Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Il senso di colpa

Amplificazione di un’intervista per la rivista Airone

Cos’è il senso di colpa

Andrea Porta: Il senso di colpa è spesso descritto negativamente. Ma cos’è e qual è la funzione psicologica (e sociale) del senso di colpa? Ha in qualche modo anche un ruolo positivo, nelle dinamiche interpersonali?

Sigmund Freud

Nicola Ghezzani: Il primo a portare il tema del senso di colpa nelle analisi relative alla psicopatologia fu Sigmund Freud. La sua fu un’intuizione senza alcun dubbio geniale. Freud tuttavia commise l’errore di ascrivere il senso di colpa ad ogni essere umano, perché colpevole di fantasie incestuose e delittuose innate. La sua era una concezione istintualista pessimista, tributaria del pessimismo degli Stati autoritari dell’Ottocento e del pessimismo religioso tradizionale, che le scienze moderne hanno subito rifiutato, trascinando con loro una polemica interna alla psicoanalisi che si è chiusa con la vittoria sul campo delle teorie relazionali, che fanno capo alle scienze più moderne.

Oggi, del senso di colpa siamo in grado di dare una definizione molto articolata e complessa, che ho ben articolato nel mio libro Volersi male. Come ci insegna l’evoluzionismo – ho spiegato nel libro – noi siamo animali sociali, quindi abbiamo bisogno dei nostri simili: dei familiari, degli amici, degli amori dell’età adulta, dei nostri concittadini e i nostri consimili, e soffriamo se essi soffrono. Abbiamo bisogno di sentirci umani in mezzo ad altri esseri umani. Quindi quando ci rendiamo conto che stiamo derogando a imperativi morali che ci chiedono il rispetto delle regole affettive e amorose o anche semplicemente civili, in quel momento e in quella circostanza può insorgere senso di colpa. L’altro essere umano, convocato mediante empatia, è dentro di noi e soffre del danno che gli abbiamo inferto. I “neuroni specchio” ci fanno essere empatici al punto che l’altro essere umano vive dentro di noi come fosse la nostra stessa immagine. Se pensiamo di avergli fatto un danno, ne soffriamo. In questo senso il senso di colpa, di per se stesso molto angoscioso, può trasformarsi in sentimenti positivi: in “consapevolezza di colpa” e “senso di responsabilità”, andando a svolgere la funzione socializzante che la specie gli conferisce. Darwin e S. J. Gould, che sono fra i miei punti di riferimento teorici, ci hanno spiegato la natura sociale dell’uomo in volumi ponderosi: ritenevano l’uomo un animale cooperativo e quindi capace di compassione.

Charles Darwin

Nondimeno, benché il senso di colpa sia un sentimento naturale, è stato demonizzato fra gli anni 60 e gli anni 90, quando si voleva dimostrare che l’individualismo era la giusta via per il benessere. La parola d’ordine era “autorealizzazione”, quindi qualunque cosa inibisse il sano diritto ad autorealizzarsi e godersi la vita a modo proprio veniva bollato come retaggio di un’epoca arcaica.

In psicoterapia dobbiamo sempre distinguere una senso di colpa sano (che dobbiamo chiamare coscienza di colpa e senso di responsabilità) da un senso di colpa patologico, il cui fine non è il suggerimento e l’ammonimento dialettici, ma la repressione, la persecuzione e talvolta la distruzione del presunto colpevole.

Il senso di colpa come strumento di manipolazione

AP: L’altra faccia del senso di colpa è il ricatto morale: un’azione di controllo sull’altro che produce in lui senso di colpa e lo spinge a fare ciò che vogliamo. Ci descrive le dinamiche dietro a questi meccanismi?

NG: Chi adopera il senso di colpa in modo più o meno consapevole per manipolare la sensibilità affettiva e le azioni di un altro deve avere un forte ascendente su di lui. Nella maggior parte dei casi, questo ascendente gli deriva dalla sua condizione naturale: può essere un genitore o un parente importante. In altri casi, invece, costui ha un ascendete acquisito: è l’amico fidato, il partner di una relazione amorosa, il proprio stimato professore, il leader del gruppo, l’ammirato dirigente... e così via.

In alcuni casi la colpevolizzazione ha fini educativi, ma il sistema di valori che c’è dietro può minare l’autostima di chi la subisce: per esempio il genitore religioso che proibisce alla figlia la vitalità fisica o i primi attaccamenti affettivi con i coetanei spesso lo fa in buona fede, per “salvare” la virtù della figlia, ma di fatto le può arrecare un serio danno psicologico.

