Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

La vita scontrosa e suicida di Ernest Hemingway

Un padre e un figlio

Quanto conta nella vita di un individuo la morte di un genitore per suicidio?

Hemingway a pesca

Clarence Hemingway, padre di Ernest Hemingway, era un uomo depresso e un giorno si suicidò con la pistola del padre, una gloriosa Smith & Wesson. Lo fece in un momento particolare. Era il 1928 e si era alle soglie di quel fatidico 1929, l’anno della grande crisi finanziaria nella quale molti altri uomini – imprenditori falliti e lavoratoti disoccupati – si suicidarono a loro volta. In più erano accaduti eventi, nella sua vita, che lo avevano ferito e turbato. Il figlio Ernest lo aveva attaccato e denigrato più volte e la moglie Grace s’era messa a dipingere – abbandonando il remunerativo insegnamento della musica – lasciando per intero la responsabilità della numerosa famiglia sulle spalle di lui. Arrabbiato per questi voltafaccia e angosciato dalla crisi economica e dal crollo della sua antica posizione sociale, l’uomo non resse allo sconforto. Si era sentito da sempre un membro privilegiato di Oak Park, cittadina “aristocratica” dell’Illinois, e visse la decadenza della famiglia di cui si sentiva responsabile in uno stato d’animo ansioso e paranoide. E alla fine si sparò.

Ernest quando il padre si suicidò aveva 29 anni e, avendolo attaccato e poi abbandonato sin da ragazzo, visse sempre col dubbio di essere in parte responsabile della sua morte1. Nondimeno, visse ripetendone gli stessi errori. Impetuoso e orgoglioso, nonché ambizioso ed egoista, ebbe quattro mogli e tre figli per i quali indebitò ogni suo guadagno; in più dovette contribuire al mantenimento della madre, di due sorelle e un fratello, fino a ritrovarsi più volte sull’orlo del collasso economico e del crollo dell’autostima. Ma a questo dato oggettivo dovette aggiungersi un oscuro sentimento di colpa. La consapevolezza di possedere un talento straordinario, gli fece nascere in cuore uno smisurato orgoglio e questo a sua volta una fame di successo che lo portò a tradire innumerevoli legami d’amore e d’amicizia, come accadde con le mogli e con amici generosi e fidati. Ad ogni passo della sua vita, ci fu un tradimento. E questo la sua anima sensibile non poté non memorizzarlo. Egli era grande, orgoglioso e colpevole. L’angoscia di fallire – che lo assediò di continuo – faceva eco al bisogno inconscio di punire una vita vissuta all’insegna della smania di grandezza e della colpa.

Per quanto ripudiata, l’ombra del padre, orgoglioso e ferito, tornò così a incombere su di lui.

Una nota letteraria

C’è un bizzarro articolo di Carl Gustav Jung che suggerisce che la natura dei continenti modelli i tratti antropologici e fisiognomici degli individui. A dimostrare la sua tesi egli evoca l’americano medio che, dice, va perdendo vieppiù i caratteri europei originari per cedere pian piano non solo al tipo africano, con cui ha contatti sociali assidui, ma anche al tipo “indiano”, il tipo fisico e psicologico dei popoli americani autoctoni. Nel “bianco” americano, dice Jung, si riconosce la risata aperta e infantile del “negro” di origine africana, e la sua camminata “larga” e “dinoccolata”, ma anche la struttura fisica forte e audace del guerriero indiano nativo. Su un piano biologico si tratta di un’ipotesi priva di alcun riscontro scientifico, ma sul piano psicologico – e quindi antropologico – è del tutto verosimile. Gli ambienti naturali, modellati dall’uomo, modellano a loro volta gli esseri umani che vi nascono. Come il viso di una madre dà forma all’espressione facciale di un figlio. Memi culturali che si trasmettono da generazione in generazione e da individuo a individuo, piuttosto che geni biologici.

Aprendoci un varco fra Herman Melville il cui Moby Dick sembra una saga tragica nordeuropea e Henry James, i cui temi e la cui prosa echeggiano il grande romanzo inglese e francese del sette-ottocento, il padre originario della letteratura americana ci sembra essere Walt Whitman. Col suo Foglie d’erba Whitman disegna d’impeto un paesaggio neopagano che non ha eguali nella letteratura mondiale moderna. L’Uomo, e innanzitutto l’Io, troneggiano immersi in una vita e in una natura prodighe e benigne. Più del suo mentore R. W. Emerson, che è innanzitutto il filosofo stoico dell’accettazione dell’esistere, e di H. D. Thoreau che è in fondo, nonostante il suo ostentato individualismo, il profeta americano del socialismo utopico, Whitman è un guerriero e un mistico di una nuova religione, assorbita per osmosi dallo sciamanesimo indiano. Egli sembra confermare l’assunto junghiano che il continente americano arcaico abbia potuto forgiare la mente dei suoi figli. Ci sono in Whitman, nella sua opera, chiare tracce bibliche: Foglie d’erba è un lunghissimo Cantico dei cantici, ma in esso non domina la coppia innamorata, bensì l’Io trasceso nella natura e invaghito di se stesso. L’io solitario di un mistico guerriero indiano che conosce soltanto la visione maschile del mondo.

Per una incredibile e inaudita metempsicosi, in Whitman rinasce l’animismo dei nativi americani. Eroismo dell’Io e animismo della Natura – e del gesto “spontaneo” – che ritroviamo poi in tutti i grandi scrittori della linea letteraria americana più originale, da Mark Twain a Ernest Hemingway a William Faulkner fino a Jack Kerouac, che potremmo includere in una corrente del vitalismo virile americano separandoli dalla corrente, non meno importante e numerosa, del realismo sociale.

