Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

L’autostima

Che cosa è, come la si perde, come la si riconquista

Che cosa è l’autostima e come funziona

L’autostima consiste nell’opinione che abbiamo di noi stessi, nel giudizio di valore che diamo circa la nostra identità.

Il termine stima nasce in contesti sociali di valutazione, nei quali occorre adoperare delle unità di misura per differenziare oggetti e persone, conferendo loro uno specifico valore. Si stima il peso di una merce o il suo valore; allo stesso modo si stima un essere umano, se ne stabilisce il valore. La valutazione, la stima, può dunque essere indirizzata da noi a noi stessi, e può essere più o meno alta, più o meno positiva.

Come è intuibile, l’autostima non presenta giudizi costanti in nessun essere umano e subisce variazioni nella stessa misura in cui variano gli “umori” – le emozioni e i sentimenti – soggettivi. La sua variabilità dipende da fattori emotivi interni alla soggettività, i quali tuttavia sono sempre influenzati da fattori esterni.

Le circostanze sociali che attivano la nostra autostima – circostanze presenti nella realtà effettiva o immaginaria – possono essere in apparenza normali e non di meno celare fattori più o meno visibili di stress, a causa dei quali l’angoscia di non essere all’altezza di una “prestazione” – affettiva, morale o intellettuale – da fornire a quel contesto diviene massima. Siamo di fronte a qualcuno o a una particolare situazione ed ecco che siamo stimolati a valutarci, a stimarci. Talvolta possiamo giudicarci male e quindi “crollare”.

La circostanza ha funzionato, in questo caso, come un attivatore e un amplificatore del giudizio negativo che ci portiamo dentro di noi come senso di autostima implicito e latente.

L’immagine di sé

Nel tempo, le ripetute esperienze di stima da parte di altri e di autostima in parte conseguente alle valutazioni altrui, in parte autonome, vanno a costituire una memoria dell’autostima più o meno positiva e negativa. Questa memoria influenza sempre il rapporto con noi stessi e quindi i nostri umori, giungendo ad essere il “filtro” di ogni nostra interazione con noi stessi e con gli altri.

È un alter ego la cui ombra ci accompagna sempre.

Il rapporto con questo alter ego è una delle imprese psicologiche più importanti della vita.

L’autostima nasce nel rapporto che l’io ha con se stesso, rapporto che genera questa memoria transazionale di sé e converge a fornire l’individuo di una specifica immagine di sé.

L’identità personale presuppone sempre una dualità: un io osservatore e un io osservato: dunque, un io sociale che giudica l’io personale, sia nei suoi atti nel mondo esterno che nei suoi più intimi pensieri. Quindi, l’immagine di sé deriva dal giudizio di valore che la parte osservante esprime nei confronti della parte osservata.

L’immagine di sé ha una formazione (una morfogenesi) “storica”, nel senso che deriva dalla memorizzazione delle esperienze attraversate nelle varie fasi della vita. E così come un genitore – o un caregiver in genere – osserva e giudica un bambino piccolo e poi un gruppo di coetanei tratta un giovane, includendolo, escludendolo o maltrattandolo, allo stesso modo una parte dell’io osserva, giudica e tratta il sé, quindi gestaltizza, forma l’immagine di sé.

In sintesi, dunque, l’autostima deriva, al suo livello minimo, dal rapporto fra una parte osservante, in cui si sintetizzano i giudizi memorizzati, e la parte osservata, ossia l’io che si muove sul teatro del mondo.

L’immagine di sé, generata dall’autostima, può essere più o meno confusa e più o meno positiva; inoltre, nonostante tenda, come ogni memoria, ad autoreplicare se stessa, può essere confermata o messa in crisi dalle relazioni sociali e dalle situazioni in atto.

Storia di Luciana

Luciana è una donna di quarantaquattro anni, intelligente, colta e molto bella, ma che nondimeno appare ai più una creatura antipatica, narcisista, rigida, aggressiva fino all’ostilità e molto chiusa e difesa, tanto che ha fallito tutte le relazioni sentimentali fin qui vissute e ha perso tutte le amicizie, fino a vivere in una solitudine rancorosa e depressiva.

