Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Noia e angoscia claustrofobica

Una noia bestiale

La noia non è un’esperienza naturale: gli animali in natura non si annoiano mai, anche se in momenti di quiete possono dare – agli esseri umani – l’impressione di farlo. In realtà, si annoiano (soffrono di apatia) solo in condizioni di cattività, di prigionia, indotte dagli esseri umani. È facile osservarne i segni in quegli animali catturati e tenuti prigionieri negli zoo o nelle gabbie dei circhi. Appena catturati sono atterriti e rabbiosi; poi, non appena la prigionia si realizza, sviluppano strani comportamenti asociali: perdono le coordinate che avevano in natura, spesso si isolano e diventano aggressivi, molti perdono le capacità riproduttive. Infine, quando il tempo della prigionia si allunga all’infinito, essi si lasciano cadere in una condizione di apatia. A questo punto, hanno ormai superato la condizione dell’inquietudine rabbiosa e gravitano in una sorta di stanca abulia, di buia rassegnazione, nella quale hanno luogo sporadici e improvvisi comportamenti violenti: allora colpiscono il simile come in natura non accade praticamente mai; o, più spesso, mettono in atto veri e propri rituali di autolesionismo. E in quei momenti sembrano tragicamente umani.

Scimmia triste

La scimmia prigioniera di uno zoo che spidocchia il suo simile o se stessa fino ad asportare ampie porzioni di epidermide e a sanguinare ne è un esempio eclatante. A questo proposito, più che citare un noioso scritto scientifico avrei voglia di consigliare la lettura dello straordinario racconto di Kafka Una relazione per l’accademia. È il racconto di una relazione accademica che una scimmia divenuta un uomo tiene di fronte a un uditorio umano. Nella lezione (un racconto della sua vita) l’uomo-scimmia spiega che, per sfuggire alla prigionia impostale dagli uomini – dei volgari procacciatori di animali per circhi – decise di diventare a sua volta un essere umano. Si impegnò nel suo progetto e vi riuscì grazie ad una paziente e meticolosa imitazione: divenne un essere umano. Ma questa sua nuova condizione, umana e civilizzata, lungi dal renderlo più felice, lo rese ancora più consapevole della sua condizione di prigionia: comprese allora che gli esseri umani erano animali feriti e prigionieri, ma inconsapevoli di esserlo.

Il racconto di Kafka è una parodia della noia umana, cioè della condizione di restrizione in cui gli esseri umani vivono senza nemmeno rendersene conto. Noia bestiale, quella umana, cioè da schiavo, che in natura non ha alcun riscontro.

In natura l’animale si annoia solo quando la ferrea gerarchia del branco lo opprime (e allora per non scaricare violenza sui simili, che teme, cede all’autolesionismo). Ma anche questo è raro che avvenga se non per intervento di fattori estrinseci, fra i quali primeggia l’azione perturbatrice dell’uomo.

La noia umana

Quella della noia è invece un’esperienza tipica dell’essere umano. E vista la premessa fatta il perché è chiaro: l’uomo è l’unico animale che si imprigiona con le sue stesse mani, sia di fatto che in senso simbolico. L’uomo è l’unico animale che si imprigiona da sé sia nel senso che un altro essere umano può tenerlo prigioniero, sia nel senso – ai nostri fini ancor più importante – che costruisce rapporti sociali che lo obbligano in senso morale e perciò lo tediano.

Bambino annoiato

Chi non ha conosciuto la noia dell’infanzia? Il bambino costretto a restare chiuso in casa, o seduto al banco di scuola, nonostante il vivace desiderio di gioco e di avventura, assume una posa distratta, assente, ed entra in una condizione innaturale di ritiro e di apatia. Egli ha perso qualcosa di fondamentale: il sentimento della spontanea e gioiosa motricità, ad un tempo distruttiva e creativa. In sostanza, quel bambino ha perso la certezza del diritto naturale di esistere e di muoversi fra le persone, gli oggetti e i destini individuali, sconvolgendoli e modificandoli secondo le linee del proprio dinamismo e dei propri bisogni. Se al bambino viene carpito il sentimento naturale di questo diritto, e gli viene chiesto di adeguarsi passivamente – senza gioco e senza fantasia – all’ordine precostituito del mondo, quel bambino si intristisce, si avvilisce, si annoia. In tal modo viene introdotto in lui, che è un essere umano unico, completo, perfetto, il principio della mortificazione personale e della futilità di esistere.

