Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Intervista sulla sofferenza sentimentale maschile

A cura di Daniela Cavallini

“Un uomo, una donna, un amore”

Buongiorno Dott. Ghezzani e grazie per essere nuovamente disponibile ad approfondire un argomento spesso socialmente considerato con sufficienza, se non addirittura con incredula e sprezzante derisione: il dolore per la fine di un amore, vissuto dall’uomo. Qual è la Sua opinione in merito?

In linea di principio, uomini e donne non differiscono fra loro quanto a capacità sentimentali e quindi di attaccamento affettivo. Come ormai ognuno sa, gli ormoni che circolano nell’uomo e nella donna sono gli stessi, anche se dosati in proporzioni diverse. Eppure nelle fasi di innamoramento ferormoni, feniletilamina, ossitocina ecc. sono massicciamente presenti in uomini e donne nelle stesse proporzioni; e il testosterone media l’orgasmo in entrambi i sessi con la stessa intensità: insomma, le differenze di colpo scompaiono, l’amore democratizza anche la biologia!

Prima di giungere alla fase di abbandono, soventemente si vive quel periodo di tormenti e ripensamenti con alternanza di episodi implosivi ed esplosivi, definito “crisi della coppia”. Un lasso di tempo in cui i comportamenti di lui e di lei sono diametralmente opposti in quanto scaturiscono da due esigenze antistanti: la donna è sollecita nel chiedere, esaminare e monitorare costantemente le risposte/reazioni di lui, mentre lui ha bisogno di ritirarsi in se stesso e riflettere in solitudine. Da queste differenze purtroppo nasce un ulteriore conflitto, spesso irreparabile: lei si sente rifiutata, trascurata, quindi frustrata e lo manifesta in modo soggettivo, ma pur sempre reattivo, mentre lui si sente criticato ed oppresso, ma persiste nel suo silenzio. Lapalissiano che esigenze diverse si manifestino con linguaggi, verbali e non, differenti. Com’è possibile superare questa fase costruttivamente, a prescindere dal risultato finale?

La donna è educata sin da bambina alla cura del simile quindi a manifestare in modo palese i sentimenti di relazione; l’uomo è educato a manifestare questi sentimenti in modo indiretto, proteggendo da lontano, lavorando, stringendo alleanze ecc. quindi è portato a nascondere i suoi sentimenti dietro un muro di riserbo. Credo che la nostra cultura abbia evitato di sollecitare l’esplorazione di quel sentimento fondamentale che è la “tenerezza”, non solo perché identificata come debolezza (sia nell’uomo che nella donna), ma forse ancora di più perché è un sentimento che aiuta a percepire l’altro nella sua intimità più personale. Tutte le culture, persino la nostra, che ha sviluppato l’architettura di quel sentimento che chiamiamo amore, tendono a imporre ai due sessi una vera e propria “retorica sociale” del rapporto di genere, cioè la netta distinzione dei ruoli. La tenerezza è un sentimento che, essendo mirato alla persona, abbatte la distinzione dei ruoli. Quindi può aiutare a capire il fondo di gioia e di dolore che ciascuno ospita dentro di sé sia pur dietro diverse manifestazioni sensibili: attraverso la tenerezza, durante le fasi di crisi, la donna potrebbe capire e amare il riserbo addolorato dell’uomo e l’uomo capire e amare l’ansia espressiva della donna.

Dato che crisi ed abbandono sono preceduti da prodromi che a volte vogliamo ignorare, desidero porre la Sua attenzione sul fatto che spesso la sensibilità maschile è in contrasto con quella femminile. Mi esprimo con il classico esempio: lei di una stupidata ne fa una tragedia, peccato che “lei” ribadisca che lui è talmente superficiale da non rendersi conto neppure di quanto mi faccia male. Ipotizzando la buona fede da parte di entrambi i partner, Lei, Dott. Ghezzani, come spiega questa annosa diatriba?

La spiego appunto con una diversa retorica dei sentimenti, una diversa semantica. I sentimenti sono gli stessi, ma sono mediati da diverse modalità espressive. Quando si perde il contatto personale, i due partner vedono solo la “maschera sociale” in cui il partner si esprime. E la maschera è fatta per generare differenza, non eguaglianza. L’amore si fonda col percepire l’eguaglianza “dietro” la differenza (fra l’altro questo è il motivo per cui le culture che non ammettono l’eguaglianza di uomo e donna restano sostanzialmente estranee al sentimento dell’amore). Per tornare a percepirsi dietro la maschera occorre fare appello all’attenzione personale, quindi alla tenerezza, che reintroduce la possibilità dell’amore.

