Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

La psicoterapia dialettica dell’ansia e delle fobie

L’ansia come reazione istintuale di base

Per comprendere appieno cos’è l’ansia (e l’attacco di panico, che dell’ansia è solo la massima espressione) occorre partire dal dato di fatto che si tratta di un’emozione iscritta nel nostro corredo neurobiologico naturale. Chiunque avrà visto un cane che rizza le orecchie nel percepire un rumore forte e indefinito. L’animale ha avvertito nella realtà esterna un segnale minaccioso, ma non riesce a identificarlo, quindi piuttosto che paura (reazione emotiva di risposta alla precisa individuazione di un pericolo) egli prova ansia: uno stato di allerta su un’area generica e indefinita di pericolo.

Copertina del libro “La logica dell’ansia” (2008), di Nicola Ghezzani

A questo livello l’ansia è la disposizione psicosomatica (perché il corpo reagire con la mente) in cui un organismo si pone per classificare un segnale che, a tutta prima, sembra indicare un pericolo. Un rumore improvviso, lo scuotimento di una sterpaglia, un gesto inconsulto di essere umano ed ecco che il cane rizza le orecchie, si immobilizza e resta in attesa oppure prende ad abbaiare in direzione della fonte del segnale. Il cane non sa affatto quale sia la “realtà” contro cui si sta impegnando, ma reagisce al segnale che indica la mera possibilità di un pericolo. In lui reagiscono all’istante sia il sistema nervoso autonomo (egli “scatta”) sia il sistema neuroendocrino (rilascia nell’organismo gli ormoni dell’allerta e dell’attivazione).

L’ansia è, dunque, in prima istanza, una paura differita, un’emozione che segnala all’organismo istintuale – tanto animale che umano – la presenza di segni di pericolo, di un pericolo, tuttavia, non ancora definito.

Assunta in questa sua manifestazione di base, l’ansia è un’emozione previsionale, nel senso che è parte di un processo neurofisiologico di previsione, quindi presuppone la capacità di valutare il futuro. L’animale “si prepara” ad affrontare una minaccia di cui ha, per ora, solo indizi vaghi.

“Suky”

Di quali pericoli può avere paura un animale? In linea di massima, direi che sono due.

Il primo è l’avvistamento di un predatore, sia di altra specie che conspecifico. Secondo la sua storia evolutiva l’unico predatore è di altra specie; ma per la sua storia sociale l’animale può “sapere” che anche il simile può diventargli nemico; per esempio, in situazioni di costrizione di branco e di sovraffollamento l’animale reagisce con lo stress.

Il secondo pericolo da cui può difendersi è la percezione di un imminente cataclisma naturale. In entrambi i casi, l’animale si predispone ad agire secondo le modalità difensive tipiche di ogni animale: o l’attacco, o – più spesso – la fuga.

Altra caratteristica di base: come ogni meccanismo istintuale, l’ansia è un’emozione aut-aut: nel senso che o c’è o non c’è, e quando c’è è inesorabile: manifesta tutto il suo repertorio di sintomi fino a raggiungere un acme, un punto di massima intensità a partire dal quale comincia la sua discesa.

L’ansia come fenomeno umano

Relativamente alle emozioni di base, l’uomo è un comune animale e, di fronte a un pericolo, reagisce allo stesso modo di ogni altro animale. Se individua il pericolo ha paura; se invece, pur avendone l’intuizione, non riesce a metterlo a fuoco, prova ansia. La memoria che in situazioni analoghe c’è stato pericolo effettivo lo mette in una condizione di stress, e meno riesce a capire di che natura sia il pericolo, più la sua reazione di stress è rilevante, col rischio di un sovra-eccitamento ansioso, o dell’esaurimento delle risorse di energia, quindi della inibizione depressiva, del crollo immunitari, del sopraggiungere di danni malattie organiche.

Esiste tuttavia una differenza fondamentale fra il mondo di un animale e quello di un essere umano, che gran parte degli studi clinici di tipo psichiatrico organicista e comportamentista non osservano. Essi sembrano uguali a chi adotta una posizione empirica ingenua; in realtà sono del tutto diversi.

Qual è questa differenza che separa in modo sostanziale il mondo di un essere umano da quello di un animale?