La noia umana ha dunque le caratteristiche specifiche che le conferisce la natura dell’uomo, che è artificiale, cioè prodotta dalla relazione che gli individui hanno col mondo materiale e con i raggruppamenti sociali. Laddove l’uomo – per integrarsi con la natura o domarla, vincere le società concorrenti, e coesistere in modo funzionale – costruisce realtà sociali costrittive, ripetitive, obbliganti, anonime ciascun individuo inserito in quella rete sociale può avvertire con dolore e rabbia repressi i limiti che gli sono imposti, quindi può diventare apatico, abulico, demotivato. In una parola: si annoia.

L’angoscia claustrofobica

La noia non è soltanto un’emozione negativa; è anche un indice che segnala una larvata condizione psicopatologica. Infatti, la rete delle prescrizioni affettive e morali può essere tale da non dare al soggetto alcuna via d’uscita, con l’effetto di farlo sentire chiuso in uno spazio mentale angusto e opprimente. Il genitore influente può porre obblighi insopportabili, la famiglia può dare regole rigide e mortificanti, Il ruolo lavorativo può essere del tutto antitetico ai propri desideri e alle proprie attitudini, il mondo sociale può essere gretto e meschino... A questo punto, la noia si colora di una tonalità grave e introduce all’esperienza dell’angoscia claustrofobica: il sentimento di una prigionia inesplicabile e infinita.

L’angoscia claustrofobica è un sentimento complesso e scaturisce da un pensiero drammatico: il pensiero che la sottende è quello della riduzione dell’esistente a ciò che è reale in quel preciso istante e in quel preciso luogo. L’esperienza dell’angoscia claustrofobica coincide, dunque, con la scomparsa radicale della fantasia creativa sulle possibilità: fantasia che consente di dare alla realtà uno spessore e una prospettiva che la rendono solo una fra le possibili, non l’unica. La fantasia sulle possibilità consente una continua rielaborazione del passato, la percezione di molteplici aspetti del presente, l’intuizione della mutevole infinità di sviluppi ed esiti relativi al futuro. Quindi produce libertà, e rimette l’uomo a contatto con quel concetto di infinito che gli appartiene in modo intrinseco.

L’idea della scomparsa delle potenzialità ad essere libero e a proiettarsi in una dimensione virtualmente infinita produce un intollerabile senso di costrizione: l’io globale, che si riconosce sempre nella doppia esistenza di un’io reale e di un io virtuale, è ristretto nella gabbia della realtà presente. L’io reale, che si equilibra sempre mediante il contatto e il dialogo incessante con l’io virtuale – il suo gemello creativo – è costretto a vivere nella solitudine senza scampo del prigioniero.

Su un piano strutturale e dinamico, l’effetto di costrizione angosciosa della coscienza deriva dal fatto che l’io è definito da coordinate sociali, affettive e ideologiche che limitano al minimo le sue oscillazioni ed i suoi squilibri dinamici evolutivi, cioè la creatività soggettiva e l’ambito oggettivo delle possibilità. L’io, in sostanza, avverte più o meno coscientemente i limiti della propria identità, i limiti del suo stesso modo di essere, derivati dalla sua concreta relazione col mondo affettivo e morale, e ne soffre.

Se lavoro in una società nella quale svolgo una mansione inadatta alle mie attitudini, lo faccio dalle otto alle dieci ore al giorno e ho per di più un pessimo rapporto col mio superiore, che mi opprime e non mi stima, e non ho nemmeno sviluppato una adeguata rete di sostegno fatta di amicizie e di collaborazioni, non solo ho l’ovvia possibilità di annoiarmi, ma è più probabile che io provi disperazione e rabbia. Nondimeno, queste emozioni possono spaventarmi e quindi essere rimosse dall’orizzonte della mia coscienza. In questo caso, avverto un senso di limitazione e oppressione privo di comprensibilità, quindi avverto angoscia.

