Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Intervista sul libro Le eclissi dell’anima

per il quotidiano online La voce

a cura di Daniela Cavallini

Introduzione

Copertina del libro “Le eclissi dell’anima”

Carissimi Amici, carissime Amiche, chi di noi non ha mai attraversato momenti di crisi psicologiche a seguito di eventi traumatici o semplicemente dovuti al naturale processo della nostra crescita? Basti pensare al classico passaggio dall’adolescenza all’età adulta, all’illusione – seguita dalla delusione – degli amori idealizzati, goduti e finiti, alla sensazione di percepirsi oppressi dalle consuetudini sociali. A questo, per molti, si aggiungono eventi drammatici, come un lutto, una grave malattia o un incidente invalidante a vita – subiti da noi o da una persona cara – la perdita del lavoro e, conseguentemente, del proprio status sociale.

Ho citato solo alcuni esempi di questi “choc esistenziali” – come li definisce il Dott. N. Ghezzani nel suo ultimo libro Le eclissi dell’anima – [possibili precursori] di un grande cambiamento in grado di sovvertire il “momento buio”: un nuovo amore felice ed improvviso, un successo economico o sociale, un’intuizione straordinaria in grado di volgere al meglio la sensazione di smarrimento. Cambiamento annunciato dalla naturale generosità della vita [...].

Nell’intervista, di seguito riportata, il dott. Nicola Ghezzani – psicoterapeuta e scrittore – ci illustra questo delicato percorso chiamato “Vita”.

Ben ritrovato Dott. Ghezzani e grazie per essere disponibile ad affrontare con me ed i nostri lettori il complesso tema delle crisi esistenziali.

Ben ritrovata lei, Daniela, è un piacere. La consuetudine aiuta a rafforzare la buona intesa.

Che cos’è una crisi e come si manifesta?

Come ho scritto nel libro:

La parola “crisi” deriva dal verbo greco krino, che vuol dire “separo”, e per analogia si presta a significare sia “distinguo”, “discrimino”, “scelgo”, che “fratturo”, “frantumo”, “rompo”. La crisi, dunque (come suggerisce l’etimologia greca), è una frattura dentro di noi, un’incrinatura nel nostro Io che, immerso nel malessere, perde coerenza ed efficacia. E tuttavia, allo stesso tempo, la crisi è un’emergenza esistenziale che ci obbliga a maturare una più acuta capacità di analisi della situazione o dell’intera vita, e può quindi preludere a decisioni fondamentali.

Ci sono momenti della vita nei quali il nostro Io originario soffre e protesta perché ci siamo alienati da lui, dalla nostra vera identità, lasciandoci sviare dalle mille lusinghe degli affetti e delle coercizioni sociali. Non ce ne accorgiamo, ma conduciamo una vita falsa e incompleta, quindi la nostra natura profonda, il nostro DNA psichico, soffre. In quel momento la sofferenza può essere tale da affiorare alla coscienza attraverso emozioni ed impulsi reattivi rispetto allo schema acquisito, presto soffocati dai sintomi, che tentano di ripristinare l’ordine violato. La nostra anima diventa allora un campo di battaglia, diviso fra parti che mirano alla conservazione, anche a costo di mutilare la nostra ricchezza umana, e parti che aspirano a un cambiamento talvolta anche trasgressivo e dirompente. La personalità si scinde in posizioni estreme che non riesce a mediare. Nella mia teoria, la Psicologia dialettica, ho chiamato Io primario l’io della vita quotidiana, e Io antitetico l’Io sofferente e ribelle. La crisi è il momento in cui il conflitto è affiora alla coscienza, ma solo con i suoi effetti drammatici: ansie, inquietudini, paure, rabbie, depressioni, conflitti e soprattutto sintomi.