Ernest Hemingway nasce all’interno del blocco del vitalismo virile e ne è uno dei suoi maggiori esponenti. Anzi, nella coscienza popolare mondiale è senza dubbio il più ricordato: più di Mark Twain che resta uno scrittore americano; più di Jack Kerouac, la cui opera è ormai datata. In Hemingway rivivono i miti americani e nativo-americani della guerra, della caccia e della pesca, della solitudine fra uomini, della libertà individuale, della prova virile e della morte gloriosa. Ed è per la riedizione moderna di questi miti che il mondo lo ama e lo ricorda.

Una vita scontrosa

Con la sua famiglia, Ernest agì subito da duro. La ripudiò, in particolare il padre, di cui rifiutò il perbenismo classista e razzista tipico di Oak Park. Da bambino, Ernest amava giocare coi bambini indiani che vivevano a poche centinaia di metri dalla loro residenza, con palese e precoce sprezzo degli ammonimenti paterni. Da ragazzo, egli sentiva intrappolato il suo spirito arioso e libero e reagiva di conseguenza. Abbandonò tutti giovanissimo e si dedicò ad una “professione” che suscitava la perplessità, quando non l’aperto biasimo, dei genitori.

Questa durezza individualista e machista ritornò poi nel rapporto con le donne. Esemplare il rapporto con Hadley, la prima moglie e madre del primo figlio, che lui tradì con un’amica comune, Pauline, imposta in un singolare ménage à trois, noto a tutti gli amici. Ripetette la forma del triangolo sentimentale a danno di Pauline, divenuta sua moglie e madre di due figli, allorché volle come amante Jane Mason, in un regime di relazioni altrettanto scoperto. Jane, lasciata dopo che ebbe effettuato un goffo tentativo di suicidio, si vendicò. Fornì al suo psicoanalista, Lawrence Kuby, materiale per una ritratto psicologico e biografico che rappresentava Hemingway come un uomo tormentato dal rifiuto da parte delle donne (a cominciare dalla madre) e perciò condannato a strategie compensative: l’ideale dell’io da superuomo e la ricerca ossessiva del successo. Hemingway si sentì messo a nudo e attaccato; si sentì ferito e s’infuriò. Ma, in un certo qual modo, veniva ripagato della sua stessa moneta: sin da giovane aveva denigrato con la satira o il commento salace e malevolo amici fraterni e solidali come Gertrude Stein, John Dos Passos e Francis Scott Fitzgerald2.

Hemingway e Castro

Pur essendo stato da giovane un fiero e sarcastico anticomunista, da uomo maturo e di successo si guadagnò l’odio del governo americano per i suoi contatti “comunisti” – o forse solo “libertari” – con la Cuba di Castro. È probabile che nella Cuba comunista Hemingway mettesse in gioco il rancore nei confronti di uno Stato, gli Stati Uniti d’America, che pur magnificandosi come lo Stato più democratico del mondo, aveva sfruttato i reduci della prima guerra mondiale facendone manodopera disperata e a buon mercato (cosa della quale, in effetti, egli era stato diretto testimone). E rievocasse l’appassionata simpatia per i lealisti spagnoli, perlopiù comunisti, socialisti, anarchici e liberali di sinistra, declamata in pubblico al Carnegie Hall e detestata dall’establishment americano di destra. La diffidenza del governo nei suoi confronti fu tale che la CIA raccolse su di lui un corposo fascicolo di indagini mai del tutto archiviato.

Hemingway con il fucile

Con gli anni attaccò anche il suo stesso corpo, prodigiosamente forte, che era stato il basamento delle sue certezze. Nella sua smania di azione, lo espose a incidenti di ogni sorta, ricavandone stressanti malattie e dolori permanenti. Per placare i morsi della delusione morale e delle sofferenze fisiche, abusò di alcol e di farmaci.

Vinse il Nobel (nel 1954) grazie a una lunga carriera, ma soprattutto per quello smilzo capolavoro che è Il vecchio e il mare. Nel ritratto dell’anziano pescatore cubano la cui gloriosa preda – un pesce spada –, agganciata alla barca, viene divorata dagli squali nel viaggio di ritorno verso la costa, Hemingway fece un vivido ritratto della sua stessa anima. Indomito fino alla fine, si sentiva depredato – come il vecchio pescatore cubano – del suo denaro e del suo lavoro e roso dall’interno dal cancro della depressione.

Infine, a 62 anni si suicidò. Divenuto oppositivo in modo sistematico, il suo vitalismo libertario gli si ritorse contro nei termini della lotta dell’uno contro tutti, una guerra continua che lo gettò nella disperazione. In fondo, non seppe adattarsi né al quieto godimento del successo, né agli affetti, che pure aveva creato e moltiplicato. La delusione di essere nato in un mondo avido e superficiale, ma anche l’accumulo dei sensi di colpa per una vita spesa nel tradire ogni legame pur di affermare una inafferrabile libertà, lo portarono infine a spararsi con lo stesso fucile con cui un tempo aveva abbattuto le grandi belve africane.


Note

  1. Secondo una testimonianza di uno dei figli di Ernest, Gregory Hemingway, la rivoltella con la quale si uccise il nonno Clarence venne recapitata l’anno successivo a Parigi al giovane Ernest come regalo di compleanno: pensiero gentile di sua madre. Ho impiegato vent’anni a inghiottire la morte di mio padre, disse una volta lo scrittore, non riuscivo a considerarla come possibile.
  2. Nel dicembre del 1940, Scott Fitzgerald morì a soli 44 anni per un attacco cardiaco e, da allora, Ernest vide accentuarsi il suo antico timore della morte. Difficile non vedere in questo sintomo ipocondriaco il segno di un senso di colpa inconscio, che andava a sommarsi a quello già poderoso nei confronti del padre morto suicida.