In questa struttura d’esperienza l’io è coerente con se stesso in grado massimo, ma questa coerenza è ottenuta attraverso la rimozione di bisogni intrinseci emergenti. Questi bisogni sono rappresentati nella psiche attraverso una scissione della coscienza, nella quale la parte dominante dell’io (Super-io) opprime e controlla l’altra (io alienato) e questa sente la sua rigida obbedienza come un limite e ne soffre; ma ciò nondimeno continua a limitarsi, ad essere coerente con se stessa, ponendo le basi del sentimento di illimitata oppressione, quindi di claustrazione e di angoscia.

Una invisibile condanna ai lavori forzati.

Una noia furiosa. La rabbia claustrofobica

Gli obblighi morali, affettivi e sociali possono allora gravare a tal punto che l’intera personalità si irrigidisce e perde vitalità. Si arriva così a quella condizione che Francesco Alberoni definisce di sovraccarico depressivo (1). Il sovraccarico depressivo si ha quando la rabbia conseguente al sentimento di oppressione e sopraffazione dell’intera rete affettiva e sociale non può esprimersi all’esterno, perché il senso morale lo impedisce, e viene deflessa contro l’io stesso. L’individuo è depresso perché semi-cosciente della sua schiavitù, ma allo stesso tempo prigioniero di un senso morale e di obblighi sociali che inibiscono ogni sua pur minima intenzione liberatoria. Egli è terrorizzato dai rischi di una sua ribellione, che immagina come una grave perdita di controllo sulla vita propria, dei propri cari e dei valori cui si è da sempre sottomesso, e reprime quindi ogni genuino atto di liberazione, proscrivendosi in tal modo salute, amore, gioia.

L’effetto di questa repressione è che non solo la sua vita privata ma il mondo intero gli appaiono ormai come una gabbia senza alcuna via d’uscita. L’angoscia claustrofobica avvolge come un’ombra funesta ogni istante della vita e lo accompagna in ogni luogo. Non può più sfuggirle.

“Stanza a New York”

Nella psicoterapia dialettica è perciò fondamentale cogliere dietro i paludamenti del tremore e dell’ansia la potenza repressa di una ribellione che sommuove le fondamenta dell’identità. Nei miei due libri dedicati all’ansia e alla sua terapia, Uscire dal panico (2) e La logica dell’ansia (3), descrivo in che modo l’ansia possa essere colta come effetto di ritorno della repressione delle istanze vitali e come possa essere risolta trasformando la rabbia inconscia in atti coerenti di emancipazione personale e liberazione del potenziale vitale.

La mia noia giovanile

Tra i diciotto e i diciannove anni io stesso fui pervaso da questo inquieto e opprimente sentimento: la noia, condita da sprazzi di angoscia claustrofobica. Non l’avevo mai conosciuta prima, tranne che in alcuni remoti istanti dell’infanzia, identificati come tali solo in seguito; la mia coscienza la ignorava del tutto. Dopo di allora, l’ho sperimentata solo in sporadiche occasioni, e l’ho sempre considerata come l’indice di un malessere psicologico, mai come un sentimento naturale, impegnandomi pertanto a superarla. Il punto di svolta nella sua risoluzione fu una di quelle intuizioni che definisco percezione dialettica.

Poiché la dialettica è il metodo razionale mediante il quale si interpreta la realtà secondo gruppi di antitesi dinamiche, la percezione dialettica è la capacità, innanzitutto intuitiva, di cogliere in un singolo problema la compresenza di due antitesi, di due realtà in conflitto l’una con l’altra.

Ricordo che all’età di tredici anni avevo già individuato dentro di me la presenza di due autentiche passioni: la pittura e la letteratura. Poiché – a causa della mia giovane età e della povertà culturale dell’ambiente – non riuscii a ottenere alcuno spazio di espressione, mi dedicai, con un misto di curiosità, speranza e protesta all’attività politica. Già dai quindici anni (era il 1968) partecipai attivamente alle occupazioni delle scuole e ai dibattiti politici.

In seguito, intorno ai diciotto anni, per diversi motivi mi ritirai dall’impegno. Sentendomi più maturo, ripresi il rapporto mai interrotto con l’arte. Ma ancora una volta non ottenni alcun sollievo, perché scoprii in lampi di amara rivelazione la povertà culturale della cittadina del Sud nella quale vivevo. Cominciai allora ad avvertire con crescente chiarezza la mia nascita in quel luogo come un fatto incidentale, una sorta di nascita “gnostica”, una “caduta” in un mondo che non cessava di suscitare in me sentimenti di estraneità e di ripulsa.

