Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Introversione

L’introversione come carattere psicologico distintivo

La distinzione corrente fra introversione ed estroversione è, nella nostra cultura, gravemente compromessa dal pregiudizio. In generale, dell’individuo introverso si dice che tende a ripiegarsi in se stesso, a interessarsi in modo “morboso” del proprio mondo interno, con distacco e chiusura nei confronti del mondo esterno e dei contatti sociali. Per contro, dell’estroverso si afferma che è un individuo con spiccati interessi verso l’ambiente esterno, tendenza a esprimersi e manifestarsi, e quindi facilità ad inserirsi nel contesto sociale.

“Ritratto di Bia de’ Medici”

Relativamente a introversione ed estroversione, dunque, si esprimono meri “giudizi di valore”, ovvero, per essere più precisi, pregiudizi, gli uni gravemente penalizzanti nei confronti dell’introversione, gli altri esaltanti tanto quanto superficiali nei confronti del carattere estroverso. Si direbbe che il vocabolario psicologico corrente sui due opposti tratti caratteriali sia stato scritto da estroversi sicuri del fatto proprio o da introversi mortificati e pentiti di essere ciò che sono.

Nel linguaggio quotidiano, la parola “introverso” evoca significati quali: chiuso, taciturno, insicuro, complicato, complessato, asociale, passivo; “estroverso” viceversa significati opposti, quali: aperto, comunicativo, spigliato, diretto, sano, socievole, intraprendente, attivo. Per quanto si riconosca che molti introversi hanno una sensibilità e un’intelligenza fuori del comune, il loro modo di porsi, equivocato spesso come scostante e altezzoso, provoca reazioni di antipatia, mentre gli estroversi, eccezion fatta per quelli insopportabilmente narcisisti e invadenti, sono giudicati generalmente simpatici.

Si può immaginare che prezzo di dolore comporti questo facile e stolto pregiudizio quando vada a colpire dei bambini. I bambini introversi sono percentualmente minoritari rispetto agli estroversi (forse non più del 10%); ma ciò che, di fatto, li rende gravemente a rischio è che, essendo bambini e perciò ingenui e spontanei per natura, non possono nascondere ciò che essi sono, cosa che li rende più visibili e perciò più aggredibili rispetto agli adulti egualmente introversi.

I bambini introversi sono appartati e silenziosi, mentre la scolarizzazione, e non di rado le stesse famiglie, richiedono e impongono la relazione sociale continua e il valore assoluto della comunicatività. Sono sensibili e riflessivi, mentre il mondo scolare e quello sociale in genere “sponsorizzano” personalità competitive, orientate alla sopraffazione e al successo, e dunque adattate ai valori di distinzione e di insensibilità propri della casta dominante. Sono fantasiosi (e ciò li fa apparire “distratti”), quindi disadattati rispetto ad un mondo che esige pragmatismo e risultati rapidi ed efficaci. Talvolta sono contemplativi, persi nel piacere della percezione fine a se stessa, mentre in mondo circostante esige temperamenti in grado di usare la realtà come uno strumento per raggiungere degli scopi.

Non è artificioso dedurre da quanto detto che il bambino introverso sia oggetto di una vera e propria discriminazione quando non addirittura di una persecuzione.

Il mondo, dunque, è degli estroversi, che fanno il buono e cattivo tempo, imponendo per di più il loro modo di essere come parametro della normalità.

La psicopatologia degli introversi

Gli introversi, che spesso hanno delle ricche potenzialità emozionali e intellettive, vivono in un cono d’ombra, defilati, frustrati. Fatalmente contagiati dal codice culturale prevalente, essi stessi finiscono per ritenersi inadeguati, meno capaci degli altri, gravati da tratti di carattere che, quando non patologici e perciò vergognosi, giudicano comunque sciocchi e inadeguati. Ciò li induce a nutrire un sordo risentimento nei confronti della natura, responsabile di un carattere che crea solo problemi, associato spesso ad una rabbia più o meno consapevole nei confronti della società che li umilia e li emargina.