La differenza sta nel fatto che l’uomo vive immerso in un universo mentale rappresentato (composto di memoria, immaginazione e di segni e simboli che integrano il tessuto cognitivo), mentre l’animale vive perlopiù di schemi istintivi, ossia di memorie filogenetiche iscritte nel corpo, e di memorie soggettive di scarsa complessità.

La differenza è sostanziale, perché l’uomo vive in rapporto a oggetti mentali più di quanto non viva in rapporto a oggetti fisici – della cui esistenza oggettiva è pertanto sempre in parte possibile dubitare. Da ciò deriva, in rapporto all’ansia, una conseguenza di grande rilievo: l’uomo può vivere emozioni di allarme non solo in rapporto al (cosiddetto) mondo reale, ma anche – cosa impossibile per l’animale – in rapporto al mondo delle rappresentazioni mentali.

Un uomo, infatti, può provare ogni sorta di emozioni e sentimenti, quindi anche ansia, al solo ricordo di un’esperienza, oppure nell’immaginarla, e persino – e questo è fondamentale per capire il nostro discorso - qualora egli entri in contatto col simbolo di essa.

“Mistero e malinconia di una strada”

Un esempio. Un ragazzo si trova a passare per un via buia: ricorda di aver subito un giorno, nello stesso luogo, un’aggressione e prova ansia; oppure immagina che il buio di quel luogo sia favorevole a un’aggressione e prova ansia; o ancora in un corridoio illuminato e affollato passa accanto a una tenda nera (simbolo di ciò che può essere nascosto) e prova ansia. L’uomo dunque, unico fra gli animali, può vivere la paura di qualcosa che non è presente nel campo reale, ma è invece presente nel campo delle rappresentazioni mentali.

Da questo semplice fenomeno spesso psichiatri organicisti e psicologi comportamentisti deducono che il sintomo è neutro, nel senso che è una sorta di risposta a vuoto: manca l’oggetto reale di cui aver paura, dunque il sintomo riflette non già di un processo cognitivo bensì di una mera disfunzione neurologica (in essenza: è un sintomo “stupido”). In sostanza, secondo loro il ragazzo che prova ansia alla vista della tenda nera, oppure la ragazza che prova ansia non appena si trova su una vasta piazza cittadina, non stanno reagendo a un “simbolo” (nero = pericolo nascosto; piazza = libertà di agire); ma “esagerano” nella reazione di allarme perché il loro cervello ha un difetto meccanico e secerne i neurotrasmettitori sbagliati.

La teoria che ho elaborato, la psicoterapia dialettica, ha tutt’altro punto di vista. Nella mia concezione il sintomo è una reazione del tutto intelligente e funzionale, nel senso che l’ansia nasce dalla percezione (semmai non cosciente, ma attiva in modo inconscio) di una rappresentazione mentale della realtà. Forse è lo psichiatra a non possedere un intelletto all’altezza, ossia in grado di decriptare il processo di referenza simbolica che sta nel rapporto fra una rappresentazione e una cosa.

Detto in termini un po’ estremi: un uomo che non capisce le metafore non può capire un sintomo. Se uno psichiatra non capisce che “nero” è un colore ma è anche un simbolo – e lo è dall’alba dei tempi – che sta a indicare l’oscuro, il nascosto, il triste, il pericoloso (tanto che nella nostra cultura è associato alla morte e al lutto), e non capisce che “piazza” è un luogo fisico, ma è anche un simbolo di ampiezza, libertà, luogo di incontro e dibattito, allora può riconsegnare la sua laurea e fare il farmacista.

C’è però un’altra notevole differenza fra il mondo di un animale e quello di un essere umano. L’ulteriore caratteristica che fa divergere i due mondi è questa: l’uomo vive immerso in una complessa realtà sociale, l’animale poco o comunque – anche nel caso degli animali sociali – si tratta di un mondo privo del moltiplicatore costituito dai simboli. Quindi l’uomo può aver paura degli altri esseri umani e dei simboli che li rappresentano più di quanto in genere un cane ha paura di altri cani o un gatto di altri gatti. L’uomo può avere paura in rapporto ai ricordi, all’immaginazione o ai simboli del suo rapporto con gli altri esseri umani.