L’antipatia di Luciana dipende dal fatto che non appena si trova in compagnia si sente a rischio di subire critiche insidiose che in fondo – anche se lo ammette malvolentieri – sente vere; sicché, per prevenire il temuto giudizio negativo, si arrocca nel mutismo o fa battute infelici e denigratorie. La relazione col mondo esterno è dunque la conseguenza diretta e, direi, fatale di una relazione intrapsichica negativa. Luciana è in realtà due in uno. E la parte osservante precede nei suoi giudizi qualunque giudizio esterno, rendendo pressoché impossibile una correzione dell’immagine di sé negativa mediante esperienze nuove e positive.

Il problema di Luciana nasce dall’aver interiorizzato una madre rigida e persecutoria, che ha svalutato le sue migliori caratteristiche sin dall’infanzia. La madre è stata una donna frustrata e depressa, sia per l’origine familiare nella quale la femmina era considerata un genere inferiore, sia per l’infelice matrimonio con un uomo colto e raffinato, ma vanitoso e donnaiolo, che l’ha tradita infinite volte per poi abbandonarla. Da giovane, dunque, al momento di generare e accudire Luciana, la madre era già affetta da una depressione dovuta al suo odiare la propria condizione: il proprio essere una femmina affidata all’uomo, dipendente dall’uomo e priva di potere sociale. Sicché, nata la figlia, detestò la bambina che non solo era un’altra femmina, ma per di più la rendeva madre.

Inoltre, mentre la bambina mostrava di essere sensibile, silenziosa e introversa, lei la percepiva piuttosto come debole, passiva, vinta. Cominciò allora a odiare le sue “inutili” attitudini (per esempio quella al disegno). Volle per contro che la figlia si educasse da subito ad essere bella, vistosa e altezzosa, quindi che si preparasse a “farsi pagare” dagli uomini, cioè a farsi ammirare, rispettare e ben sposare.

Quella con la quale la madre educava la figlia era una ben definita ideologia: il danno d’esser nata femmina poteva essere “corretto” dal disporre di freddezza e cinismo per la conquista di uomini adeguati, ossia ricchi e manipolabili. La vita di una femmina doveva essere mirata a questo. Essere carina non serviva a nulla se non valeva a attirare i maschi; essere silenziosa era dannoso se non costituiva un fascino aggiuntivo; l’attitudine estetica aveva senso solo se intesa a ben truccarsi e ben vestirsi, in un regime di concorrenza con le altre femmine. La madre stessa ci teneva moltissimo ad essere vistosa e iperformale (una snob) ostentando una sensibilità che nel rapporto con la figlia, nella sostanza rozzo e persecutorio, era del tutto assente. E poiché Luciana, sin da bambina, appariva il suo opposto, la denigrò nelle sue caratteristiche originarie (la mitezza, la timidezza, la vulnerabilità, l’amore non condizionato per gli altri) e la spinse ad essere forte e competitiva, insensibile e esigente anche con se stessa, ottenendo di aumentarne l’insicurezza e la bassa autostima.

La malattia

Divenuta adulta, Luciana si sente sempre sotto esame e insicura. In piscina, per esempio, si vergogna di qualche chilo di troppo. Si vede, si giudica “grassa”, cioè passiva, debole, negativa (rivede l’antica bambina odiosa – perché odiata dalla madre – incapace di controllarsi e di essere “vincente”). L’opinione di sé è pessima. Le sue abitudini purtroppo la incrementano. Luciana infatti non ha potuto coltivare la sua intelligenza e le sue notevoli attitudini culturali, vissute sempre da lei stessa con diffidenza (potevano renderla “noiosa” agli uomini); sicché non legge quasi mai, se non banali libri di psicologia intesi a modificare i suoi “difetti” e renderla “competitiva” (la cultura adoperata per la mente più o meno come la chirurgia estetica per il corpo); non va a teatro o al cinema se non per farsi vedere “in società” (l’incontro sociale adoperato come vetrina per il corpo); frequenta gruppi yoga e naturisti e psicologi e counselor al solo scopo di “modificare i propri difetti caratteriali e le strategie perdenti e trovare un uomo”. In sostanza è una donna ignorante e ansiosa, che passa gran parte del suo tempo libero di fronte al televisore, dove trova confermati i modelli più superficiali di successo, ricavandone ulteriore depressione.