“Tom Hiddleston”

Tralasciamo la crisi per parlare di uno stato di “normalità”, tuttavia quasi mai scevro da malintesi. Da donna, ho la sensazione che gli uomini, a fronte di un problema, palese o latente, serio o banale, reale o solo causato da fraintendimenti, siano tutt’oggi impreparati a sostenere attivamente il confronto con la partner tanto da procrastinarlo sine die. In alternativa, per la gioia delle innumerevoli barzellette, subiscono la disamina e le domande di lei come un interrogatorio, rispondendo a monosillabili, in quanto privati della “facoltà di non rispondere”. Come spiega questa reticenza maschile?

L’uomo è educato sin da bambino all’autonomia, quindi ad una interiorità più autosufficiente rispetto a quella della donna. A ben vedere questa autonomia – questa capacità di solitudine – è parte di quello status socio-affettivo che rappresenta il “fascino”, sia maschile che femminile. Ma nelle normali transazioni di coppia può risultare irritante. Anche le donne sanno essere irritanti nei loro silenzi. Per la donna il silenzio è uno strumento di estorsione di attenzioni e quindi di controllo: la donna non perde mai di vista il rapporto. Per l’uomo è un tentativo di risolvere il problema di coppia dentro di sé, in modo appunto autonomo. Il che è un paradosso, perché è ben difficile risolvere un problema relazionale stando chiusi in se stessi. Ma tant’è: la semantica del maschile e del femminile esige questi equivoci.

Lei, Dott. Ghezzani, è favorevole al dialogo totale nella coppia, ossia il classico “diciamoci tutto” o propende per mantenere un’area di riservatezza?

Chiunque abbia una certa attitudine all’introspezione sa che al fondo di noi stessi c’è un nucleo indicibile, indefinibile e sfuggente. Non mi riferisco soltanto a quella parte di sé fondata su relazioni “sacre”, da proteggere da ogni intrusione esterna, ma anche e soprattutto a quella parte ancora più profonda che sfugge alla codificazione sociale, quindi alla stessa verbalizzazione. “Dirsi tutto” è impossibile. La sincerità, la confidenza, la confessione sono necessarie a abbattere il riserbo dell’egoismo identitario, quindi a fondare l’amore. Se vogliamo fondare un amore non possiamo avere “segreti”. Ma c’è un livello in cui il soggetto è estraneo e sconosciuto a se stesso. Questo livello può essere colto dal partner solo con la tenerezza, il senso del mistero, il fascino. Coincide con tutto ciò che è impossibile “dire”: l’alterità, l’estraneità, la morte.

“Nacho Aguirre, Santa Clara, Messico”

Torniamo al tema della nostra intervista, il dolore vissuto dall’uomo. Cosa ritiene di esprimere e consigliare, come uomo e psicoterapeuta, a chi si trova a vivere questa triste fase della vita?

L’uomo che soffre per amore può essere vittima di una donna crudele oppure di un destino avverso. Se il suo caso è quello di essere incappato nelle arti di una donna crudele dovrà vederla per ciò che è: un’ingannatrice, una parassita dei sentimenti, una punitrice del sesso maschile ecc. quindi sciogliere quell’ipnosi che radica nel rapporto con che egli ha, nell’inconscio, con la propria madre e vedere la donna in termini oggettivi. Invece, nel caso in cui l’uomo sia vittima del destino avverso, cioè che sia innamorato di una donna meravigliosa, ma che non lo ama più, e ciò sia un fatto incontrovertibile, quest’uomo dovrà capire e accettare che il nostro potere è limitato, che tutti dobbiamo sottostare a dei limiti, e che la coscienza dei limiti ci introduce alla “commozione”, uno dei sentimenti più importanti in assoluto, di quei sentimenti che ci rendono effettivamente umani. Con la capacità di commuoverci della nostra umana impotenza scopriamo di appartenere alla “famiglia umana”. Se non compiamo questo passaggio, l’area della nostra solidarietà resta misera e incompiuta.

RingraziandoLa per aver trattato con noi questo tema, La saluto cordialmente.