Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Emozioni negative e attacchi di panico

Due teorie riduttive

Nella versione divulgativa di cui sono pieni giornali, riviste para- o pseudo-scientifiche e talk show televisivi, come ormai anche buona parte dei siti Internet, i disturbi dell’emotività, del carattere e della mente sono perlopiù riferiti a due cause elettive, secondo l’ideologia che si predilige. Da queste differenti ipotesi causali sono nate due diverse teorie.

Una teoria – purtroppo sempre di più diffusa – riferisce il disagio psichico a una causa biologica e in particolare genetica, che in quanto iscritta nel DNA è considerata irreversibile. La conseguenza di questa arbitraria spiegazione è che si consigliano terapie psicofarmacologiche vita natural durante, con gran gioia delle case farmaceutiche e dell’indotto psichiatrico. Ulteriore effetto di questa interpretazione, interessata e non dimostrata, è il progressivo svuotamento della cultura e della sensibilità umanistiche, che in altre epoche – attraverso la filosofia, la letteratura, la mistica, la sapienza iniziatica o popolare – insegnavano che il malessere dell'animo è parte del percorso evolutivo e maturativo di ciascuno. Per quanto “deboli” fossero questi “saperi” essi comunque avevano dei pregi: innanzitutto avevano l’intelligenza di collocare il dolore psichico in un’ottica temporale, ossia di lenta e meditata elaborazione; in secondo luogo facevano sentire di ogni dolore, quindi anche di quello psichico o morale, il sapore universale, come di un che di fatale (destinato in qualche misura a tutti), tale che la sua risoluzione dava “senso” alla vita.

“La guerra” (1894)

L’altra teoria, sul piano culturale appena un po’ più sofisticata della prima, individua immancabilmente un grave “trauma psicologico infantile”; nella fattispecie la fatidica “separazione dalla madre”. I propugnatori di questa seconda teoria non sono psichiatri; al contrario, sono di solito psicologi animati da ottime intenzioni. Peccato che non si rendano conto che coi loro argomenti, anziché scontentarli, essi fanno un inatteso e gradito piacere agli psichiatri di impostazione biologica, e per un semplice motivo. Se fosse vera quest’ultima teoria, cioè che una separazione o un trauma infantile sono sufficienti a causare una malattia psicologica cronica, tale da durare tutta una vita, ciò dimostrerebbe soltanto che l’individuo ammalato ha ricevuto dalla natura una dotazione neuropsicologica difettosa rispetto agli altri esseri umani, quelli che, pur avendo avuto analoghi traumi, non sono ammalati.

La teoria del trauma da separazione (o da “abbandono”, che è la stessa cosa) finisce, dunque, per dare ragione a chi argomenta che i malati psichici hanno qualcosa in meno rispetto agli altri: chi di noi non ha subito, nell’infanzia, abbandoni (affettivi) parziali o anche totali? Eppure non tutti ammaliamo. Dunque – e ci risiamo! – la tesi del trauma porta alla conclusione che sia in gioco una debolezza innata, cioè genetica.

La tesi della psicologia dialettica

Per opporsi a queste banali e riduttive tesi innatiste, che finiscono per chiudere il problema della causa nell’individuo stesso, in sostanza accusandolo di inferiorità biologica, sarebbe necessario che la ricerca psicologica promuovesse un ampio dibattito sulle emozioni negative, perché questo porrebbe nel fuoco dell’attenzione il rapporto individuo/società, o – per dirla in termini antropologici – il rapporto natura/cultura.

Mi spiego.

Se un’emozione, che esiste in quanto prodotto dell’evoluzione della specie (è cioè un dato di natura), è giudicata “negativa”, è solo perché esiste un metro di giudizio sociale, ideologico, che la classifica come tale. Esiste cioè un parametro sociale che esprime una condanna nei confronti di una parte della nostra vita emotiva naturale. Questo parametro sociale è una mentalità, una ideologia, un sistema di valori.

Ma perché una mentalità dovrebbe negare o reprimere una vasta gamma di emozioni naturali, peraltro ricchissima? Non si tratta infatti di poche emozioni marginali, ma di numerose e importanti: rabbia, odio, vendicatività, rancore, delusione, frustrazione, gelosia, invidia, avidità, cupidigia, ambizione, presunzione, superbia, conflittualità, arroganza, violenza, possessività, furia, mania, passione, lascivia, trasgressività, disprezzo, indifferenza, ecc. Ebbene, una mentalità può espellere o controllare un’intera gamma di emozioni negative perché vi avverte un principio pericoloso, ossia l’impulso alla critica.

Dietro emozioni, sentimenti e stati d’animo negativi (per quanto possano essere distruttivi) c’è sempre una critica nascosta, implicita, a un ordine di cose esistente; critica che resta di fatto oscurata dalla opacità della coscienza soggettiva o sociale, la quale non riesce a decifrare in quell’emozione un potenziale critico positivo. Al contrario, le ideologie correnti preferiscono suggerire che quell’impulso non riguardi a giusto titolo l’ambiente (lo stato di cose esistente), ma che sia piuttosto il prodotto irrazionale di un’aberrazione genetica o di un trauma precoce o di un semplice istinto malamente controllato.