Avevo amici e amiche, ma nessuna “anima gemella”, nessun “fratello gemello” in cui rispecchiare la gioia delle mie attitudini e la radicalità dei miei sentimenti.

In realtà, avevo cominciato a desiderare di andar via per sempre, ma la cosa non m’era ancora del tutto chiara, l’idea non era stata ancora rischiarata dalla luce della coscienza. Essendo un’idea “ribelle”, era stata rimossa. Il mio io rimaneva coerente con se stesso, con gli affetti familiari e con l’impegno morale, assunto nel foro interno dell’anima, di non deludere con scelte radicali né i miei genitori né i più affezionati fra gli amici. Non di meno, in capo a pochi mesi la percezione dei motivi del disagio e la fantasia di fuga mi apparvero come una percezione dialettica irreversibile: avevo visto me e avevo visto il mondo intorno a me, nel nostro reciproco, dialettico contrasto.

Infine, con l’occasione dell’iscrizione all’università di Pisa, oggettivai questo desiderio e lo collocai nella realtà, riuscendo a giustificare e programmare la mia fuga e la mia emancipazione, che si completarono l’anno successivo quando, cambiando facoltà – da Medicina a Psicologia– approdai a Roma.

Avevo cioè diviso in due l’apparente unitarietà del problema “noia”: da una parte il mio io antitetico, ribelle, pervaso da bisogni emergenti di apertura sociale e culturale; dall’altra il mio io alienato, ancora adattato ad un ambiente sociale povero, estraneo alla mia vera natura. Risolsi il problema non tanto attaccando gli affetti, quanto spostando le coordinate della mia vita oggettiva e psicologica, cioè cambiando città e ambiente; cosa alla quale poté seguire anche un cambiamento interiore.

Solo pochi mesi prima avevo rappresentato il mio transito attraverso l’angoscia in una poesia. La riporto qui interamente.

Una poesia

La mia è stata un’adolescenza contesa fra esuberanza vitalistica e fasi di lunga e intensa introversione.

L’introversione, lungi dall’essere una malattia o una identità genetica incontrovertibile, era in me – come in chiunque – null’altro che il riflesso condizionato di una sensibilità ferita dalle circostanze. Il dolore e il risentimento per quel dolore invitavano il mio cuore a ritrarsi in un luogo nascosto dove poter battere a un ritmo tanto lento da raggiungere l’insensibilità.

Anziché vivere a stretto contatto col presente e col reale, avvertiti come angusti e soffocanti, il pensiero si proiettava fuori del tempo; o meglio: in un tempo infinito, il tempo delle musiche e delle letture, del contatto con archetipi dello spirito sopravvissuti alla morte degli individui che li avevano creati e di intere civiltà; il tempo dei sentimenti astratti dal contesto concreto e percepiti nella loro eternità.

Scrissi la poesia che segue al termine dell’adolescenza, a vent’anni, a commento dell’epoca che andava trascorrendo. Il tema è semplice: nell’estremo sforzo di liberarsi, la mia anima giunge a specchiarsi nello spazio illimitato del paesaggio, ma ciò non basta, perché ne avverte egualmente la dolorosa finitezza. Il mondo immediato non è più sufficiente.

Di poesie ne ho scritte nel corso degli anni alcune centinaia (non le ho mai contate). Solo una ventina di esse sono state pubblicate e lette. A questa che qui presento sono legato per il suo valore affettivo.

Se ha anche un valore letterario lo lascio decidere al lettore.

Adolescenza

Nei lunghi meriggi piovosi vedevo sfumare voragini
in quiete lontananze, ambiguo sentivo al mio fianco
il lento dissolvere del tempo in lievi ammanti di nebbie;
una fioca luce languiva in vaghi vegetali
come in verdi lagrime di giorni desolati.
Freddo scivolava un sospiro di vento
con pallide dita sul muto grano
già d’allora sfiorandomi un inquieto presagio.