Ronald D. Laing

In altri casi, più gravi, la colpevolizzazione ha caratteri crudeli, persino sadici, perché ha il fine subdolo di esercitare un potere, di controllare la vittima. In questi casi dominano l’egoismo e il narcisismo, e la colpevolizzazione avviene per trarre un profitto personale o per il puro gusto sadico di sminuire e danneggiare. A questo proposito, oltre ai miei libri Volersi male e Quando l’amore è una schiavitù, e La logica dell’ansia, consiglierei di leggere i libri di Ronald David Laing e Alice Miller, in particolare La politica della famiglia e Il dramma del bambino dotato. La madre invidiosa della bellezza o della purezza della figlia, il fratello che non sopporta il fratellino più dotato e prediletto dai genitori, il dirigente che si sente minacciato dalle brillanti qualità del suo dipendente, il leader offeso dalla personalità emergente di un seguace, il marito che umilia la moglie facendola sentire una madre snaturata, una moglie che accusa il marito di essere un inetto incapace di darle il giusto tenore di vita, tutti questi e mille altri individui dello stesso tipo possono agire in modo distruttivo per sminuire l’altro e tenerlo in proprio potere.

Alice Miller

Qual è la dinamica che l’aggressore psichico adopera? È semplice: indurre nell’altro la sensazione di aver commesso un errore gravido di conseguenze negative o di aver compiuto un’azione riprovevole, che è di danno a qualcuno molto amato. Quel qualcuno può essere l’aggressore stesso, che si descrive come il danneggiato, ma anche qualcun altro, purché sia molto amato o rappresenti i valori affettivi in cui la vittima crede. Il problema è che l’aggressore, attraverso l’amore e la lusinga, si è inserito nella “cabina di comando” neurologica che genera i sentimenti di colpa nel suo presunto nemico, e da lì muove le leve del timore e dell’angoscia.

Come liberarsi del senso di colpa patologico

AP: Il senso di colpa può renderci difficile vivere? Quando dovremmo imparare a liberarcene? E come?

NG: Se parliamo del senso di colpa patologico, quello che non si trasforma in una sana coscienza di colpa e in proficuo senso di responsabilità, ma che invece si esprime solo come angosciosa e a volte terribile condanna morale, allora il danno può essere grave e deviare un intero percorso di vita. Pensiamo a un bambino vivace che con la sua esuberanza fisica e sensuale ingenera invidia e fastidio nel padre depresso: i mugugni del padre, i rimproveri della madre, possono fargli avvertire la sua vitalità come “sbagliata” o addirittura “cattiva” o “perversa”; quindi il senso di colpa lo spinge a isolarsi, intristirsi e a nascondere per sempre il suo vivace carattere originario. Pensiamo a una ragazza bella e intelligente che si sente in colpa di essere più ammirata e stimata della madre depressa e alcolista, o della sorella che è stata abbandonata dal marito. Il senso di colpa verso queste persone amate ma meno fortunate può spingerla in una direzione espiativa: può indurla a nascondersi agli occhi degli altri e a sminuire la propria intelligenza e quindi a rinunciare alla vita affettiva, a una laurea, alla compagnia degli amici: di fatto le inibisce il sentimento di valore personale fino a comportare danni incalcolabili per l’intera vita.

Come ci si libera? Se il soggetto è piccolo di età (un bambino o un giovanissimo adolescente) dovrebbe individuare nella sua rete parentale rapporti con persone che lo amino e che mitighino o annullino del tutto il disagio relativo alla propria identità: egli dovrebbe compiere quella complessa operazione psicologica che ho chiamato re-affiliazione: cioè sottrarre la sua linea genealogica ai genitori o ai maestri che lo danneggiano per collegarla ad altri adulti: nonni, zii, genitori di una famiglia amica ecc... Operazione difficilissima per un minore, che di solito resta invischiato nella dinamica persecutoria, a meno che non siano gli adulti che lo amano ad accorgersi del danno che il piccolo sta subendo.

Viceversa, per un adulto, difendersi è un’operazione molto più facile. Da adulti ci si libera con quella prassi terapeutica che chiamo oggettivazione. Il senso di colpa va oggettivato: cioè, occorre chiedersi questo senso di colpa chi me lo ha indotto? La persona o l’educazione che ne sono la causa hanno davvero ragione? Posso discutere queste ragioni? La persona o i valori che stanno dietro il mio senso di colpa possono avere un interesse nel danneggiarmi? Occorre porsi queste domande e mettere il senso di colpa fuori di sé come quando si fa un’analisi del sangue o si osserva un cibo sospetto per capire se è buono o cattivo.