Ne “Le eclissi dell’anima”, lei utilizza una terminologia talvolta persino inquietante (claustrofobia esistenziale, doveri invisibili forti come cavi d’acciaio, catastrofe epistemica, morte in vita...) descrittiva al punto da indurre nel lettore l’emozione esposta. A proposito dello sconvolgimento della crisi giovanile, che segue l’inevitabile presa di coscienza del crollo improvviso delle certezze illusorie apprese, che ci sorreggevano e che costituivano quella che lei definisce “una linea retta immersa nella luce”, cito la sua metafora:

pattinavamo su un sottile strato di ghiaccio, ma non ce n’eravamo mai accorti. Ora il ghiaccio si è frantumato e noi siamo in bilico nell’istante che precede la caduta. E abbiamo paura, perché come ogni animale, anche l’uomo ha paura: paura dello squilibrio e del vuoto.

Questo genere di sensazione tuttavia non ci pervade solo in giovane età... Come consiglia di affrontare un tale momento?

Come affrontare la crisi è il problema centrale che mi sono impegnato a descrivere nel corso dell’intero libro. Ogni volta che siamo costretti a cambiare contro la nostra volontà cosciente ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi; non abbiamo più punti di riferimento, quindi abbiamo paura. Si cambia città o lavoro o si viene licenziati; oppure ci si separa dal coniuge; finisce un grande amore che ci aveva sostenuti per anni; si ha un grave incidente e si hanno dei danni fisici che potrebbero essere permanenti; si sviluppa una nevrosi con sintomi invalidanti e si teme di non tornare più come prima; quindi si ha paura. È normale. Accade sempre. Ebbene, la prima cosa da fare è accettare che è in corso una crisi e poi cercare di dominare la paura. Perché la paura è un danno aggiuntivo.

Uso una metafora. La cosa peggiore che possiamo fare quando siamo coinvolti in una rapina è reagire con il panico. In quel momento, il rapinatore può a sua volta spaventarsi e reagire con rabbia, colpendoci o persino uccidendoci. La crisi psicologica è una fase della vita in cui, dentro di noi, due parti si fronteggiano, e ciascuna ha la sensazione di essere rapinata dall’altra. Il nostro Io primario si sente defraudato dal sistema di adattamento che egli stesso si è costruito per compiacere gli affetti e i sistemi familiari e sociali. Ma poiché soffre troppo, allora ha una mutazione e sviluppa accanto a sé quel fratello gemello che ho chiamato Io antitetico, cioè quella parte della personalità che protesta e si ribella attaccando con fantasie o atti concreti i legami affettivi e le sicurezze sociali. Ma a sua volta il sistema di adattamento che ci protegge dal disordine si sente rapinato dalla violenza della ribellione e reagisce reprimendola. Tutto questo avviene in modo inconscio o solo in parte conscio. I sintomi che insorgono hanno la funzione di proteggere l’adattamento inibendo e danneggiando la nostra spontaneità.

Faccio un esempio: una donna è stanca di essere trascurata dal marito e ignorata dai figli. Comincia a sentirsi come quando era bambina: per i genitori era come trasparente. Allora sente crescere dentro di sé delusione e furia e immagina di tradire il marito o di trascurare i figli. Non di meno, questa fantasia, tanto più se ha prodotto delle azioni, la fa vergognare di se stessa o la getta nella depressione da senso di colpa: allora avverte come un crollo, il suo Io adattato viene meno, quindi lei ora ha paura. Nondimeno, se non ascoltata la paura e non la capisce, e anzi insiste a “tradire” marito e figli nei pensieri o negli atti, ecco che in questa donna insorge un disturbo d’ansia o una depressione accusatoria. La donna avrebbe dovuto fermare il processo nella fase iniziale; oppure dovrebbe riportarcelo adesso, in modo da capire la sua insoddisfazione e farne uno strumento di opposizione e mediazione con la realtà. Dovrà imparare a chiedere di essere “vista”, di essere valorizzata nella sua identità, e magari anche amata.

Quando ci lasciamo trascinare dal panico, al sintomo primario seguono altri sintomi, perché il panico genera disordine e la funzione dei sintomi è rimediare al disordine psichico a qualunque costo. Quindi, un disturbo d’ansia può essere sostituito pian piano da una nevrosi ossessiva, da una depressione, da una sindrome da derealizzazione, perché non si è riusciti a sopportare il primo sintomo, che era soltanto ansia. Quindi per prima cosa occorre accettare il sintomo e non averne paura; poi occorre vedere al di là di esso, occorre vedere cosa sta accadendo alla nostra vita. Questa tesi sui disturbi d’ansia l’ho espressa con molta chiarezza nel libro La logica dell’ansia, cui rimando.

