintesi.

La dipendenza conformista
La dipendenza conformista è la più elementare: è il difetto di base alla sua origine. Ci si sottomette nella speranza di poter così ottenere amore. È un livello quasi infantile di dipendenza, un livello ingenuo. Perché il dipendente conformista rimuove di continuo i segni del proprio disagio, idealizza il proprio partner come farebbe un bambino con un adulto ammirato, e si adatta a quella che è la convenzione sociale generale o alla convenzione specifica della coppia.
La dipendenza conflittuale
La dipendenza conflittuale nasce nel momento in cui il dipendente si accorge dell’iniquità del rapporto, della asimmetria profonda e si arrabbia. Sviluppa a questo punto quello che io ho chiamato Io antitetico, un Io opposto alla convenzione cui era stato sottomesso nella prima fase, quella conformista. Sicché il rapporto diventa un’altalena continua di dedizione, ribellione, conflitto, senso di colpa e nuova dedizione in un loop che sembra non dover finire mai.
La dipendenza riparativa o depressiva
La dipendenza riparativa, ossia depressiva, consegue alla fase del conflitto permanente. Il dipendente si convince, dopo tanti litigi, che in lui c’è qualcosa che non va, qualcosa di molto negativo. Possono riemergere vecchie mappature neuronali, vecchi ricordi di stati di abbandono e di sfiducia. E il dipendente è ormai un depresso, che si sente condannato alla sofferenza d’amore e alla solitudine.
Francesca Woodman
La dipendenza rivendicativa o persecutoria
Nell’ultima fase (ancora nevrotica, prima di scivolare nella psicosi), il dipendente, come la Fenice che risorge dalle sue ceneri, esce dalla depressione con una carico di odio inestinguibile. A questo punto è certo che il suo amato è il responsabile della sua intollerabile sofferenza, che lo ha sempre ingannato, che lo tradisce, che è un individuo perverso e disumano. Sicché, giunto a questa conclusione, il dipendente, se è una donna di solito reagisce con una persecuzione costante e capillare, fatta di accuse continue, di controlli, di appostamenti, infine se può si vendica: denuncia l’uomo alla moglie, oppure alla polizia, o ancora gli fa causa per dei danni che gli avrebbe procurato, lo convince di essere un mostro di crudeltà, e lo fa con una tale perfida insistenza che l’ex-partner può arrivare al suicidio; il dipendente uomo invece diventa aggressivo su un piano fisico, sfidante, violento: è costui che, in casi estremi, può arrivare anche all’omicidio.

Queste fasi della patologia le ho descritte per la prima volta anche nel mio primo libro sulla dipendenza affettiva, Quando l’amore è una schiavitù, del 2006, in un modo fluido e non distintivo. La classificazione basata sulle quattro tipologie l’ho invece completata nel libro del 2015 L’amore impossibile.

Raccomanderei quindi di leggerli entrambi. In essi ho anche descritto quali sono le emozioni e i comportamenti auspicabili per spezzare il circuito patologico e in che modo condurre una psicoterapia efficace. Si tratta di libri che introducono novità concettuali e di pratica clinica, che un articolo, per quanto accurato, non può esaurire.

Un caso di dipendenza conformista (dipendenza di primo tipo)

Il masochismo sacrificale in una giovane donna

Buonasera, ho letto alcune testimonianze e sue interviste.

Dopo 3 anni di relazione mi sono resa conto di rientrare forse nella categoria di donne che soffrono di dipendenza affettiva. Premetto di essere stata da molti psicologi e ho quasi sempre abbandonato le sedute poi riprese più volte con diversi specialisti. La mia relazione posso descriverla come paradiso e inferno.

Sono stata con un uomo troppo interessato a se stesso e troppo poco a me. All’inizio della relazione lui era molto premuroso nei miei confronti e io ero molto distaccata perché mi sentivo in difficoltà e debole davanti a queste gentilezze sconosciute. Nel momento in cui invece mi sono resa conto che lui (il mio uomo) si stava allontanando da me ho cominciato a stare male. Ho iniziato a fare di tutto per lui, ho perso il lavoro per le troppe assenze e qualsiasi mia energia era sempre rivolta a lui. Mi vestivo bene per lui, dimagrivo per lui e non uscivo con amici e parenti per stare con lui. Ho iniziato a riempirlo di regali e di attenzioni e telefonate quando era al lavoro; anche solo sentire la sua voce mi dava sicurezza e mi faceva sentire bene. Ma le mie attenzioni morbose lo allontanavano sempre più. Sapevo che e con chi mi tradiva, ma ho sempre cercato di ignorarlo fingendo che tutto andasse bene.