AP: Quali sono i contesti sociali (famiglia, amici, lavoro) in cui il senso di colpa è un sentimento particolarmente presente? E quali le modalità specifiche con cui si esprime, in questi contesti?

NG: I primi contesti in cui può nascere il senso di colpa sono naturalmente quelli biologici: la coppia madre-figlio, la famiglia, il clan. Poi si allargano a misura della sensibilità e dell’empatia individuali: si può provare colpa verso la squadra di calcio o di pallacanestro in cui si gioca, verso la propria azienda, verso il proprio reparto, se si è militari, verso il proprio paese o la propria generazione, verso la natura, verso l’intera umanità. Il senso di colpa, o il senso di responsabilità e la compassione, non hanno limiti.

Gli ipersensibili sono predisposti al senso di colpa

AP: Ci sono persone più “predisposte” a provare senso di colpa? Che caratteristiche hanno?

NG: Sì, sono le persone sensibili. Come ho spiegato nel mio libro Volersi male, nella specie umana la sensibilità, come ogni carattere genetico, é soggetta a variazione individuale, quindi alcuni individui ne sono dotati più di altri. Questi individui dispongono di maggiore sensibilità empatia, ricettività, più generosità, più altruismo, dunque avvertono più di altri l’appello affettivo al bene comune. Sono tutte qualità altamente positive, ma che allo stesso offrono come rovescio della medaglia la sensazione di essere obbligati a un dovere morale, quindi la possibilità di sensi di colpa particolarmente virulenti.

La genesi del senso di colpa è questa: i due poli da cui è costituita la sensibilità di ognuno, cioè la sensibilità al bene comune e la sensibilità al bene personale, possono entrare fra loro in conflitto. Per esempio, una donna sente il bisogno di divorziare, ma per i genitori e per la sua cultura di appartenenza se una donna abbandona il marito commette una grave colpa: ed ecco allora che nella donna del nostro esempio scatta il conflitto interno fra i bisogni dell’Io, che le chiedono di separarsi dal marito, e i bisogni dell’altro, del Super-io, che le chiedono di sopportare. Il conflitto interno, base di ogni senso di colpa, esplode nel momento in cui l’individuo sensibile avverte che le sue giuste esigenze personali vengono misconosciute e tradite dal sistema sociale di appartenenza (genitori, parenti, istituzioni ecc.) e per conseguenza prova rabbia, odio, ostilità. Purtroppo, essendo dotato di una elevata sensibilità morale, egli si imputa questi sentimenti ostili come un tradimento. Prima si sentiva tradito ed era quindi la vittima; ora invece è lui a sentirsi un traditore, quindi ai suoi stessi occhi è diventato il carnefice. A questo punto scattano inflessibilmente l’angoscia di cattiveria e il senso di colpa.

Egoismo costruttivo ed egoismo distruttivo: l’individuazione

AP: A suo avviso liberarci dai sensi di colpa significa mettere in campo anche un po’ di sano egoismo?

NG: Innanzitutto dovremmo darci una definizione corretta di egoismo. Purtroppo c’è tutta una tradizione morale solidarista (sia religiosa che politica) che ci fa usare il termine egoismo solo in senso negativo. Ma in realtà c’è un egoismo positivo e un egoismo negativo – o per meglio dire costruttivo e distruttivo – e si tratta di due espressioni caratteriali completamente diverse.

L’egoismo distruttivo mira essenzialmente al danno altrui, e ne gode. L’egoismo costruttivo è invece la somma delle attenzioni che diamo a noi stessi per vivere e crescere. Dovremmo abituarci a pensare che una pratica di liberazione e di emancipazione necessita di questo egoismo positivo, che non è narcisismo, perché non mira all’autocelebrazione, ma al miglioramento di sé in senso complessivo, quindi anche dei caratteri sociali altruisti.

L’egoista raggiunge la pienezza della salute quando scopre che la sua natura intrinseca lo spinge verso una forma evoluta e complessa di altruismo. Ma, giunti a questo punto, non dovremmo più parlare di semplice egoismo, bensì, adoperando un concetto di Carl Gustav Jung, di matura e responsabile individuazione.

Carl Gustav Jung