Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

La depressione

Definizione

La depressione è un malessere totale, che pervade l’intero campo della personalità soggettiva. Il depresso sente – talvolta con angoscia, talaltra con gelida disperazione – l’irrimediabile negatività della vita. Tutto è perso, non c’è più nulla da fare, meglio sarebbe se la vita terminasse. Di solito il sintomo depressivo genera nella coscienza soggettiva una tetra e opaca confusione. Ma basta che il terapeuta o l’amico interroghino e lascino il paziente e l’amico parlare liberamente per rendersi conto che al di sotto di questo velo ottenebrante i pensieri hanno una certa chiarezza.

“Angoscia”

Ed ecco che il rendiconto depressivo viene alla luce. In alcuni casi il sentimento di negatività riguarda la propria singola esistenza personale: allora il depresso è schiacciato da sentimenti persecutori di esclusione, minorità, inferiorità, indegnità, colpevolezza. Di fronte al mondo che continua a vivere e ad essere felice, egli si sente un essere infetto, immondo, macchiato da una colpa insopportabile: si sente cattivo, oppure un traditore della fiducia altrui, o un inetto, un incapace, oppure un malato, qualcuno comunque che dovrebbe scomparire dalla faccia della terra. Il pensiero di se stesso, di ciò che lui è in modo intrinseco o per qualche caratteristica acquisita, lo annienta. Il peso della propria auto-definizione diventa insostenibile. In altri casi, è la vita stessa, la vita di tutti, ad essere avvertita come impossibile; e allora ogni aspetto dell’esistenza appare negativo: il mondo viene avvertito come un luogo torbido e immorale di bassezze e di cattiverie, oppure è una landa desolata e viene percepito nel suo complesso sotto la luce nera di una vera e propria metafisica del dolore e del male. Nei casi più annichilenti, la vita intera è un gioco assurdo e perverso, totalmente privo di senso; l’individuo si sente isolato da tutto e da tutti e sospeso su un vuoto assoluto. Tutto appare terribile, e, soprattutto, irrimediabile. In questa tipologia depressiva, non c’è alcuna luce, nemmeno nella vita degli altri.

Quando è depresso, l’individuo oscilla fra stati di ansia catastrofica, in cui tutto sta per essere perso, e stati di depressione cupa, nella quale ci si abbandona a corpo morto e tutto appare infine senza rimedio. Qualche volta, quando lo spirito non è del tutto domato, si affronta la depressione come una belva in gabbia, cioè con ossessivi pensieri di liberazione mediante suicidio. Molti dei suicidi che pare sorgano da una sfida eccitata e maniacale nei confronti della realtà fanno capo a vissuti gravemente depressivi.

Cenni storici

Quella che noi oggi chiamiamo genericamente depressione, al tempo della medicina greco-romana, la medicina ippocratica, andava sotto il poetico nome di melancolia, poi latinizzato col termine melanconia. La parola derivava dal greco, dalla composizione di mélan e cholè, da mélas (neutro: mélan) e cholè, ossia “nero” e “bile”, e dunque “umore nero” o – come si diceva un tempo – “atra bile”.

Ciò che per noi oggi ha valore di metafora – l’essere di “umore nero” – rappresentava nelle epoche classiche una nozione di tipo scientifico. La melanconia veniva, infatti, attribuita ad una discrasia, cioè ad uno squilibrio degli umori i cui flussi si riteneva regolassero le emozioni e il rapporto dell’individuo col mondo. Si parlava pertanto di “umore nero”, nel senso della circolazione nell’organismo di una bile nera o atrabile, il cui stato, fluttuante dal ghiacciato al bollente, produceva lo squilibrio del melanconico (la melanconia, divenuta poi malinconia per assonanza e analogia con il termine e il concetto di “male”).

Nell’antica concezione psicosomatica – non genetica – della melanconia era già presente il nocciolo della teoria dialettica. Come osserva un noto neurobiologo contemporaneo, Jean-Didier Vincent:

il ruolo della bile nera nella genesi di una affezione mentale fornisce il primo esempio di relazione causale fra un disordine psichico e un’anomalia psichica

ossia fra uno squilibrio biochimico e una affezione della psiche (1, pag. 21).