La maggior parte di essi, dunque, giunge a ritenersi inadeguata alla normalità che intravedono nel mondo, con esiti non di rado drammatici. Spesso, l’introverso sviluppa ansia in rapporto all’interazione sociale e depressione per via del giudizio spregiativo o comunque negativo su di sé. Altri, come non bastassero le sollecitazioni esterne ad essere "normali", tendono ad adottare, per mimetizzarsi, dei moduli comportamentali estroversi. Nella misura in cui ci riescono, realizzano tutt’al più un falso Sé, una caricatura del loro vero essere.

Dall’ansia di essere rifiutati e di riconoscersi essi stessi incapaci di stare al mondo come gli altri, possono svilupparsi timidezza, fobia sociale, immagini di sé distorte e spregiative e depressione; dal risentimento attivo nei confronti del mondo e della vita, adattamenti forzati, esaltazioni maniache, fantasie di vendetta e sensi di colpa, strategie ossessive per il perseguimento del successo, angoscia, autosvalutazione, trasgressioni e impulsi al suicidio.

Strategie di riscatto e di partecipazione

La supremazia sociale dell’estroverso, con la conseguente emarginazione (e auto-emarginazione!) dell’introverso riflette, dunque, di una precisa gerarchia di valori. Si tratta tuttavia di una gerarchia di valori banale, appiattita sugli schemi sociali attualmente più in voga, che risentono dell’andamento di una società orientata ai valori di mercato, quindi alla sopravvivenza del più forte. La “brillantezza”, ossia la capacità di sapersi vendere; la “volontà comunicativa”, cioè la deferenza verso l’atto di scambio; la “solidarietà”, intesa come costrizione all’attivismo sociale; il “pragmatismo” e l’“utilitarismo”, atti a permettere l’uso insensibile dell’altro essere umano e dunque il perseguimento del mito conformistico del successo, sono i valori dominanti, più facilmente assimilabili da individui poco riflessivi piuttosto che da individui inclini alla sensibilità, al distacco intellettuale e all’intelligenza critica.

Occorre, dunque, modificare questa banale gerarchia di valori. Mi si chiede: in che modo? Rispondo: creando paradossi. Il primo paradosso consiste nello svelare che l’introversione esiste in quanto esprime attitudini biologiche altamente specifiche, necessarie alla sopravvivenza della specie umana nel suo complesso, attitudini che hanno pertanto un valore oggettivo. In un certo senso, l’attitudine introversiva rappresenta l’ultima e più recente sfida che la specie umana abbia lanciato a se stessa, ad una specie che finora ha espresso il meglio di sé nel campo delle relazioni sociali di cooperazione e delle tecniche di dominio della natura.

Per contro, l’introverso si volge dentro di sé perché lì trova il suo ambiente elettivo: un mondo nel quale confrontare i prodotti della sua sensibilità e intelligenza agli oggetti presenti e dominanti nel mondo esterno. L’introverso ha dunque in modo eminente l’attitudine a trasformare la sua sensibilità e intelligenza in concetti culturali; quindi ad usare il “mondo ideale” costruito dentro di sé sia per valutare il mondo esterno (capacità critica), che per creare un mondo nuovo, anche solo virtuale, qualora il mondo reale fosse insufficiente in qualche sua parte (capacità creativa).

L’introverso dunque è sempre un individuo riflessivo (e in ciò esprime la sua capacità critica); ma è spesso anche un individuo creativo (e in ciò esprime la sua capacità di invenzione e di rinnovamento del mondo). Egli giudica e inventa meglio di quanto in genere sappia fare l’estroverso. Come ho argomentato nei miei libri Volersi male 1, La logica dell’ansia 3 e A viso aperto 4, l’introverso ha la funzione sociobiologica di rimodellare e arricchire la semiosfera, ossia il “mondo delle idee”, il mondo della cultura riflessiva, atto a sorvegliare e guidare il mondo delle prassi e delle tecniche.

Se si ammette questo primo paradosso, ne consegue un secondo, ancora più interessante, per il quale il concetto stesso di introversione viene a mutare radicalmente di segno.

Se i prodotti dell’introversione hanno un valore d’uso (psicologico) e un valore di scambio (in quanto prodotti culturali) allora, per natura, l’introverso dovrebbe oggettivare la sua attività psichica. Cioè, anziché isolarsi trasformando la sua attitudine in una patologia, dovrebbe seguire l’impulso naturale, che è quello di aprirsi al mondo secondo le sue attitudini specifiche. Oggettivare significa allora far cadere la stessa distinzione fra interno e esterno.