Su quest’ultimo punto vorrei distinguere la posizione della mia teoria (la psicologia dialettica) da quella dei teorici e fautori della “libera aggressività”, i quali, facendo riferimento alle intuizioni di Wilhelm Reich sulla “corazza caratteriale”, le hanno portate a conseguenze paradossali.

Il concetto di aggressività come viene espresso nella psicologia reichiana e bioenergetica è del tutto fuorviante rispetto alla corretta percezione del fenomeno. Nella sua versione divulgativa, questa teoria intende con “aggressività” una energia distruttiva intrinseca all’organismo, che esiste a prescindere dalle condizioni oggettive e che deve pertanto essere semplicemente “scaricata”. Da qui gli infiniti esercizi di incitamento “terapeutico” alla libera espressione della rabbia, come urlare, picchiare cuscini, rievocare scene traumatiche e far esplodere l’odio. Pratiche che quando non sono inutili risultano dannose, perché smuovono il senso di colpa e la depressione latenti in ogni soggetto affetto da disturbi emotivi.

Per contro, la psicologia dialettica intende le emozioni negative come profondamente motivate dal rapporto con la realtà esterna; esse hanno dunque una “giustificazione” contestuale: nascono da un torto subito, dunque fanno capo, a qualunque età, al sentimento di giustizia (concetto del tutto assente dalla psicologia contemporanea). Quindi, prima di essere messe in atto in modo cieco e irriflessivo, devono essere pensate come tentativi di riequilibrare un contesto sociale squilibrato e articolate secondo il livello di maturazione della persona.

Il problema della rabbia, dell’odio o della vendicatività è che, in assenza di una chiara consapevolezza soggettiva delle cause reali del malessere, esse sono sempre “cieche”; tendono cioè a colpire in modo indiscriminato e talvolta con sterile sadismo. In sostanza, la persona che, da bambino o da adulto, ha subito un torto, in assenza di lucida consapevolezza, diventa inutilmente e pericolosamente cattiva (anche se spesso la sua cattiveria resta inconscia). La sua coscienza registra il danno subito e reagisce in modo generico, non avendo a disposizione una analisi circostanziata e complessa dei fatti. Quindi, alimenta rabbia, odio e fantasie di vendetta, e sentimenti derivati come rancore, frustrazione, invidia, egoismo, narcisismo ecc.

Ma a questo punto, poiché l’esplosione di sentimenti negativi può essere percepita come dannosa per persone e valori amati, il soggetto viene messo agli “arresti domiciliari” dai sintomi. Alla fine i sensi di colpa, i sintomi (fobici, ossessivi, depressivi, deliranti ecc.) e gli attacchi di panico lo chiudono in una rete di inibizioni e proscrizioni.

Gli attacchi di panico, dunque, derivano dall’angoscia profonda, e sempre inconscia, di poter far del male a persone che si amano o da cui si dipende in senso materiale, affettivo o sociale e che talvolta non meritano tanta avversione.

Un esempio

Facciamo un esempio.

Una donna, chiamiamola Carla, è stata vittima di un’educazione che le ha insegnato l’umiltà e la modestia nei confronti degli “anziani” (a partire dai genitori) e quindi di tutte le autorità. Divenuta grande, Carla ha esteso questo rispetto all’uomo, percepito appunto come una autorità. In ossequio alla sua educazione, che la vuole umile e senza pretese, Carla non ha completato gli studi ed è stata costretta a non lavorare o a fare un lavoro di basso livello, senza alcuna soddisfazione personale. Poi si è sposata con un uomo poco sensibile (come ce ne sono tanti), che le ha fatto fare uno o due figli e poi l’ha abbandonata a se stessa. E nonostante la sensazione di essere ignorata e maltratta, ha comunque sopportato e rispettato il marito, nonostante costui non lo meritasse.

Ma poi, da un giorno all’altro, per lento accumulo o per aver fatto dei confronti con altre coppie, Carla ha cominciato ad avvertire odio nei confronti del marito. Di fatto i loro rapporti sono diventati sempre più brutti: lui la ignora e la degna appena di attenzione, lei si chiude in un muro di silenzio e di ostilità.

Medita allora di lasciarlo.

Un giorno, in auto, esce dal raccordo anulare e prova un intenso sentimento di libertà. Allora pensa: Vorrei mandarlo all’inferno! Mi separerò, gli farò causa e lo manderò in rovina!. A questo punto, folgorata dal pensiero ma intimorita dalla sua stessa violenza, ha un attacco di panico. Purtroppo Carla non ha una forte capacità intuitiva e nemmeno una ricca rete simbolica; sicché trova una sua spiegazione dell'evento: pensa che l’attacco di panico non sia sorto in relazione al proposito di vendetta, al suo fantasticare l’abbandono della famiglia, bensì allo spazio percorso fuori dalla città (che effettivamente l’ha inebriata spingendola a fare quell’eccitante pensiero). Allora, da quel momento organizza un evitamento di tipo agorafobico ed esce sempre meno di casa. La sua interpretazione ha spostato la causa del sintomo dalla rabbia vendicativa, e quindi dal suo profondo senso di giustizia, al semplice spazio percorso in auto!