Quindi, ancora, le emozioni istintive di ansia da avvistamento di un predatore e di ansia da percezione di una catastrofe si colorano nell’uomo di una valenza umana: spesso l’uomo prova ansia all’intuizione che un altro essere umano o un gruppo o la società nel suo complesso possano rivelasi per lui come un predatore (cioè aggressivi e distruttivi) e comportare la catastrofe sua e/o delle persone amate.

In sintesi, l’ansia umana – soprattutto quella patologica – deriva, il più delle volte, da situazioni umane che l’individuo si raffigura nella sua mente come pericolose, in modo conscio o inconscio.

La pericolosità della situazione, per quanto varia nella sua fenomenologia, rimanda a un riflesso elementare: tutti i bambini privati di colpo del supporto di sostegno (umano o artificiale) reagiscono coi segni e con la chimica dell’ansia1. In tal senso, l’ansia a livello umano non fa altro che segnalare il pericolo in cui incorre il soggetto umano nel momento in cui teme di essere privato del legame di riferimento, sia esso il legame affettivo primario che il legame sociale di riferimento; e ciò per i motivi che mi accingo a spiegare.

L’ansia come fenomeno sociale

In alcuni tipi di ansia strutturata (fobia) la tesi sin qui avanzata è del tutto evidente. Pensiamo all’ansia sociale e, per fare un esempio, assumiamo di questa una variante molto comune: l’ansia da prestazione o da giudizio. L’individuo sociofobico ha paura di essere giudicato inadeguato, insufficiente o comunque negativo da un “tribunale” che egli si raffigura nella sua mente: il gruppo degli amici, il gruppo dei parenti, il superiore di grado in ufficio, il pubblico che ascolta una sua relazione... L’oggetto della fobia è l’annichilente sensazione di svelare una identità inadeguata al suo contesto sociale di riferimento.

Il gruppo giudicante è da lui avvertito come un potenziale predatore – un amico che mi priva del suo supporto e si rivela un nemico – e il momento in cui il gruppo lo giudicherà un individuo inetto e incapace sarà per lui una catastrofe psicologica e sociale. Da qui l’angoscia sociale.

Esistono però fobie che in apparenza sfuggono a questa classificazione. L’ipocondria esprime la paura ossessiva delle malattie e della morte; l’agorafobia indica la paura dello spazio aperto o vuoto: che c’entrano queste ansie con la realtà sociale?

In numerosi studi e in tutti i miei libri sull’argomento (vedi Percorso bibliografico, più avanti), ho mostrato che anche le fobie in apparenze più bizzarre rimandano alla paura di essere mal giudicati, condannati e penalizzati da coloro che per noi sono gli esseri umani più importanti. E ciò perché, più in profondità, esse rimandano sempre a un conflitto psicologico, più o meno cosciente, in rapporto al quale il soggetto teme di pensare o fare cose sbagliate dal punto di vista della sua identità morale e di essere perciò mal giudicato e, al limite, condannato e escluso dalle persone per lui importanti.

Faccio degli esempi. Un esempio di ipocondria, la paura di ammalare e morire. Un ragazzo vive con l’anziana madre in un regime di stretta simbiosi affettiva. Vorrebbe essere più libero e non condizionato dai rituali tipici delle persone anziane. Tuttavia allo stesso tempo vuol bene alla madre e vuole restare legato a lei. Nel momento in cui alla sua mente affiora l’idea che quando la madre morirà lui sarà libero, ecco che egli sviluppa l’angoscia di avere un tumore o un infarto in atto o di aver contratto l’AIDS nell’ultimo contatto sessuale avuto con una ragazza. La paura di perdere la madre e di perderla per suo stesso desiderio, lo porta a sentirsi minacciato della perdita del legame più importante e minacciato di condanna morale per il pensiero che ha osato formulare. La paura di ammalare, di soffrire e di morire ha ritorto contro di lui il pensiero distruttivo. A questo modo

  1. la madre è salva dal suo desiderio di morte;
  2. egli, intimorito, è di nuovo sotto il controllo del suo vecchio sistema morale, e torna ad essere il figlio devoto che è sempre stato.