È quanto meno singolare il fatto che nozioni di una certa epoca, apparentemente non scientifiche o classificate da un’epoca successiva come mere superstizioni, possano poi, nel corso dei secoli, rivelare un nocciolo di verità. Per almeno un secolo la psichiatria ottocentesca si è ossessionata sul concetto di “degenerazione nervosa”, intendendo con questa definizione uno stato degenerativo irreversibile dei tessuti nervosi, a partire dai neuroni. Questa concezione “organicistica” (che sottintende che in ogni patologia psichica la malattia sia dell’organo, quindi che esista una anomalia biologica intrinseca) ha portato a “illusioni scientifiche” come quella di rinvenire prima o poi il “virus” della schizofrenia o, oggi, il gene, o il sistema poligenico, implicati in tutte le disfunzioni psicologiche. Al contrario, la seconda metà del Novecento appare impegnata nel recupero dell’antica nozione di “umori”, i cui equilibri e squilibri starebbero, in quest’ottica, alla base sia della psicogenesi delle emozioni che della psicopatologia. In neurobiologia, in effetti, si parla di ormoni e neuro-trasmettitori dalla cui dinamica derivano sia gli stati emotivi di base, sia le fluttuazioni e le discontinuità dei “cicli umorali”.

L’ipotesi che alla base della depressione vi sia una alterazione psicosomatica, cioè che gli stati dell’umore derivino da squilibri biochimici cerebrali, è avvalorata dalle ricerche scientifiche; ma è suscettibile di due diverse interpretazioni. Alcuni studiosi individuano le cause del disturbo in una base genetica malata; ma se ciò fosse vero occorrerebbe spiegare come mai il 20, 30 percento della popolazione presenterebbe alterazioni patologiche del DNA, una proporzione inaudita per qualunque altra malattia umana. Altri, tra cui io stesso, abbracciano un’ipotesi dialettica, ossia che squilibri di carattere emotivo psicologico più o meno antichi e più o meno transitori possano alterare i flussi biochimici e i circuiti neuronali, i quali sarebbero sì alterati – come dimostrano le analisi mediche e strumentali – ma non in modo intrinseco e irreversibile. Dal punto di vista dialettico, prima viene il vissuto psicologico alterato, poi questo vissuto altera pian piano la struttura biochimica e delle reti neurali. Cioè il soggetto non nasce depresso, ma lo diventa col tempo.

Lo statuto biologico della depressione

La nozione di squilibrio umorale implica una dialettica fra mente e corpo che consente di formulare, a proposito della depressione, una ricca ipotesi psicogenetica.

Prima fase
eventi negativi inducono emozioni che sono stati psicosomatici complessi, costituiti simultaneamente
  1. nella coscienza: da un sentimento e
  2. nel corpo: da fenomeni biochimici.
Seconda fase
tali eventi sono trattenuti nella memoria come struttura neurologica, coi flussi biochimici correlati.
Terza fase
la memoria mantiene costante l’emozione dolorosa, per scopi inerenti la struttura della personalità (sensi di colpa, di condivisione del dolore, bisogni auto-punitivi ecc.).

È dunque possibile concepire e dimostrare in termini scientifici che la genesi della depressione, come anche della ciclicità maniaco-depressiva, risiede in una causa psicologica negativa, conservata nella memoria e utilizzata per mantenere attivi processi dolorifici di tipo biologico.

La depressione e il senso di colpa

Come ho mostrato nel mio libro Volersi male (2), ho verificato ormai infinite volte che la depressione coincide con un’intima “volontà” soggettiva di mantenere stabilmente l’io in una condizione di sottomissione e di dolore, che annulli il bisogno naturale di vivere nella libertà, nella gioia e nel piacere. In sostanza, la depressione è un inconscio e feroce attacco autopunitivo. L’io vivente del soggetto depresso è giudicato dal suo stesso inconscio come carente o colpevole, e come tale condannato ad un lenta morte per auto-soppressione.

Detto in termini psicodinamici, c’è un Super-io, cioè una coscienza morale, che attacca con continue denigrazioni e svalutazioni l’Io soggettivo, per colpe vere o presunte.

Ciò può accadere per via di sensi di colpa espliciti o sottili e impliciti: colpa nei confronti di qualcuno o qualcosa di cui si è violata l’esistenza, o nei confronti dei quali non si è nel diritto di condurre una vita felice; o colpa nei confronti di ideali che si sarebbero dovuti raggiungere e invece sono stati “traditi”. La depressione, in questo senso, si rivela come una vera e propria “malattia morale”, interamente vissuta sul piano del giudizio. Spesso il soggetto depresso sente di aver tradito un ideale sociale, per esempio di non essere stato all’altezza delle aspettative dei genitori o sue stesse; altre volte di aver tenuto un atteggiamento rabbioso e distruttivo verso persone altrimenti amate; altre volte ancora, di essere deluso dalla vita e per questo di odiare il mondo, di provare invidia verso i più fortunati (o presunti tali), di essersi separato dal genere umano. E tutto questo gli si ritorce contro in termini di colpa, in un loop di rabbia e di punizione da cui non riesce più a uscire.