Se vedo la cosa dal punto di vista della psiche, nel momento in cui io, soggetto introverso, mi metto in rapporto con il mondo dei simboli (con l’autore di un libro morto secoli fa; con una musica composta a migliaia di chilometri di distanza da me; con un simbolo matematico che non esiste come oggetto materiale; con un silenzio riflessivo proscritto da un regime di obbligo comunicativo, con uno stato mentale privo di utilità pragmatica, ecc.), nel momento in cui mi metto in rapporto con questo mondo psichico e lo posso oggettivare nei segni di un giudizio critico o di una nuova creatività, allora io divengo parte attiva del mondo esterno. La mia introversione si estroverte come sensibilità, riflessività e creatività, senza passare per alcuna mimesi delle caratteristiche tradizionalmente attribuite all’estroversione.

Quello della giusta valutazione dell’introversione va considerato come un esempio di ciò che definisco neuropsicologia delle differenze individuali da associare ad una psicologia sociale delle attitudini: lo studio di caratteri psicologici e neuropsicologici differenziali; cui dovrebbe a mio avviso seguire la formazione di gruppi per la valorizzazione di tali caratteri differenziali, proprio in quanto minoritari. Tale disciplina dovrebbe esplicarsi in una prassi attiva (una pragmatica d’interazione psicosociale).

In rapporto all’introversione, la mia attività consiste allora non solo nel curarne la specificità psicologica nel colloquio duale, ma anche nel creare contatti e gruppi di solidarietà, di studio, di sensibilizzazione, di difesa e di valorizzazione di quest’attitudine psicologica minoritaria, perché la società contemporanea sia indotta a riflettere sulla ricchezza umana che essa colpevolmente ignora, se non addirittura dileggia e perseguita.

L’introversione come carattere evolutivo e valore sociale

Nel 2002 pubblicai, nel mio libro Volersi male 1, un’ipotesi psicologica e antropologica che mi appare oggi sempre più attuale (poi ripresa e ampliata nei libri successivi, fino a La logica dell’ansia 3 e A viso aperto 4). Vorrei darne qui un breve cenno (rimandando per la sua valutazione globale alla lettura dei libri).

Prima di rievocarla, vorrei però far notare, molto in breve, alcune drammatiche “emergenze” del mondo contemporaneo.

Prima emergenza
Il mondo globale è governato sempre più sulla base di eventi rapidi e irriflessi: si gestiscono crisi locali, situazioni di emergenza, i grandi poteri politici ed economici (nazionali e sovranazionali) mirano a sopravvivere giorno per giorno, incapaci di una visione prospettica e d’insieme. Domina, anche fra governanti seri e preoccupati dello stato delle cose, l’approssimazione e la superficialità.
Seconda emergenza
Nel mondo occidentale si è diffusa un’ideologia del successo improntata all’acquisizione di denaro, potere o fama che miete vittime ad ogni livello della scala sociale. Per le strade i ragazzi muoiono o aggrediscono per compiere gesta memorabili da filmare e trasmettere via internet. Dagli schermi televisivi divi cinici e ambigui, il cui unico merito è l’esibizionismo, diffondono ovunque il loro “pensiero”. Persino nelle scuole sono in vigore, in modo poco consapevole, ideologie diseducative: quella della competizione (ossia la lotta di tutti contro tutti) e la sopravvivenza del “forte” a scapito del più timido, del più sensibile, del più “debole”; e quella opposta dell’omologazione, che mira a far sentire tutti uguali senza distinguere le qualità e il valore personali: atteggiamenti psicologici generici e superficiali.
Terza emergenza
Il mondo occidentale si va popolando di una psicopatologia intessuta di conflitti interni dovuti a valori morali fra loro contraddittori e concorrenti, che scindono la personalità in dubbi, incertezze, invidie, slealtà e tradimenti di ogni sorta, coi correlati sentimenti della vergogna e della colpa. Anche nella psicopatologia domina, dunque, l’incapacità di risolvere i conflitti nella profondità della riflessione. Domina, anche in persone sensibili e intelligenti, la superficialità. In aggiunta a ciò, la scienza psicopatologica si va riempiendo di messaggi non meno superficiali nei quali si promuovono terapie “veloci” che “risolvono il problema” in dieci sedute, che non analizzano la storia del paziente, che cedono il primato terapeutico alla farmacoterapia. Gli psicopatologi sono diventati, in buona parte, dei superficiali.
“Ritratto di Lorenzo Lenzi”