Il sintomo reprime e copre l’emergere della crisi, quindi ci impedisce di vedere con chiarezza le cause del nostro malessere e gli strumenti necessari per risolverlo, che spesso sono già a nostra disposizione, purché si abbia la calma necessaria per poterli vedere e adoperare.

Il dovere di essere felice... una prigione mentale spesso creata dalla famiglia iperprotettiva, prevaricante – seppure in buona fede – nel sostituirsi alle decisioni dei figli (considerati immaturi) e nel contempo altamente condizionante – per i figli stessi. Figli investiti dalla responsabilità di dover essere felici per non deludere le aspettative della prodiga famiglia, ricalcandone il suo – anziché costruirne uno proprio – criterio di felicità. Da qui, il dovere morale – prigione mentale – del giovane di non deludere la famiglia mostrando comportamenti – autoimposti – di felicità e gratitudine per le subite scelte altrui.

Qual è il comportamento – o meglio l’atteggiamento – che entrambi – genitori e figli – dovrebbero assumere onde evitare la soffocante condizione?

Se la felicità è un dovere, i figli sono costretti ad alla visione del mondo dei genitori, perché è in quell’orizzonte che i genitori hanno vissuto e li hanno educati, ed è in quell’orizzonte di senso che essi vogliono continuare a vivere. In fondo i genitori vorrebbero che i loro figli fossero il più possibile simili a loro, quindi semplici e facili da condurre. Naturalmente non è mai così, perché la variabilità genetica e le esperienze soggettive rendono i figli progressivamente diversi dai loro genitori, quindi suscettibili di crearsi una visione della vita e della stessa felicità diversa e talvolta opposta. A questo punto i genitori possono fare l’errore imperdonabile di insistere nelle loro verità e di squalificare come patologiche le sensazioni e le intuizioni dei figli. Si può arrivare allora ad un conflitto tacito, invisibile, tutto giocato su cosa sia vero e cosa sia falso.

Naturalmente ci sono inganni volontari e altri involontari, consci e inconsci. Pensiamo all’inganno volontario, cioè a quelle le famiglie nelle quali i genitori ingannano i figli con sadismo intenzionale. Una madre dichiara quanto amore le sia costato mettere al mondo il figlio, mentre invece lo detesta perché la sua nascita l’ha costretta a vivere con un marito odiato; oppure un padre esige di essere amato come un buon padre mentre la sera va a bere con gli amici e torna a casa ubriaco, oppure spende i soldi nel gioco d’azzardo. Un inganno intenzionale molto diffuso è questo: la coppia ha messo al mondo i figli per dovere morale o magari per questioni di status, ma si presenta i figli e al mondo sociale come la migliore del mondo. Molti figli vivono in un ambiente che li ha generati per obbligo e quindi li ama in modo artificioso e convenzionale. In tutti i casi citati l’inganno è una “manipolazione psichica” e quando i figli cominciano a “svegliarsi” il risveglio è doloroso e può essere oggetto di scissione e rimozione, quindi generare patologia.

