Nicola Ghezzani

Foto di Nicola Ghezzani

Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Il genio paradossale di Samuel Beckett

L’infanzia

Sin da bambino Samuel Beckett soffrì per le limitazioni imposte alla sua mente da una madre possessiva e perbenista e un padre semplice e laborioso. Bill e May Beckett erano irlandesi protestanti di ceto medio-alto e, pur essendo benevoli, impugnavano saldamente le redini dell’educazione dei figli. La madre soprattutto teneva al futuro di Samuel, che secondo lei avrebbe dovuto vivere la sua vita a Dublino, sposato e con figli e possibilmente in un ruolo accademico. Ottenebrata dal bisogno di averlo in suo potere, lo perseguitò per tutta la giovinezza. Per parte sua, il padre, Bill Beckett, lo avrebbe preferito a co-dirigere, col fratello Franck, l’azienda familiare. Ma, alla fine, Bill fu buono e comprensivo e gli perdonò ogni stranezza: purtroppo morì troppo presto per sottrarlo alla madre. Intrusiva nel tentativo di carpire le verità interiori dei i figli, la madre riuscì solo a farli resistere e solidarizzare fra loro e a farli chiudere ancora di più in se stessi.

Ritratto fotografico di Samuel Beckett

In risposta alla possessività dei genitori, sin da bambino Beckett replicò con quel gusto del paradosso che l’accompagnò poi per l’intero corso della sua esistenza. C’era un gioco, in particolare, che lo emozionava. Accettava la sfida eroica che il fratello maggiore Franck gli indirizzava e dimostrava un ardimento ai limiti dell’irresponsabilità. Si arrampicava sui rami più alti di un pino che sorgeva nel giardino di casa e poi si lanciava a capofitto, nella speranza di afferrare un ramo sottostante prima di precipitare al suolo. Sfidava la forza di gravità, simulando il volo di un uccello, quello cui volle somigliare per tutta la vita: un gabbiano, un falco, un’aquila.

Le escoriazioni che ne ricavava erano vive medaglie conquistate sul campo; purtroppo, gli vennero strappate presto. Scoperto il passatempo del figlio, la madre, terrorizzata, lo redarguì e lo punì. Non di meno, l’abitudine di esporre il corpo – ostaggio della vita affettiva e sociale – a rischi supremi, pur di affermare la libertà dello spirito, fu un tratto costante della sua personalità. Un tratto che si riaffacciò da ragazzo nel piacere smodato che gli dava la corsa sulle moto, premiata anche questa da numerosi incidenti; e poi nella resistenza passiva, di tipo depressivo, che oppose da adulto ad ogni violazione della sua volontà.

Gli studi

A 13 anni, come era consueto nelle famiglie protestanti di ceto medio-alto, venne iscritto ad un College. Qui, benché fosse sufficientemente ordinato nella gestione dei suoi spazi (sullo scaffale accanto ai libri teneva in bella vista i busti di Shakespeare e Dante), si isolò dagli altri ragazzi e scoprì forse per la prima volta una introversione e una solitudine abissali.

Superati in modo non particolarmente brillante gli esami di passaggio, Beckett venne accolto a 17 anni alla facoltà di Lettere moderne del Trinity College. Pur rivelandosi pigro e disordinato, divenne l’allievo prediletto di Rudmose-Brown, un accademico noto e rispettato, che aveva indovinato in lui i segni di una brillante carriera intellettuale. In realtà, come May, la madre, il maturo docente immaginava che Beckett avrebbe intrapreso la carriera accademica, mai supponendo che in quel giovane abulico e geniale bruciasse il fuoco distruttore dell’arte.

In quegli anni di totale isolamento, Samuel Beckett fu visitato dal pensiero insistente, ossessivo del suicidio. Ne parlava con tutti, colleghi e amici, fino a spossarli: come farlo, perché, chi – tra personaggi famosi e meno – lo avesse già fatto. Lontano da casa, ma prigioniero delle maglie del perbenismo irlandese, sentiva la fragilità e la possessività dei rapporti umani e speculava sull’unico modo per uscirne senza assumersene la sofferenza morale: la morte.

Il dubbio assillante che lo aggredì sin dalla prima adolescenza fu relativo ai rapporti umani: se subirli e soffrire i morsi della dipendenza o se liberarsene del tutto. Esemplare in questo senso il rapporto che ebbe con la pubblicazione delle sue opere. Pur frequentando sin dal primo anno di università l’ambiente intellettuale di Dublino e poi di Parigi, e pur vivendo – almeno quando era fuori di casa – ai limiti dell’indigenza, fino a 24 anni non pubblicò un solo, piccolo libro. Era incerto se volerlo o meno. Volere qualcosa, qualunque cosa, avrebbe significato chiederlo, quindi implicarsi nei rapporti umani più di quanto desiderasse. Infatti, scriveva molto, ma pochissimo prendeva la forma di un’opera compiuta.