Giallo come una folgore vedevo stagliarsi 
sui cieli convulsi l’enigma del dubbio
e come un’umile bestia il mio cuore contrarsi  
d’un tratto nell’ombra azzurrina delle fronde.
Sentivo l’anima struggersi 
in labirinti di pietra e d’agonia 
e salire dal fondo del cuore
l’immane dolore del mondo.
Moriva la luce del giorno, allora, 
davanti ai miei occhi socchiusi, in un rapido 
guizzo d’angoscia, e in un diluvio di malinconia.

15 settembre 1976

La noia sociale

Nel suo libro Anatomia della distruttività umana (4) lo psicoanalista socio-culturale Erich Fromm dà del fenomeno della noia più o meno la stessa spiegazione che gli do io. Secondo Fromm, la noia non è un sentimento naturale (come spesso viene giudicata dal senso comune), bensì un preciso e circoscritto indice di malessere psicologico. Con acume, egli descrive i tratti caratteriali della noia come “qualcosa di morto” che viene imposto all’ambiente:

Quando parliamo di un tipo noioso, intendiamo dire che è noioso come persona. In lui c’è qualcosa di morto, di spento, di non-interessante. Molti sarebbero pronti a riconoscere di essere annoiati, ben pochi ammetterebbero di essere noiosi1.

Nella società contemporanea – industriale e serializzata, cioè monotona e ripetitiva – quasi tutti sono annoiati; e una patologia comune – dunque una “patologia della normalità” – non viene avvertita. Per di più la noia “normale” generalmente non è conscia. La maggioranza delle persone riesce a trovare una certa compensazione partecipando a tutta una serie di attività che le impediscono di sentirsi consciamente annoiata.

Quando la noia minaccia di diventare conscia – cioè quando svariate ore al giorno passate a guadagnarsi da vivere con lavori ripetitivi e situazioni e persone opprimenti impongono il loro velo di oppressione mortale – si evita il pericolo di sentirsi prigionieri con attività distraenti e stordenti: sfuggire la riflessione, agire in modo compulsivo, pensare alla cura quotidiana della famiglia, bere, mangiare, guardare la televisione, correre in auto, frequentare party, impegnarsi in attività sessuali, assumere droghe, evadere su Internet. Alla fine il desiderio naturale di dormire ha il sopravvento e, se la noia non è mai stata captata dalla coscienza, la giornata si conclude positivamente. In tal senso si può affermare che uno dei principali obiettivi umani, oggi, è proprio “fuggire la noia”2.

La noia è, dunque, la prima intuizione degli effetti nefasti di una situazione sociale costrittiva quando questa è profondamente interiorizzata nel proprio io. L’io si “inertizza” e diviene apatico e atono, come un animale in cattività. Diviene cioè a-nonimo: un io privo di un’identità differenziata, e a-vocazionale: un io privo di un’intima, inconfondibile vocazione a essere una persona, una creazione psicologica e sociale irripetibile.

L’io nella condizione che presiede all’insorgenza della noia diviene, in sostanza, un burattino sociale. Burattino senza coscienza critica, senza autonomia di giudizio e di azione, perché posto nell’impossibilità di identificare altro che in sé stesso la radice della mancanza di senso e di desiderio. La coscienza, incapace di oggettivazione, di percezione dialettica, è ristretta nell’apatia. Non vede i limiti del mondo circostante e non sa oltrepassarli.

Infine, il trascendimento dei confini dell’io alienato e del suo mondo è la condizione necessaria perché l’io originario, l’io autentico, cominci a rivelarsi a se stesso.

La claustrofobia in sintesi

Etimologia

La parola claustrofobia viene dal latino claustrum, che significa chiuso, e dal greco fobos, che significa paura. La claustrofobia è dunque la paura di stare al chiuso, di essere e di sentirsi chiusi, oppressi, prigionieri.

Paura per niente irrazionale se si considera che tutto il campo della psicopatologia può essere ridotto a quest’unica, grave condizione patologica: l’angoscia d’essere prigioniero, immobilizzato in una situazione senza via d’uscita. Chi si trovi in una situazione del genere prima o poi sviluppa una malattia psicologica o fisica.