A ben vedere questo inganno riguarda anche i macrosistemi, per esempio la politica. Pensiamo a quello dei governi sui governati nelle moderne democrazie. I governanti per governare devono avere il consenso dei governati, quindi devono generare in loro delle illusioni. Creano, allora, per i propri cittadini l’illusione che la felicità sia possibile, ma che lo sia solo nei modi che consentono al governo di perpetuare la propria esistenza. Prendiamo l’Italia che ha un enorme debito pubblico. I governanti, se vogliono continuare a spendere i soldi dei contribuenti per mantenere i propri privilegi, devono convincere gli italiani che la colpa del debito è di Stati concorrenti, non della disonestà della classe dirigente locale. Oppure, i mezzi di informazione (al servizio della classe politica) spacciano l’idea che aiutare i migranti sia il massimo della realizzazione morale di un popolo; il che potrebbe anche essere vero in astratto, ma nel caso concreto attuale la verità indicibile è che i governi hanno stipulato patti segreti con Stati “alleati” che sfruttano le risorse di Paesi cui è stata sottratta la sovranità con la guerra, e che le conseguenti migrazioni devono essere sopportate dagli Stati più ricattabili. Altro esempio: la gente è convinta che i musei ristrutturati e aperti nelle loro città rappresentino un servizio che il governo locale ha reso nei confronti delle cittadinanze, perché questo è stato detto dalle TV e dalla stampa, e invece dietro quelle ristrutturazioni ci sono miliardi di euro “girati” a società di clienti e di “amici”. La corruzione morale è dappertutto, ma le classi dirigenti che stanno in alto devono apparire “migliori” di quelle che stanno in basso. Queste sono forme di inganno volontario e consapevole, come quello dei genitori immorali che si spacciano per i migliori del mondo. A questo livello, il trauma è oggettivo e la psicoterapia non può non tenerne conto.

L’inganno involontario è il più frequente fra le famiglie sostanzialmente “sane”, che sono le più numerose.

Pensiamo a un genitore che crede in buona fede che se il figlio si comporta con gentilezza sarà un figlio migliore. Il figlio sente la buona fede e obbedisce, ma poi scopre che la gentilezza gli impedisce di vedere i difetti del genitore, che pure esistono, oppure gli impedisce di reagire quando viene maltrattato e umiliato dai compagni di gioco o di scuola o da un docente. Un figlio può scoprire che un eccesso di onestà lo fa essere raggirabile; un latro, di un’altra famiglia, può invece scoprire che la morale da “duro” insegnatagli dai genitori, che credevano di fagli del bene, lo fa essere antipatico o incapace di innamorarsi. Questi sono inganni involontari, che generano danni mistificati dalla stessa vittima, che non riesce a credere che chi lo ama lo abbia danneggiato.

In termini sociali, pensiamo a un sacerdote in buona fede. Quando la donna di cui ho raccontato sopra, delusa dalla vita coniugale, va da lui per dirle che è scontenta del marito, il quale non la considera un essere umano, ma la tratta come una erogatrice di servizi, il sacerdote le spiega che la sopportazione è la virtù del forte e che, se lei sopporterà, un giorno il marito la amerà. Il sacerdote è in buona fede, sta indicando alla donna quella che per lui è la via della felicità, o quanto meno della serenità, ma rende alla donna un servizio antipsicologico, perché le impedisce di riflettere sulle cause del suo dolore e se queste cause possano essere rimosse con strumenti che sono già a disposizione. Pensiamo a una professoressa di liceo che si esalta di una sua allieva brava nelle materie che lei insegna. Mentre la esorta a studiare non si rende conto che sta alienando la ragazza dalla vita dei coetanei e che sta costruendo la sua rovina.

Quindi un genitore, come un sacerdote o un insegnante, possono indicare in buona fede a un giovane quale sia secondo loro la via della felicità; e poiché esercitano un carisma su lo irretiscono nella loro ideologia, nella loro visione del mondo. Si realizza così una sorta di ipnosi involontaria. Per il giovane il risveglio può essere molto doloroso, non solo perché si rende conto di aver sbagliato strada, ma anche perché rendersene ne conto significa vedere i difetti della persona che li ha accuditi e istruiti, e criticarla, anche se essa ha agito in buona fede.

Affascinata dalla sua descrizione della dinamica “catabasi/anabasi“ ovvero “crollo/risalita”, le chiedo come si supera una crisi?