Amori impossibili

Al Trinity College si distinse come eccellente studioso della letteratura francese e all’inizio degli anni ’30 ottenne una borsa di studio di due anni a Parigi. Qui entrò nella cerchia di James Joyce, che ammirava come scrittore e desiderava come padre. Joyce – che aveva 48 anni quando Beckett ne aveva 24 – dapprima lo trattò come uno dei tanti collaboratori o assistenti della sua cerchia, poi imparò ad apprezzarne la devozione e lo amò come un figlio. Beckett faceva a Joyce ogni tipo di servizio di ricerca e di segreteria; e Joyce col tempo, superando la sua naturale vanità, da un lato lo amò come un figlio adottivo, dall’altro cominciò ad apprezzarlo anche come intellettuale.

Lucia, la figlia di Joyce, una ragazza bella ma affetta da disturbi psichici, s’innamorò del bel giovane scrittore così intimo del padre. Lo fece per opporre al padre un rivale. Ella in fondo odiava il padre che l’aveva sradicata da ogni città in cui avevano vissuto, senza darle l’opportunità di avere amicizie e conoscenze e farsi amare da qualcuno. Ma Beckett, che invece era innamorato della cugina Peggy Sinclair, si sentì in trappola. Lucia lo voleva come marito e Joyce lo voleva come genero, e questo lo metteva in serio imbarazzo. Joyce era diventato un pilastro fondamentale nell’equilibrio psicologico di Beckett: era per lui la figura di un genitore idealizzato. Nei primi anni della loro conoscenza Beckett non solo aveva dato prova di una infinita devozione, ma in molte abitudini, dallo stile di scrittura all’abbigliamento, lo emulava. Dunque, quando Lucia gli manifestò i suoi sentimenti, Beckett ne fu scosso. Impelagato in un intrigo affettivo indesiderato, si sentì soffocare. La rete dei legami umani, come già coi genitori, si stava di nuovo chiudendo intorno a lui. Allora un giorno deluse Lucia fino al punto di farle avere una crisi di depressione gravissima, forse di follia. Joyce, allora, lo allontanò con sdegno dalla sua cerchia e Beckett ne fu devastato.

Fotografia di Samuel Beckett

Poi un giorno, studiando la filosofia del ’600, ebbe un’illuminazione – simile al lampo remoto perso in una notte profonda. Sfogliò le opere del filosofo belga Arnold Geulincx (1624-69) e vi trovò scritto: Ubi nihil vales, ibi nihil velis ossia, facendo eco allo stoicismo di Epitteto: dove nulla puoi, niente devi volere. Fu una grande scoperta: il modo migliore per non suicidarsi era non volere. Il modo migliore per affrontare i conflitti della volontà (compresi quelli di emancipazione personale) era l’abolizione stessa della volontà. Si applicò a questo credo da giovanissimo e così l’ebbe vinta sulle pulsioni suicide.

Lasciata Parigi dove aveva vissuto due anni nel più totale disordine fu costretto a rientrare a Dublino, al Trinity College, dove cominciò a insegnare. Ma dopo appena un anno e mezzo ebbe una depressione gravissima. Non sopportava di essere di nuovo prigioniero dell’ambiente dublinese e di svolgere ogni giorno un lavoro che detestava. Si mise a letto, la faccia volta contro il muro, non mangiò più e rimase in quella posizione per giorni. Piuttosto che volere attivamente qualcosa, abbandonò il corpo alla deriva, fino ad esporlo al rischio della morte. Vennero convocati i genitori e infine solo il loro intervento – con la promessa di farlo tornare a Kassel, in Germania, dall’amata cugina Peggy – poté rimetterlo in piedi e riconciliarlo in parte con la vita.

Appena fu lontano da Dublino, Beckett rassegnò le sue dimissioni dall’insegnamento. Commemorò questa decisione nella poesia Gnome, pubblicata nel ’34:

Originale

Spend the years of learning squandering
courage for the years of wandering
through a world politely turning
from the loutishness of learning.

Traduzione

Gettar via gli anni di apprendistato nello scialacquio
del coraggio al posto di anni di vagabondaggio
attraverso un mondo che educatamente gira attorno
la volgarità d’imparare.

Fu finalmente un atto di ribellione attiva.

Il Giuda traditore

Nel ’34, a soli 61 anni, morì l’amatissimo padre, per un improvviso infarto cardiaco e Samuel, che di anni ne aveva 28, fu costretto a convivere con la madre e ad accudirla nel lutto, mentre il fratello si dedicava all’azienda familiare. Precipitò allora in una nuova e ancor più grave crisi ansioso-depressiva, tale che si svegliava ogni notte in preda al panico e trovava un po’ di sollievo solo se il fratello dormiva accanto a lui. Rischiava ogni giorno il blocco vescicale o intestinale e pativa continue infreddature e influenze. Un amico, il dottor Thomson, gli disse che la sua era una seria malattia psicosomatica e che avrebbe tratto giovamento da una cura psicoanalitica.