Un altro esempio: un caso di agorafobia. Una donna vive in un regime di asservimento affettivo e pratico nei confronti della famiglia acquisita: passa gran parte del suo tempo a gestire le faccende domestiche, ma, più o meno nell’inconscio, se ne sente soffocata e offesa. Guidando la macchina, un giorno, ha la visione di perdere il controllo del veicolo e di investire e uccidere persone innocenti. Ne deduce la sua inaffidabilità. Da quel momento sviluppa la paura delle auto, della velocità e degli spazi aperti, che consentono movimento, corsa, velocità, libertà. L’agorafobia ha ottenuto, come già visto per il ragazzo con l’ipocondria, due risultati:

  1. i familiari sono salvi dall’aggressività della donna, perché
  2. la donna si è accusata di essere inaffidabile e pericolosa e si è messa sotto la tutela di persone ritenute “affidabili”.

Dunque la fobia ha segnalato al soggetto che la base della sua sicurezza era minacciata e lo era da lui stesso. Il ragazzo identifica la sua sicurezza nell’amore per la madre, la donna nella devozione alla famiglia. L’ansia ha segnalato loro che questa base sicura era minacciata, e che erano loro stessi, coi loro pensieri, a mettere a rischio l’equilibrio del sistema.

Il fobico ha dunque paura nel momento in cui vede minacciata la base della sua sicurezza (il “sistema” dentro il quale vive); e maggiormente ha paura se intuisce che è lui stesso, coi suoi desideri conflittuali, più o meno coscienti, a minacciare gli elementi di base della sua vita morale, affettiva o sociale. Egli prova paura e la paura inibisce e blocca la sua volontà, responsabile dell’attentato alla sicurezza.

In un senso lato e sempre più complesso quanto più il soggetto è adulto e capace di relazioni simboliche, l’ansia deriva dalla capacità di mettere in relazione intenzione soggettive (più o meno esplicite) e colpa, e quindi la colpa con la privazione per condanna sociale del supporto (la base sicura) su cui poggia l’edificio della sicurezza emotiva e dell’identità personali.

Per capire appieno il fattore simbolico intrinseco ad ogni fobia bisogna però padroneggiare il campo della metafora: il giovane che desidera la morte della madre può provare ansia al diretto pensiero di quella morte, ma anche ai momenti in cui egli è solo in casa, perché questi gli segnalano in modo differito il pensiero della solitudine, quindi della mancanza della madre. Allo stesso modo, egli potrà sviluppare una agorafobia e aver paura ogni volta che esce di casa da solo perché lo spazio aperto (il vuoto) e il suo procedere per le strade in perfetta solitudine gli suggeriscono in modo sempre più ampio e differito lo stesso concetto. Egualmente, se un giorno dovesse pensare al fatto che le persone anziane sono spesso soggette a morire di malattia, egli potrebbe sviluppare un’ipocondria attraverso il pensiero – ritorsivo – che lui stesso potrebbe morire molto prima della madre, e sviluppare allo stesso tempo una fobia per gli ospedali, i luoghi di degenza e magari gli aghi e altri strumenti medici.

Risulta ovvio, almeno a me, che più l’individuo è dotato di un’intensa emotività e allo stesso tempo di un ricco sistema di relazioni simboliche, più è facile che, da una parte, egli intuisca e individui le infinite conseguenze dei suoi pensieri e, dall’altra, che rischi di sviluppare un reticolo di fobie o di ossessioni contrassegnato dall’ansia.

La psicoterapia dialettica dell’ansia e delle fobie

Per porre un rimedio all’ansia patologica e alle fobie che si strutturano su di essa è allora necessario definire due o tre cose fondamentali:

  1. in cosa consiste la sicurezza di base di quell’individuo?
  2. Cosa sta minacciando quella sicurezza?
  3. Se l’attore della minaccia è lui stesso, di che natura è il conflitto che lo oppone alla sua base affettiva, sociale, valoriale?

In sintesi: per quali motivi egli ama e odia il sistema di valori e di certezze che lo sostiene come essere affettivo e sociale?

Fatta l’analisi di questi elementi, occorre allora trovare delle soluzioni nella forma della mediazione. La psicoterapia diventa allora una raffinata arte dialettica della mediazione.