Per gran parte della sua vita Luciana ha mantenuto fra sé e sé la relazione giudicante negativa, e infatti è divenuta sin da ragazza una persona risentita depressa. Ma, poco prima di averla conosciuta io, anziché continuare a sentire dentro di sé, come parte del sé, questo sé giudicante rivolto contro il suo potenziale originario, fa qualcosa di molto più insidioso: per soffrire di meno, proietta sulla gente il giudizio negativo su di sé (lo esteriorizza e lo generalizza) e proietta su figure maschili idealizzate l’ideale narcisistico (ossia ciò che vorrebbe essere), sicché, da una parte si sente sempre a rischio di essere maltratta dall’ambiente, da qualunque ambiente, dall’altra desidera un “uomo perfetto”, giovane, palestrato, ricco, cinico, di successo, che sappia difenderla dal giudizio del mondo che sente univocamente negativo.

Dopo qualche insuccesso sia con gli uomini, che si sentono soffocare dalla sua dipendenza, sia sul lavoro, dove viene criticata per il suo isolazionismo e per la scarsa attitudine al sacrificio, sviluppa una psicosi paranoica. Il delirio – durante il quale si dice osservata e perseguitata da gente malevola – dura un paio di mesi; poi sfuma. Ma lascia una lunghissima scia depressiva. Io la ricevo all’avvio del delirio, la seguo nel decorso, poi la coinvolgo in una psicoterapia dialettica che la accompagna per circa due anni.

Esito della terapia

In terapia analizziamo le sue dinamiche più evidenti. Per esempio quella con gli uomini.

Con gli uomini Luciana nega la propria introversione idealizzando la possibilità di far innamorare un uomo “esteriore” e di successo, sicché l’eros è finalizzato alla conquista e al controllo di quest’uomo, anziché alla qualità della relazione, perché nella conquista e nel controllo Luciana innalza a oggetto amato il giudice interiore – quella persona “forte” che lei vorrebbe essere – e cerca di ingannarlo / addomesticarlo.

Ma nel tentare questa strategia Luciana si sente indegna due volte: primo perché si ammette debole, passiva e servile nei confronti dell’uomo; secondo perché falsa e ingannatrice: quindi fa delle gaffe, si rende goffa, si sabota (si sottomette e poi si ribella, fa la gattina e poi la tigre in gabbia ecc.), quindi si sconfigge e si condanna. E alla fine resta sempre sola.

Il mio lavoro di psicoterapia dialettica con lei è consistito, nelle sue linee essenziali, nel mostrarle le parti opposte della personalità: la parte giudicante e quella giudicata. Quindi, nel riportare la parte giudicante alla sua genesi storica (il rapporto con la madre e l’interiorizzazione di valori disparitari, aggressivi e competitivi, ad alto potenziale stressogeno e patogenetico) e la parte giudicata ai suoi caratteri originari: la sensibilità, l’introversione, l’iperdotazione nella bellezza fisica, nell’intelligenza estetica e nella creatività, tutti caratteri repressi dal giudizio negativo o comunque deviati verso fini utilitaristici, in drammatica contraddizione con il suo carattere psichico di base: la sensibilità.

Dopo circa un anno di lavoro, ogni rischio psicotico era scongiurato; dopo due anni, uscita dalla depressione e scoperta una nuova autostima, poté considerarsi guarita.

Un esempio di buona autostima

“La passeggiata” (1917—1918), olio su tela, di Marc Chagall.

Vorrei indicare come esempio di buon rapporto con se stessi la pittura di Marc Chagall, pittore ebreo russo divenuto francese di adozione. La pittura di Chagall è un esempio di buona relazione intrapsichica: egli esterna nella pittura il suo sé profondo: il paese d’origine, Vitebsk, l’umiltà ebraica contadina, le scene di una vita da villaggio di provincia, ma anche l’orrore dei pogrom, la tristezza della diaspora... Spicca fra tutti il tema dell’amore e della fedeltà per la moglie, il tutto con verità, trasparenza, senza finzione e vergogna, senza odio per i nemici, direi con amore verso la vita.


Consigli bibliografici

Per capire più a fondo la psicodinamica dell’autostima e dei suoi crolli depressivi, sia su un piano teorico che attraverso storie cliniche: Nicola Ghezzani, Volersi male, Franco Angeli e sempre di Nicola Ghezzani La logica dell’ansia e A viso aperto. Per capire in modo documentato come i codici di competizione contemporanei inducano dipendenza e ansia da prestazione: Oliver James, Il capitalista egoista, Codice edizioni. Per informarsi su quanto sia potente la persuasione occulta circa i trattamenti di bellezza nel mondo contemporaneo: Laura Bruzzaniti, Il trucco della bellezza, Nuovi Mondi editore.