Quest’uomo ha avuto un incidente d’auto e io sono stata ogni secondo vicino a lui, e in quel momento, in quel suo male, io stavo bene perché potevo prendermi cura di lui e mi sentivo importante, lo sentivo mio. È una vergogna per me ammettere che tante volte ho desiderato che lui stesse male o avesse delle difficoltà per poterlo aiutare e consolare e sentirlo mio. Quando non potevo avere il controllo su di lui mi sentivo vuota e senza una ragione per vivere.

Ho iniziato a regalarci delle vacanze per poter passare tanto tempo insieme impedendogli così di stare con amici o con altre donne. In certi momenti mi faceva sentire tanto importante e protetta e ciò mi faceva pensare che quei momenti di felicità ripagassero tutto il male subito.

Sono sempre stata vicina alla madre che si é ammalata, sperando di ottenere gratificazioni sue per ciò che facevo, invece sembrava infastidito.
Mi ero resa conto che non stava più bene con me ma pensavo che se fossi migliorata mi avrebbe amata come prima. Invece alla fine mi ha lasciata per andare con una donna molto diversa da me.

Per molto tempo ho pensato che anche se lei era meno curata e attraente di me dovessi assomigliare un po’ più a lei. Ho iniziato a controllarla durante il suo orario lavorativo. Ho iniziato a tingere i capelli del suo colore e prendere qualche chilo, per piacergli di più.

Le provavo tutte per attirare ancora una volta l’attenzione di quell’uomo. Non stiamo più insieme ma periodicamente ci sentiamo e ci vediamo. Lo soddisfo sia col sesso come più piace a lui che col cibo, facendo tutto quello che desidera. In quei momenti io mi sento molto bene, ma quando se ne va mi sento abbandonata di nuovo.

Quando era con me beveva e faceva uso di sostanze e io credevo che con il mio amore e le mie cure lo avrei aiutato ma non é stato così. Quando mi ignorava io mi sentivo davvero malissimo, avrei preferito degli schiaffi ma non l’indifferenza.

Francesca Woodman

Alla fine della nostra relazione l’unico momento in cui mi sentivo imbattibile e importante era durante i rapporti sessuali, per cui ne ero diventata ormai dipendente; non per il piacere fisico in sé ma per il piacere che davo a lui e per la mia dipendenza mentale. Ero diventata un’acrobata del sesso e non mi sottraevo a qualunque richiesta. Avrei fatto l’amore anche con un altro, anche con una donna, se me l’avesse chiesto. Alla fine del rapporto cadevo in momenti di depressione in cui gli chiedevo in continuazione conferme del suo amore.

Ho più volte parlato di fare un figlio con lui ma lui ha sempre rifiutato. Ho pensato che una volta mi avesse dato un figlio avrei avuto per la vita una persona che apparteneva anche a lui. Sarebbe stata una scelta esclusivamente egoistica per riempire il vuoto e vedere un po’ di lui in nostro figlio. Solo in quel momento sarebbe stato davvero mio.

Dopo di lui ho conosciuto tanti altri uomini molto gentili nei miei confronti e io dopo due o tre uscite non mi facevo più sentire.

In questo momento sono l’amante di un uomo molto egoista e cinico. Vivo aspettando che il mio ex partner voglia richiamarmi. Cerco sempre nuovi modi per attirarlo a me ma non riesco ad avere risultati duraturi. Voglio abbia sempre bisogno di me. Il primo paragone che mi viene in mente é la sigaretta per un fumatore.

Quando lo vedo per un po’ sto bene e mi sento tranquilla per poi ricadere in una paranoia che limita la mia vita e la mia concentrazione sul lavoro. Se è possibile desidererei una consulenza sulla mia situazione. Vorrei sapere se secondo lei devo fare una psicoterapia.

La ringrazio infinitamente per l’attenzione e scusi per il disturbo.

Cordiali Saluti.

M.