Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Intervista su iperdotazioni e disagio psichico

Vi svelo cos’è il male di vivere

Perché oggi l’ansia è una pandemia? Parla Nicola Ghezzani, psicoterapeuta

Tratta dal giornale “Unione sarda”, del 9 giugno 2008

Un concetto che scardina: il depresso è un individuo iperdotato in termini di sensibilità e di riflessività. Basta con l’idea diffusa che chi soffre nella psiche sia una persona con carenze psicologiche o organiche. Anzi, secondo il professor Nicola Ghezzani, è vero l’esatto contrario. Come spiega nel suo ultimo libro La logica dell’ansia l’iperfunzionalità psichica è tale da riportare in vita personalità intense sul piano della sensibilità, creatività e della morale.

Un testo che raccoglie oltre trent’anni di attività clinica e di ricerche, iniziate con la formulazione della psicologia dialettica e delle tecniche di psicoterapia dialettica. Un approccio rivoluzionario alle moderne pandemie dei disturbi di ansia, degli attacchi di panico, della depressione, dei disturbi dell’affettività e dell’amore. Presidente dell’ASIP Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. Ha pubblicato numerosi libri, fra cui Uscire dal panico (2000), Volersi male (2002), Autoterapia (2005), Quando l’amore è una schiavitù (2006), La logica dell’ansia (2008), La paura di amare (2012), Ricordati di rinascere (2014), e cura due frequentati e completi siti web: nicolaghezzani.altervista.org e affettivitaamore.altervista.org.

Da malati a iperdotati. Possibile?

La lunga esperienza clinica mi ha insegnato che chi si ammala nella mente è stato calunniato per secoli, ma in questi ultimi decenni in modo particolare. Gli è stato raccontato che è una persona deficitaria su un piano genetico. La mia tesi ribalta questo assunto: si tratta di persone di notevole sensibilità, che hanno appreso sin da bambini a “sentire” l’ambiente intorno a loro con una vividezza fuori del comune. Avendo interiorizzato tutto questo, vorrebbero dare una risposta e una soluzione al disagio interiore e ambientale per poter vivere meglio. Ma spesso la soluzione implica delle scelte impraticabili (le ferite ricevute si mutano in rabbia vendicativa o in chiusura assoluta...) o difficili (separarsi dai contesti affettivi primari per diventare altro...) e a questo punto il disagio si struttura, si fissa nella personalità. Chi ammala nella psiche ha caratteri genetici diversi dagli altri, ma non nel senso dell’inferiorità, bensì nel senso di una singolare superiorità.

Una tesi rivoluzionaria...

Dirò di più: le persone che stanno male, rappresentano il tentativo che la specie umana sta facendo per superare una fase storica critica, lo sforzo dell’umanità per ricostruire la rete affettiva e l’efficacia simbolica di cui ha bisogno. L’abisso di egoismo e di inaccessibilità nella quale ci siamo rifugiati equivale, per la specie umana, alla morte. Molte delle persone migliori che noi conosciamo – scienziati, medici, ricercatori, volontari, artisti, filosofi eccetera – sono di fatto persone che hanno sfiorato o hanno superato gravi difficoltà psichiche. Le loro biografie lo dimostrano. Se la malattia viene curata in profondità e risolta, il nevrotico, il più delle volte, si rivela una persona straordinaria.

Una teoria che dà fastidio?

Infatti il mondo accademico mi ignora. È una tesi che smonta professionalità e prodotti creati sulla base della pretesa “minorità” degli ammalati. Il presupposto è che i disturbi della psiche non nascono da una base genetica alterata – come invece affermano tanti psichiatri – ma piuttosto da una sensibilità fuori del comune, da una capacità particolare nel cogliere le sfumature del reale e a mettersi in sintonia con esse, anche quando sono contraddittorie. È dalla contraddizione che nasce la sofferenza.

Un addio anche alle terapie farmacologiche?

La terapia farmacologica è necessaria quando il soggetto soffre a un livello tale da non poter più mettere in gioco le risorse naturali del suo Io. Ma non deve, neanche in questo caso, diventare l’unica chance. I prodotti industriali – come i farmaci – se sostituiscono del tutto i rapporti umani contribuiscono a generare solitudine e infelicità. Sono “controproduttivi”, come diceva il sociologo e filosofo Ivan Illich: ossia, superata una certa soglia, aggravano il danno che intendevano curare.

Perché certi disturbi sono endemici nell’Occidente moderno?

L’idea che il modello occidentale sia il migliore dei mondi possibili è troppo ottimistica. La prima causa dell’ansia è proprio un modello sociale basato sulla prestazione e sulla competizione. Non c’è più nulla di stabile: le famiglie si compongono e si scompongono con incredibile rapidità, le coppie nascono e muoiono con un clic sul computer, i posti di lavoro sono precari. La seconda causa sta nel fatto che, per sentirci all’altezza, non esitiamo a diventare duri, egoisti, cattivi; a ripudiare i legami affettivi e parentali, avvertiti come un peso; a consumare droghe anestetiche, per resistere all’angoscia; a diventare aggressivi e litigiosi, per sentirci forti.

Il male di vivere colpisce tutti senza distinzioni?

L’ansia colpisce soprattutto gli individui di età produttiva. Spesso è il rapporto con la società, con il lavoro, con l’immagine sociale che si vorrebbe avere e dare, che induce dubbi su di sé e quindi ansie. Nei ragazzi, è collegata all’idea che la vita non abbia senso: tanto vale rifiutarla subito e abbandonarsi alle droghe, alla velocità, al rischio o a una diffusa e pervasiva depressione. Nelle donne, spesso, all’ansia sociale si somma l’ansia relativa alla propria desiderabilità femminile. Condizionate a essere dolci e arrendevoli, ma ormai anche dure e forti, esse scoprono di essere doppiamente conflittuali, oscillano fra momenti di sottomissione e di ribellione rendendosi inadatte a stare con gli uomini e a gestire figli.

Perché se certi disturbi sono una pandemia nei media se ne parla così poco?

Non se ne parla poco, se ne parla tanto, ma male. Si evita di approfondirne le cause perché allora si arriverebbe alla ovvia considerazione che se il nostro mondo fa ammalare ormai un terzo dei suoi figli di ansia, depressione, dipendenze, allora vuol dire che non è vero che è il migliore dei mondi possibili. Vuol dire che occorre rivedere i ritmi di sviluppo economico, il rispetto acritico delle caste di potere, politiche e professionali, in primis, fra queste, quella medica; l’ideologia individualistica, il valore assoluto del profitto.

Ma cos’è la felicità? Un diritto o una chimera?

La felicità, come la libertà, è la conoscenza della necessità. Devo sapere che cosa mi è davvero necessario e scartare l’inutile per essere libero e quindi felice. Io penso che ricco è colui che sa di avere, povero è colui che crede di non avere abbastanza. In quanto esseri umani, noi abbiamo bisogno innanzitutto degli altri esseri umani e di poco altro. Dobbiamo investire in rapporti umani, in ricchezza culturale, non in automobili più grosse e potenti, non in una crescita dissennata del PIL.

Sono mali della solitudine?

La solitudine esistenziale non aiuta a uscirne. Per questo è importante relazionarsi con altri. La confidenza duale (l’amicizia, l’amore, la psicoterapia) e i gruppi di relazione aiutano a capire che non si è soli, che il disturbo è comune e che si può guarire grazie alla funzione terapeutica della socialità umana. Se i rapporti sono sinceri e leali, si crea una rete di amore e di solidarietà più forte dello sfruttamento e della sofferenza.

Cosa distingue un terapeuta buono da uno che non lo è?

L’amore.