Siamo tutti un po’ a rischio. Possibile che la specie umana (proprio in quanto specie), sempre così sottile e lungimirante, non abbia tentato di produrre, anche questa volta, una correzione all’inquietante stato delle cose che si profila nel mondo? È la stessa specie che attraverso l’ominazione ha superato l’indigenza originaria e poi desertificazioni demografiche e glaciazioni che ne hanno minacciato la sopravvivenza nel corso di sterminati millenni?

Sì, è la stessa specie.

In 1 ho fatto un’ipotesi (poi approfondita in alcuni capitoli di Crescere in un mondo malato 2 e in 3): che la specie umana stia già producendo il “rimedio biologico” all’abuso dell’uomo sull’altro uomo insito nella produzione di identità superficiali e scarsamente sensibili (ma “pratiche” e perciò utili all’adattamento alla natura fisica del mondo). La mia ipotesi è che la specie stia selezionando individui dotati in una qualità specifica: la sensibilità riflessiva, che è la base di quella caratteristica psicologica che è l’introversione.

Ecco la esatta enunciazione del principio esposta in 1:

L’immenso potenziale psicobiologico [prodotto dalla specie e] rimasto tuttora largamente inesplorato è la capacità di interazione del singolo uomo con se stesso, cioè il potenziale introversivo-riflessivo individuale, espresso, in prima istanza, nell’immaginazione riflessiva. Potenziale nuovo perché la sua funzione non è quella di fornire strumentalità tecniche di uso immediato, bensì quella – altamente rischiosa – di confrontare mediante opposizione l’intera struttura del mondo umano oggettivo (la società) con un mondo interno soggettivo in grado di immaginare mondi alternativi diversi e migliori, e di erigersi pertanto a parametro dell’intera creazione umana.

L’immaginazione riflessiva ha dunque una finalità evoluzionistica duplice: il suo scopo è perfezionare sia le interazioni umane concrete, sia la loro oggettivazione materiale nel fenomeno storico della cultura.
(1, pag. 121)

Insomma, l’individuo dotato di sensibilità riflessiva – tendenzialmente introverso – ha lo scopo biologico di rendere l’evoluzione tecnica dell’uomo e le sue produzioni sociali qualcosa di armonico e soprattutto “profondo”: ossia pensato, vagliato, riflettuto. Questa riflessione profonda, “viscerale”, porta alla possibile creazione di un mondo immaginario, ideale, contrapposto a quello reale.

Sempre in 1 scrivevo:

Il mondo interno soggettivo cresce così fino a diventare un mondo autonomo in cui vengono liberamente immaginate sia le nuove potenzialità culturali, che le stesse potenzialità di rapporto fra gli esseri umani.
(1, pag. 40)

Quindi nel 2004, in 2, formulavo due precisi progetti:

L’introverso possiede l’attitudine a trasformare la sua sensibilità e intelligenza in concetti culturali; quindi a usare il “mondo ideale” costruito dentro di sé sia per valutare il mondo reale (capacità critica), sia per creare un mondo nuovo (anche solo virtuale) qualora il mondo reale fosse insufficiente in qualche sua parte (capacità creativa). 
Quello della giusta valutazione dell’introversione va considerato come un esempio di ciò che io definisco Psicologia sociale delle attitudini: lo studio di caratteri psicologici e neuropsicologici differenziali; cui dovrebbe seguire la formazione di gruppi per la valorizzazione di tali caratteri differenziali, soprattutto se minoritari. In rapporto all’introversione, l’attività dell’educatore, dello psicologo, dell’operatore sociale, dell’intellettuale tout court dovrebbe allora consistere non solo nel curarne la peculiarità sociologica nel colloquio duale, ma anche nel creare contatti e gruppi di solidarietà, di studio di sensibilizzazione, di difesa e valorizzazione di quest’attitudine psicologica minoritaria
(2, pp. 102—103)

In sostanza, a soluzione del problema dell’introversione come minoranza psicologica trascurata o vessata, proponevo questi due progetti:

Primo progetto
la creazione di una nuova disciplina scientifica, che in 1 avevo definito genetica delle differenze neuropsicologiche individuali (p. 128), in 2 chiamavo psicologia sociale delle attitudini e che oggi, infine, per semplicità preferirei chiamare, in modo definitivo, Neuropsicologia delle differenze individuali.
Secondo progetto
La creazione di associazioni e gruppi di studio e di auto/mutuo per il sostegno psicologico e culturale della minoranza introversa e per l’informazione e la sensibilizzazione della società circa l’esistenza del problema.