La crisi si supera in varie tappe, la prima è accettare che la crisi c’è e non negarla, né vergognarsene o disperarsi. La seconda è valorizzarla. Se c’è una crisi (se siamo scesi nel nostra Inferno attraverso il movimento di catabasi) è perché i nostri luoghi “alti”, le nostre scelte identitarie, erano in realtà negativi. Andiamo in basso perché tutto il nostro sistema di vita era sbagliato e ora dobbiamo cambiarlo. La terza tappa consiste nello scoprire e valorizzare l’altro dentro di noi, la diversità contenuta nella nostra identità. Questa diversità si compone di parti assolutamente “brutte”: le tremende emozioni negative che sono nate da abbandoni, negligenze, umiliazioni, dolori, rabbie, odi. Eppure proprio queste parti sono quelle più “energetiche”, cariche di forza trasformativa. Avviene come nelle rivoluzioni sociali: chi sta in basso e ha sofferto sa perché l’ordine deve cambiare. Forse non sa come e in che direzione portare la società, però sa che deve cambiare. Le parti “brutte, cioè oppositive, che sono dissociate e rimosse dalla coscienza ma posso essere fatte riemergere, portano con sé una nuova modalità di reazione alla vita quindi una nuova visione della verità. L’anabasi comincia quando la verità è distillata, non è più inquinata né da una rabbia puramente distruttiva né dalla paura della crisi in atto. La verità è distillata quando è semplice, potente (nel senso di incontrovertibile) e creativa. Allora si risale verso la luce.

Parliamo della noia. Lei afferma: la noia non è un’esperienza naturale e procede enfatizzando quanto la fantasia costituisca l’unico antidoto alla noia stessa, onde quietare il derivante sconforto... cortesemente ci illustra il concetto?

Il sentimento della noia deriva sempre dalla certezza di vivere in una realtà statica, data una volta per tutte e senza via d’uscita. La realtà ci si impone: è quella e nessun altra, e noi siamo solo parti integrate di un sistema di relazioni privo di alcun potere creativo e trasformativo. È chiaro che chiunque può annoiarsi; quindi saper tollerare la noia è parte della salute. Ma se la noia scivola nella noia esistenziale (ossia: la noia della vita stessa) e nell’angoscia claustrofobica (cioè: la vita ci opprime come se fossimo in una prigione o sepolti vivi in una tomba), allora siamo nella patologia. La vita è ferma, rigida, monodirezionale, quindi limita e opprime i nostri impulsi vitali, che sono naturalmente trasformativi. La realtà senza variazioni, quindi la prigionia in un universo mentale ripetitivo, deprime la vita. Accade nei regimi dittatoriali: nulla è più noioso della vita in un regime in cui tutto è previsto. E accade in quelle dittature della mente che sono i legami imperativi, ripetitivi, rigidi; come anche quei sistemi di vita nei quali l’individuo non sperimenta mai il proprio potere trasformativo sulla realtà.

La fantasia è la capacità di vedere il mondo sotto un’altra luce. L’ho detto mille volte: noi siamo animali metaforici: mentre vediamo la realtà oggettiva dobbiamo sempre anche vedere ciò che quella realtà potrebbe essere. Siamo animali metaforici e perciò anche simbolici: ognuno di noi ha ciò che io chiamo un mondo antitetico, un mondo alternativo, costruito nella nostra intimità psichica. Se non abbiamo questa visione stereoscopica – metaforica e simbolica – non siamo sani e non possiamo essere felici. L’arte, che è un’attività umana intrinseca, è nata per questo, per renderci capaci di trasformazione.

Faccio il mio esempio personale. Accanto all’attività clinica e alla scrittura saggistica scientifica, ho sempre coltivato anche la scrittura letteraria: ho una produzione di prosa e di poesia molto ricca, che per me è fisiologica. Oggi non saprei vivere senza scrivere di fantasia. Non ho pubblicato quasi nulla di questo materiale, a causa delle leggi di mercato. Sono conosciuto come clinico e come saggista scientifico ed è questo tipo di produzione saggistica che la gente mi chiede. Quindi, pubblicare le mie poesie o i miei racconti potrebbe non attirare un gran pubblico, e infatti gli editori non me lo chiedono. Tuttavia, per quanto possa apparire irrazionale o poco utile, io insisto a scrivere letteratura, perché tenere sempre attiva questa produzione stimola la mia riflessione creativa sulla mia anima, e questo mi fa sentire più libero, quindi più sano.

La cito nuovamente: per innamorarsi occorre trovarsi in una condizione negativa, che ha definito stato di morte in vita. Questo significa che in uno stato di benessere non ci innamoriamo?