Il ragazzo del primo esempio può separarsi dalla madre senza desiderarne la morte? La donna del secondo esempio può allentare la morsa dei doveri domestici o anche diventare un’attrice o una manager senza attaccare tutti i suoi legami?

In sostanza: è possibile essere liberi e allo stesso tempo non peccare di slealtà, non rinnegare gli elementi di fondo della propria intima umanità?

Si tratta, dunque, di porre delle mediazioni all’interno di un conflitto psicologico: il conflitto fra il bisogno affettivo, base della sicurezza psicologica di ogni individuo, e il bisogno egocentrico di autonomia personale.

Viviamo in un’epoca in cui questo conflitto è sempre più vivo: ogni individuo pretende per sé una chance in più di quelle che la vita ha concesso ai suoi genitori, vuole crescere al di sopra della propria classe di appartenenza, vuole sentirsi libero di muoversi fra diverse realtà sociali e morali, talvolta fino al perseguimento inflessibile del mito della libertà assoluta. Questa poderosa spinta motivazionale (alimentata dai miti sociali e dalla sempre più universale vergogna di impotenza) genera un’infinità di conflitti interiori e relazionali che esitano nelle due grandi psicopatologie del mondo contemporaneo: l’ansia patologica (col correlato attacco di panico) che è l’effetto della paura di perdere la propria base sicura; e la depressione, che è invece l’effetto del senso di colpa per l’idea di aver distrutto con le proprie mani quella base.

Il percorso di conquista di una libertà matura è lungo e difficile. Durante il cammino, più volte si può aver paura di eccedere nella trasgressione e nel conflitto (più o meno consci) e di conseguenza, per frenare questo rischio, si attivano sintomi anche intollerabili.

A questo livello, quando la sintomatologia è forte e franca, non v’è alcuna contraddizione nel fare uso di psicofarmaci – per placare l’intensità intollerabile della sofferenza – e allo stesso tempo lavorare per la presa di coscienza dei conflitti sottostanti al sintomo. Come allo stesso modo è legittimo non farne uso, purché si sia consapevoli che l’angoscia non sopita può essere estrema, senza requie e molto destabilizzante.

Il risultato da ottenere non è la semplice alterazione dello stato mentale in atto (cosa raggiungibile oggi con l’uso di adeguate sostanze chimiche e domani con la neuroingegneria), ma è piuttosto lo stabile cambiamento della struttura dell’io, cioè della abilità della coscienza a individuare e mediare i conflitti affettivi e valoriali che nascono all’interno della nostra personalità.

Alla fine è solo la coesione e l’attrezzatura della coscienza a determinare se un individuo sarà vittima dell’angoscia o della depressione o se invece sarà in grado di individuare per tempo i propri nuclei conflittuali gestendoli fino alla loro risoluzione.

Percorso bibliografico

La semplicità della tesi che ho sin qui esposto non deve trarre in inganno. Essa è il risultato di venticinque anni di ricerche effettuate all’interno di quella che oggi si chiama psicoterapia dialettica.

Nella mia opera scientifica ho documentato questa ricerca in molti libri; quelli che maggiormente interessano le dinamiche dell’ansia, dell’attacco di panico e della depressione sono quattro:

  • Uscire dal panico (1)
  • Volersi male (2)
  • La logica dell’ansia (3)
  • A viso aperto (4)


Note

  1. Candland D. K., The ontogeny of emotional behaviour, in 5; Miller N. E., Learning of visceral and glandular responses, in 7. Vedi anche 6. Come si sa questa è, in sintesi, la tesi anche di John Bowlby.

Bibliografia

  1. Nicola Ghezzani, Uscire dal panico, Franco Angeli, Milano, 2000.
  2. Nicola Ghezzani, Volersi male, Franco Angeli, Milano, 2002.
  3. Nicola Ghezzani, La logica dell’ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.
  4. Nicola Ghezzani, A viso aperto, Franco Angeli, Milano, 2009.
  5. Moltz H., The ontogeny of vertebrate behaviour, New York, 1971.
  6. Reynolds V. (1976), La biologia dell’azione umana, Mondadori, Milano, 1978.
  7. Science, CLXIII, 434, 1969.