Ebbene, mentre ignoro se la scienza che auspicavo sia in effetti nata, sono a conoscenza del fatto che sono sorte associazioni, gruppi di auto/mutuo aiuto, siti e forum sull’argomento. Di questa novità sono felice. Le idee circolano e, con esse, cresce e migliora l’intera società.

Nei confronti di queste lodevoli iniziative, che apprezzo e stimo, vorrei solo segnalare che per anni (dal 2003, anno della pubblicazione della voce “Introversione” sul mio primo sito Psicoterapia dialettica) alla voce “Introversione” digitata su Google compariva, in lingua italiana, solo il mio articolo a segnalare l’introversione non già come mera patologia, ma al contrario come tratto psicobiologico di grande ricchezza, anche se di altrettanto grande potenziale di rischio. Solo in seguito se ne sono aggiunti altri.

Un’ultima considerazione. I due progetti citati non devono far trascurare quello che è il progetto implicito di ogni presa di coscienza e quindi di ogni psicoterapia: il dovere etico, proprio di ciascun individuo, di realizzare se stesso in modo compiuto, nella propria più perfetta umanità, di sviluppare se stesso fino a realizzare una coscienza responsabile di sé e di quella parte di mondo che gli compete. La nostra difesa personale, estesa a difesa del mondo che amiamo, eviterà che si realizzi l’ingiustizia di una maggioranza in grado di determinare in termini peggiorativi il destino di una minoranza.

In questo senso, mi atterrei al principio espresso dal noto genetista Theodosius Dobzhansky, che implica in prima istanza che ciascuno sia messo in grado di sviluppare le sue potenzialità individuali:

È consigliabile, e persino indispensabile per una società che i possessori di abilità rare o insolite in certi campi siano indotti a prodigarsi per raggiungere in quei campi la perfezione. Di norma, ciò significa un addestramento più prolungato e difficoltoso di quello richiesto per occupazioni più comuni e più semplici [...]

Non si insisterà mai troppo sul fatto che lo scopo dell’uguaglianza umana non consiste nel rendere tutti uguali. Esattamente l’opposto: è il riconoscere che ciascun individuo è diverso da tutti gli altri, e che ogni persona ha il diritto di seguire la strada prescelta (a patto di non danneggiare altri).
(5, pp. 44—45)

Le mie attività al riguardo

“Ritratto di Ugolino Martelli”

Dell’introversione (dei numerosi disagi e dei tanti pregi correlati ad essa) mi occupo sia in sede di psicoterapia che di formazione culturale, individuale e di gruppo. Inoltre fornisco supervisioni a professionisti e a gruppi di studio e di auto mutuo aiuto. Lo faccio sia in studio che via Skype.

Vorrei inoltre aggiungere (si parva licet) che non pochi dei miei pazienti e collaboratori sono oggi scrittori, pittori, architetti, musicisti, attori, comunicatori, film-maker ecc. oltre che, ovviamente, psicologi, psicoterapeuti e counselor. Questo perché ho trattato l’introversione non solo nel senso della cura delle sue conseguenze dolorose, ma anche – e forse soprattutto – nel senso del “risveglio” delle sue risorse intrinseche, del “talento” personale ivi celato, favorendo in tal modo la formazione di quella “minoranza creativa” che è, in ogni epoca, il vero motore delle innovazioni culturali e ideali.


Bibliografia

  1. Nicola Ghezzani, Volersi male, Franco Angeli, Milano, 2002.
  2. Nicola Ghezzani, Crescere in un mondo malato, Franco Angeli, Milano, 2004.
  3. Nicola Ghezzani, La logica dell’ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.
  4. Nicola Ghezzani, A viso aperto, Franco Angeli, Milano, 2009.
  5. Theodosius Dobzhansky, Diversità genetica e uguaglianza umana, Einaudi, Torino, 1975.