No. In uno stato di benessere possiamo amare, non innamorarci. Ho illustrato più volte la differenza che sussiste fra innamoramento e amore. Sono due esperienze molto diverse. Il mio caro amico Francesco Alberoni mi ha aiutato ad concettualizzare e perfezionare la riflessione su queste differenze. L’amore è un’alienazione volontaria e consapevole di se stessi in funzione del bene dell’altro; un’alienazione di un genere particolare perché necessita l’amabilità dell’altro, quindi la sua capacità di piena reciprocità, come fine supremo da raggiungere. Ama davvero solo chi desidera produrre nell’altro la capacità di amare, che significa anche lasciarlo libero di amare chi vuole. È evidente che per compiere un’azione del genere, per amare, occorre essere molto “forti”: solidi in se stessi, tanto da donarsi in modo volontario e senza averne paura. Viceversa l’innamoramento è un’esaltazione incontrollabile della fantasia e della creatività, il cui fine è sollevare il proprio stesso Io all’altezza dell’oggetto amato. Come tale è un impulso del tutto fuori controllo, che travolge la volontà. L’innamoramento nasce laddove l’Io si sente basso, insignificante, morto – anche se la percezione di insignificanza e di morte può gravitare solo nell’inconscio. Tutto sembra privo di senso, noioso, ripetitivo, si ha la sensazione di vivere come schiavi o appunto come morti. Ed ecco che dall’intimo della psiche sorge un potente impulso a lasciare se stessi e a travolgere la propria vita. D’un tratto una persona soddisfa questa fantasia e l’eros esplode: questo è l’innamoramento.

In linea con la teoria di Alberoni, che è stato il primo al mondo a parlarne in questi termini (anche se poi ha avuto innumerevoli plagiari), ho scritto la mia versione di questi sentimenti e dei loro derivati in libri come Grammatica dell’amore, La paura di amare, Perché amiamo, L’amore impossibile. Dalla nostra collaborazione è invece nato il libro di Alberoni L’arte di amare.

Lei richiama l’attenzione al sopravvivere alla fine della propria giovinezza. Con il termine “sopravvivere” ne evidenzia dunque la difficile accettazione. È un azzardo affermare che sia un passaggio più difficile per la donna, rispetto all’uomo?

Direi di più: affermare che la donna soffre l’invecchiamento più dell’uomo è un luogo comune. L’invecchiamento è un passaggio difficile tanto per la donna quanto per l’uomo. La giovinezza non è solo quella fisica dell’avvenenza, che è spesso il tormentone della donna (ma non sottovalutiamo che anche l’uomo ne può soffrire... Da qui la tradizionale ricerca di donne giovani da parte dell’uomo maturo...). La giovinezza è anche l’età delle ambizioni e delle fantasie di successo: si pensa di avere un tempo infinito davanti a sé, quindi la gran parte degli uomini fa grandi immaginazioni di carriera, di guadagni, di notorietà morale o civile, di successo artistico ecc. L’incedere della vecchiaia mostra il limite di queste fantasie e la necessità di darsi un nuovo passo, una nuova concezione della vita.

Dunque, l’uomo soffre della castrazione delle proprie ambizioni tanto quanto la donna soffre della castrazione della propria avvenenza. In verità “maturare” significa appunto vedere nella vita concreta non idealizzata, nella vita reale che si conduce giorno per giorno e direi attimo per attimo, un piacere maggiore di quello immaginato nella folle corsa in avanti che caratterizza tanto il desiderio di attrarre quanto l’ambizione sociale. In fondo la vecchiaia può coincidere con la liberazione da queste che sono “dipendenze” tipiche dell’età giovanile, molto bisognosa di approvazioni. Essere più liberi, più autonomi, vuol dire esplorare la ricchezza intrinseca dell’anima personale e della vita presente. Tutto ciò può avere un fascino straordinario, considerato quanto la nostra società ci comanda di dipendere dall’opinione altrui, dalla culla alla tomba. La vecchiaia può farci godere di una singolare forma di libertà, mai sperimentata.