Il sintomo

Come ho argomentato nei miei due libri sull’argomento, Uscire dal panico e La logica dell’ansia, la paura claustrofobica è la reazione di angoscia che segue alla sensazione del soggetto di essere claustrato (cioè chiuso) all’interno di qualunque cosa evochi uno spazio senza via d’uscita o una situazione oppressiva irreversibile.

“11 a. m.”

La claustrazione, dunque, riguarda ogni percezione di chiusura all’interno di luoghi o oggetti fisici (ascensori, tunnel, stanze chiuse a chiave, sale affollate, autostrade, aerei in volo...), ma anche – e soprattutto – all’interno di situazioni affettive e sociali rigide e costrittive (obblighi affettivi e morali, legami senza via d’uscita, incontri inderogabili, esami, cerimonie, ritualità religiose o civiche, file in uffici pubblici, attese ai caselli autostradali, ecc.).

Il sentimento fobico si espande come un’epidemia virale da un certo ambito a tutti quelli che gli somigliano, con i quali ha cioè una relazione analogica.

Il sentimento di prigionia è determinato dunque dal fatto che l’io, l’individuo – per meglio dire la sua identità psicosomatica (corpo e mente) – per i più vari motivi avverte con sofferenza e angoscia di essere intrappolato da spazi, situazioni o persone in modo tale da non potersi mai più liberare.

La condizione di prigionia si correla sempre a ruoli che la rendono prescrittiva, obbligata. Pertanto si può affermare che

La claustrofobia è l’angoscia di essere prigionieri in un certo ruolo e che la follia o la morte che minacciano l’identità nella crisi panica sono in realtà desideri di distruggere attraverso una impulsiva perdita di controllo quel ruolo, amato e odiato allo stesso tempo.

La psicodinamica: la rabbia e il senso di colpa

Questo appena enunciato è un punto molto importante e di solito trascurato da ogni altra psicoterapia dell’ansia. Al sentimento di angoscia per la prigionia si accompagna sempre – in un processo perlopiù inconscio – una vera e propria rabbia eversiva (che accosta la claustrofobia alla paura di impazzire e di commettere crimini e più intimamente a quella di far del male a persone amate o di tradire e distruggere valori di riferimento).

A questo punto, attivandosi – in conseguenza della percezione somatica della rabbia – la paura dell’esclusione per indegnità (cattiveria, incontrollabilità, follia) l’intero processo può esitare nel panico, il quale provoca una immediata azione di fuga dallo stimolo attivatore primario.

Dunque, la claustrofobia si gioca per intero fra la polarità della paura di essere chiuso entro un inflessibile sistema di doveri e la paura di essere escluso dagli affetti e dalla società a causa della propria intima ribellione ad esso.

La psicoterapia dialettica

Da quanto precede seguono alcuni principi terapeutici relativamente semplici. Merito della mia disciplina l’averli formulati con semplicità e chiarezza.

  1. Innanzitutto si tratta di individuare la prima insorgenza del sintomo, che coincide sempre con una più o meno antica fase di conflitto affettivo misconosciuta e andata rimossa.
  2. Poi si tratta di capire come il soggetto gestisce le sue cariche di rabbia e di protesta, se e quanto sono consce, se, quanto e in che direzione sono cambiate rispetto ai primi episodi.
  3. Poi, individuare la relazione fondamentale che viene attaccata dalla rabbia e apprendere ad articolare questa rabbia, a darle un nuovo significato di ordine morale. Solo quando la rabbia sia stata capita, elaborata, articolata nel reale in forme dotate di senso e perciò costruttive, il processo di individuazione interrotto e fermo alle fasi primarie può riprendere.
  4. La guarigione è contrassegnata, sempre, da un senso estatico di liberazione e un entusiasmo gioioso e leggero che indicano il drenaggio e l’elaborazione della rabbia, la dissoluzione dei sensi di colpa, l’individuazione di una via maestra per la propria crescita umana.

Note

  1. 4, pag. 306.
  2. 4, pag. 307.

Bibliografia

  1. Francesco Alberoni, Genesi, Garzanti, Milano, 1989.
  2. Nicola Ghezzani, Uscire dal panico, Franco Angeli, Milano, 2000.
  3. Nicola Ghezzani, La logica dell’ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.
  4. Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1973.