Beckett soffrì sempre di terribili angosce di colpa. Odiava la madre perbenista e il provincialismo e il perbenismo della sua città natale; odiava la religione cattolica e il patriottismo nazionalista che dominavano l’Irlanda. Si sentiva soffocare. Ma provava acuti e profondi sensi di colpa all’idea di abbandonare la famiglia e tradire tutti coloro che avevano creduto in lui. Dublino, più che una capitale, era una cittadina in cui tutti si conoscevano e si proteggevano. Sicché, odiando la città, Beckett era costretto a odiare del pari la famiglia, i parenti, gli amici, i mentori, i sodali che l’avevano accompagnato nella vita e sopportato in tutte le sue innumerevoli stranezze. Come scrisse in una poesia giovanile, intitolata Enueg II, si sentiva un Giuda traditore:

Originale

Sweating like Judas
tired of dying
tired of policemen.

Traduzione

Sudando come Giuda
stanco di morire
stanco di poliziotti.

Seguì il consiglio dell’amico Thompson e per due anni fece una terapia psicoanalitica a Londra, a spese della madre, con un giovane e geniale Wilfred Bion. In effetti ne trasse giovamento. Il suo rifiuto sistematico di esprimere conflitti attivi nei rapporti l’aveva aiutato a evitare il suicidio, e questo era un dato di fatto. Tuttavia, l’incapacità di separarsi da legami più oppressivi e di vivere in piena autonomia gli aveva procurato una malattia psicosomatica che era un esito non migliore di un suicidio. Era come una lenta regressione dallo stato infantile al nulla.

Sensibilissimo all’amore, Samuel Beckett fu un uomo che volle venire a capo del mistero per cui le relazioni umane, sfruttando l’amore, potevano diventare relazioni di potere. Il tema centrale della sua opera matura fu forse proprio questo: l’insensatezza delle posizioni intermedie, nelle quali non c’è né libertà né amore, nelle quali si attende il futuro o si contempla il passato senza poter vivere nel presente una felice relazione umana. In un certo senso, egli ha sempre messo in scena un unico dramma: il fallimento dell’uomo concreto, l’uomo storico, nel generare rapporti in cui siano presenti insieme libertà e amore. Lo dimostra la sua opera più rappresentativa, Aspettando Godot, nella quale i due protagonisti, Vladimiro ed Estragone, attendono un misterioso benefattore, il signor Godot, che li gratificherà di ogni protezione; ma nella loro paziente attesa vengono disturbati dal passaggio di una coppia di un padrone e uno schiavo, Pozzo e Lucky, nella quale il primo tiene al guinzaglio il secondo. E nel frattempo Godot non arriva... La coppia dei protagonisti è unita nella speranza, mentre la coppia di passaggio è unita nella schiavitù; ma la speranza dei protagonisti – cioè che alla fine sopraggiunga un rapporto amorevole che liberi dai bisogni – sembra non realizzarsi mai.

Maturità

Fotografia ritraente Beckett con la moglie Suzanne

A Parigi, liberatosi dell’influsso della madre, Beckett era ancora disperato quando una notte, poco prima dell’alba, un malfattore di nome Prudent, dopo avergli chiesto denaro e averne ricevuto un rifiuto, lo accoltellò. La lama penetrò in profondità nella pleura. Avvenne allora l’incredibile: la notizia del poeta irlandese in fin di vita corse sui giornali parigini e il capezzale di Beckett divenne meta di pellegrinaggio da parte di tutti gli amici artisti e intellettuali di cui egli aveva diffidato. Per paradosso, dunque, fu un delinquente comune a renderlo popolare e a riconciliarlo – almeno in parte – col genere umano. Per ulteriore paradosso, la donna che quella notte lo soccorse divenne sua moglie e gli restò al fianco per il resto della vita, durata altri cinquant’anni. Beckett sposò Suzanne Dechevaux-Dumesnil, che si dimostrò una compagna impeccabile, frequentò innumerevoli artisti e perdonò il malfattore che lo aveva accoltellato.

Durante la seconda guerra mondiale, militò nella Resistenza francese, della sua partecipazione alla quale soleva dire che era stata solo roba da boy scout. Ma anche questa esperienza – come l’accoltellamento – paradossalmente gli fece bene: ogni volta che si trattava di violenza reale, Beckett si sentiva affrancato dai sensi di colpa relativi alla violenza dei rapporti affettivi e l’azione gli veniva allora facile e fluida. Fu infatti un ottimo militante, con compiti di spionaggio e informazione. In quella roba da boy scout egli mise in gioco la sua vita e quella dei suoi compagni di cordata, dei quali si sentì responsabile. Non per caso, e non certo per un gioco da boy scout, ebbe nel 1945 la Croix de Guerre firmata da De Gaulle.

Modesto, parco, ascetico, attraversò ogni tempesta – e furono molte – come un vecchio uccello rapace o un migratore dei mari del Nord. Ebbe il Nobel per la Letteratura nel ’69, a 63 anni, e l’evento non modificò in nulla la sua vita.

Morì nell’89, a 83 anni, cinque mesi dopo l’amata Suzanne.