Ma la realtà è un'altra: la donna è stata vittima della sua cieca rabbia, una rabbia vendicativa, resa sterile dall’impotenza. La rabbia infatti le ha provocato sensi di colpa nei confronti del marito e dei figli; e i sensi di colpa a loro volta – in quanto rimasti inconsci – hanno indotto la ritorsione punitiva e contenitiva dei sintomi, una ritorsione utile e funzionale.

Dico che l’attacco di panico è stato funzionale, sebbene in modo paradossale, perché ha bloccato la libertà di impulsi avvertiti come pericolosi: ha revocato a Carla il diritto all’autonomia e l’ha segregata in una penosa tutela da parte di altri, impedendole così di fare e farsi del male.

Ma la donna avrebbe potuto agire in modo totalmente diverso.

Innanzitutto, avrebbe potuto valutare con attenzione le cause reali della sua rabbia, evitando così di scaricarla alla cieca contro persone innocenti (i figli soprattutto, che rischiano di essere danneggiati); in secondo luogo, avrebbe potuto progettare una vita più attiva e più autonoma, aumentando il suo livello di coscienza e la sua maturità (sviluppando consapevolezza dei diritti “viscerali” di ogni essere umano, quindi anche suoi, ma anche compassione nei confronti dei limiti propri e altrui). Se avesse agito in tal modo, non sarebbe incorsa né in sensi di colpa né in sintomi, evitando così di passare sotto le forche caudine del panico.

Immaginiamo ora una evoluzione di questa storia.

“Vampiro”

Carla lascia il marito e incontra un altro uomo, sensibile e innamorato di lei. I due si amano appassionatamente e con istintivo e reciproco rispetto. Non di meno gli attacchi di panico non recedono. La donna ama il nuovo compagno e se ne sente rispettata; non ha alcun remora nei suoi confronti. Eppure i sintomi si ripresentano. La mia ipotesi che la rabbia sia la causa dei sintomi è dunque sbagliata? Ebbene, la rabbia c’è ancora, ma non è più una rabbia personale; ora è relativa all’idea di dipendere da un uomo, da qualunque uomo, quindi anche da quest’uomo che lei ama. Si tratta di una rabbia generica che riguarda la possibilità di essere passiva e assecondante con un uomo solo perché è un uomo. È la stessa rabbia da senso di giustizia ferito che provava prima, ma non è più collocata su un uomo concreto, ora riguarda l’uomo in astratto, tutti gli uomini, quindi anche il suo nuovo compagno.

E ancora una volta la sua rabbia la terrorizza.

La persistenza del sintomo dipende dal fatto che Carla ha paura di rivelare nell’intimità affettiva col suo nuovo compagno, che ama e non vuole perdere, questa rabbia generica di cui avverte l’oscura presenza; teme di apparire priva di femminilità e indegna di amore. Il sintomo la blocca nell’inazione e la fa regredire allo stadio di bambina malata, quindi innocua e bisognosa di tutela. A questo modo il sintomo le impedisce di distruggere anche questo rapporto.

In sintesi

Alla luce di queste riflessioni, ritengo dannosa un’informazione solo parziale sulla cosiddetta “aggressività”. È giusto parlare dei sentimenti negativi, ma ciò non deve risolversi in un appello incondizionato alla guerra senza quartiere, né essere banalizzato e tradotto in un invito a “fare palestra” in modo da scaricare un po’ di “sana aggressività”. In un senso si va nella direzione di pseudo-terapie sociologiche che hanno prodotto più odio (e dolore) di quanto ne abbiano risolto; nell’altro, si va verso terapie effimere e superficiali che spacciano una buona respirazione o un urlo fatto a pieni polmoni come “tecnica di rilassamento” sufficiente e risolutiva.

Al contrario, guarire significa sviluppare la nostra complessità, senza mai derogare all’imperativo d’essere coscienti, e perciò responsabili, della nostra vita emotiva e morale.

A questo proposito, vorrei indicare un breve tragitto di letture.

Tra i miei libri quelli che trattano l’argomento dell’ansia e degli attacchi di panico sono soprattutto Uscire dal panico, Volersi male e La logica dell’ansia. Questi libri spiegano il processo psicologico sin qui descritto esemplificandolo con numerose storie cliniche. In essi parlo di quello sviluppo patologico che dalla semplice ansia conduce al panico – laddove i sentimenti che serpeggiano nell’ansia non sono stati portati alla luce per essere disinnescati – e quindi alla depressione, come esito ultimo di una lunghissima sequela di battaglie perdute contro i propri sintomi e contro la crescente disistima personale.

Per comprendere infine quanto possa essere potente il legame affettivo e quindi i sensi di colpa che nascono dal possibile attacco nei suoi confronti, segnalo sia La paura di amare che Grammatica dell’amore, libri nei quali ho teorizzato il concetto di relazione fondamentale e di angoscia di tradimento.