Esempi e cenni terapeutici

A livello giovanile, la depressione dipende spesso dall’idea di avere tradito le aspettative di qualcuno: dei genitori, degli insegnanti, del gruppo dei pari. Mentre un tempo il ragazzo la ragazza andavano in depressione perché tradivano la fiducia dei genitori, oggi più spesso sono coinvolti da insegnanti troppo esigenti o ancora più spesso dal gruppo dei pari che chiede l’assunzione di modelli che il giovane non riesce a incarnare. A questo livello, spesso la depressione è mascherata da comportamenti sfidanti, dall’assunzione di alcol o di droghe o da un sempre più diffuso autolesionismo fisico.

“Angelica”

Sempre in età giovanile, la depressione può dipendere anche da una mancata integrazione sociale. Il ragazzo o la ragazza non trovano il partner giusto, non riescono negli studi, non si integrano nel gruppo dei pari, stentano a individuare il percorso sociale da intraprendere.

Le depressioni dell’età adulta sono le più insidiose, perché possono cronicizzare. Riguardano l’intero assetto della personalità e il rapporto generico con l’intero mondo sociale. Tipico l’esempio del 50enne che perde il lavoro e non sa come riciclarsi. O del responsabile di una famiglia in difficoltà che, in rivolta contro le ingiustizie del mondo del lavoro, si rende impossibile continuare a lavorare e a mantenere la sua famiglia.

Altro esempio, meno diffuso, l’individuo sensibile – spesso un introverso riflessivo – che ha subito torti dalla vita e che reagisce ad essi con un confuso odio verso l’intera umanità. Questo odio gli viene imputato dal suo Super-Io come segno non della sua sensibilità, ma della sua indegnità, in un processo che lo può portare all’annichilimento.

Se non si smonta l’apparato accusatorio e la rabbia sepolta che lo alimenta, la depressione non cede nemmeno agli psicofarmaci. Questi possono dare un temporaneo sollievo e qualche volta mostrare la vita sotto una diversa angolazione. Ma se non sono efficaci – e lo sono sempre solo per caso, non per certezza matematica – allora occorre aumentarne i dosaggi o cambiarli, con effetti imprevedibili. Quindi, la depressione si cura sul piano non solo (e non tanto) farmacologico, quanto psicoterapeutico: innanzitutto analizzando gli ideali che il depresso si è posto, spesso irraggiungibili o comunque non realistici; quindi facendo emergere la rabbia repressa e il terribile senso di colpa associato; infine smontando l’attrezzatura ipercritica della sua coscienza morale. Tutti e tre i passaggi sono fondamentali; ma il secondo è il più importante. La depressione dipende sempre da rabbia sepolta, anche quando questo non appare alla coscienza. Può essere una rabbia molto antica e strutturata nella personalità; oppure riferita a eventi recenti. Di solito, quando sfugge alla coscienza, ciò dipende dalla sua antichità o da una rimozione che impedisce di ammetterla e di vederla.

Risolto il velo di tenebra, al di là della depressione si scoprirà che esiste un mondo nel quale la condanna alla mortificazione perpetua non solo non ha fondamento, ma era il frutto di una rabbia morale e di una conseguente autocritica esasperate, persino spietate; era il frutto di una guerra intestina non pacificata, che può risolversi nel flusso generale della vita. Insomma, se siamo individui sensibili e umani, ci possiamo liberare dagli altri solo attraverso gli altri, con loro, grazie alla condivisione dei beni e dei mali, non contro di loro. L’unica possibilità umana che abbiamo su questa terra è essere di aiuto reciproco, solidarizzare e presentare i nostri bisogni alla bontà dell’altrui comprensione. Se questo non si accetta, al soggetto non resta che infuriarsi, odiare, separarsi dagli altri, con l’effetto di precipitare nei sensi di colpa e nella depressione. Il depresso ha commesso l’errore di porsi con rabbia contro qualcuno in realtà amato o contro tutti; errore pagato con la separazione dagli altri (una profonda solitudine) e il senso di morte interiore (la condanna).

Vedere l’errore commesso è già cominciare a guarire.


Bibliografia

  1. Jean Didier Vincent, Biologia delle passioni, Einaudi, Torino, 1988.
  2. Nicola Ghezzani, Volersi male, Franco Angeli, Milano, 2002.