In assoluto, è evitabile la crisi, “bloccandola” nella fase prodromica, a prescindere dal motivo ipoteticamente scatenante?

La si può bloccare se, già dai primi sintomi, si riesce ad essere consapevoli delle cause scatenanti e si dà loro una soluzione. Se ci si conosce abbastanza, come accade a persone molto mature o che abbiano fatto una lunga psicoterapia, allora è possibile prevenire il disastro. Ma se la si blocca senza averci capito nulla, cioè con l’ansia e il panico o con atteggiamenti superficiali, per esempio con l’evitamento sistematico dei problemi, o con un sintomo fobico o ossessivo che mette il bavaglio al malessere, si va con certezza nella malattia psichica, perché il bisogno di cambiamento, insoddisfatto, continua a premere, genera un conflitto e il conflitto precipita la personalità nel caos. Accade come a un fiume che è stato coperto da una eccessiva cementificazione. Può contenere e arginare le acque pluvie finché si tratta di un flusso ordinario, ma se la massa di pioggia è invece straordinaria ecco che il fiume tracima, esonda e se trova a frenarlo una barriera di cemento, la distrugge e la sua furia può allora devastare un intero paese.

Pur autolimitandomi – mi rendo conto di averla tempestata di domande – tuttavia, forte dell’alibi che lei stesso mi fornisce – l’avere scritto un libro “intriso di vita” – mi permetto l’ultima domanda: la vecchiaia è solo paura di malattia e di morte o è una fase della vita che può riservarci un’insospettabile gratificazione?

Se si conosce abbastanza l’anima umana, come accade ad uno psicoterapeuta esperto, ma anche a una persona resa saggia dall’esperienza o da una grande cultura, ci si rende conto che la malattia e la morte non sarebbero problemi se il mondo fosse più umano. In realtà noi abbiamo solo paura della disumanità. Come scrisse Sartre in un suo dramma: L’inferno sono gli altri volendo dire che sono gli altri esseri umani a rendere la malattia e la morte degli eventi terribili, infernali. Se con gli anni siamo riusciti a costruirci una vita “umana” – e gli altri ci hanno permesso di farlo –, una vita esente dall’angoscia della malvagità propria e altrui, la vecchiaia può essere una stagione serena, sazia di vita, che acquista dalla visione complessiva un sentimento di compiutezza.

Dott. Ghezzani... non era l’ultima domanda, era la penultima... come consiglia di comportarsi nei confronti dei genitori anziani?

Non c’è una risposta univoca. Non sempre i genitori hanno meritato amore. E questo è un dato di fatto. Maturare significa accettare la verità, comunque si presenti. Se i genitori sono stati malvagi, nulla li potrà salvare dal nostro abbandono. Ma se sono stati semplicemente impotenti, incapaci, deboli, confusi, un po’ narcisisti, o troppo sacrificali, come accade il più delle volte, siamo di fronte a difetti perdonabili. Il perdono però non deve essere acritico, deve sorgere solo da una maturazione compiuta. Se no, è una finzione, una coercizione, e come tutto ciò che è falso e coercitivo genera una violenta avversione inconscia.

Dott. Ghezzani, onde non abusare della sua cordiale disponibilità, la ringrazio anche a nome dei lettori e spero di poterla intervistare nuovamente in merito agli altri capitoli del suo libro. Sezioni in cui narra le crisi dei grandi personaggi, le loro vite ed il loro insegnamento.

Grazie, Daniela. Il libro è costruito su molti livelli. Nelle sue 170 pagine contiene innumerevoli stratificazioni di riflessione. In realtà è come se avessi scritto due o tre libri diversi e poi li avessi sovrapposti, come si fa con i diversi strati di una torta. O, per usare una metafora più “colta”, come negli scavi archeologici, che mostrano diversi livelli storici, relativi a diverse epoche, tutti di gran fascino e tutti da esplorare. Quindi anche se costa un po’ (e questo non dipende da me), vale la pena acquistarlo perché si leggeranno più libri in uno e si tornerà sempre a consultarlo, come un vecchio amico.