Nicola Ghezzani

Foto di Nicola Ghezzani

Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Globalizzazione e difesa delle minoranze culturali

L’oblio del concetto di “razza”

Nell’ultimo secolo il concetto di “razza” è stato pesantemente criticato. Nella nostra breve memoria, esso è collegato al nazifascismo, che ne fece il caposaldo di un’ideologia di dominio schiavistico (con diritto di genocidio) della razza “superiore” nei confronti di tutte le altre. La critica nei confronti di quest’uso del concetto è stata dunque giusta e doverosa, perché doveva stabilire una distinzione politica fra il vecchio regime e il nuovo, sorto dalle ceneri della guerra. Non di meno, allo stesso tempo, essa ha comportato una rimozione culturale, perché ha finito per cancellare un oggetto di studio degno della migliore analisi storica e sociologica.

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Come ha ammesso lo stesso Claude Lévi-Strauss – il più “democratico” fra gli antropologi – l’idea di “razza” è stata per millenni un “operatore storico-sociale” adoperato da tutti i popoli della terra per definire se stessi e i propri caratteri differenziali rispetto agli altri. Per millenni, uno dei problemi più importanti che tutti i gruppi umani hanno dovuto porsi è stato quello di definire se stessi e dotarsi della convinzione ideologica necessaria per continuare a esistere. A questo scopo, hanno focalizzato e portato al massimo grado la propria “differenza” nei confronti degli altri popoli. Definirsi come “la razza” o come “il popolo” – gli unici, veri depositari dell’umanità e, come tali, gli unici, veri discendenti degli dei –, piuttosto che come una “etnia” o una “nazione” fra le tante, si è rivelata una strategia vincente. Quelli fra di loro che meglio riuscivano a definire la propria identità come unica, come la più preziosa fra tutte, e lo facevano sia in forma mitica che istituzionale, risultavano favoriti nella competizione antropologica per la sopravvivenza. Pensare se stessi come unici e irripetibili, i più degni di portare il nome di “esseri umani”, consentiva loro di muovere ogni più intima fibra di energia, individuale e collettiva, in funzione della competizione e della sopravvivenza.

Dunque, il concetto di “razza” non è stato usato per la prima volta dagli Inglesi o dai Francesi nelle loro colonie e nemmeno dai nazifascisti nel loro delirio megalomanico (come vorrebbe una certa ideologia europea, incline al nichilismo autodistruttivo). Quel concetto è stato adoperato in tutte le epoche e da tutti popoli della terra: dagli Ebrei, quando dovettero difendersi dalla moltitudine bellicosa dei popoli mediorientali e mediterranei; dai Greci, che chiamarono “barbari” i poco democratici popoli confinanti; dagli Arabi quando dovettero giustificare i rapimenti e il commercio come schiavi dei popoli africani incontrati durante e dopo la Jihad; dai cinesi quando disprezzano e temevano gli aggressivi Mongoli o quando ridussero in schiavitù i più deboli Manciuriani. Riflettere sul concetto di razza non è dunque rinnovare il razzismo, ma capire come si è mossa e si muove tuttora l’intera umanità. Per ovviare a questa lacuna sociologica, vorrei domandarmi in questo articolo se il concetto di razza non abbia ancora oggi un qualche utilizzo pragmatico e, di conseguenza, se non sia ancora oggi un oggetto degno di analisi da parte delle scienze sociali.

La fusione biologica della specie

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La ricerca genetica ha dimostrato che la specie homo è unica e interconnessa: da ché la riproduzione biologica fra individui di diverse etnie e diverse popolazioni è stata riconosciuta come possibile e persino auspicabile, si è altresì ammesso che la specie umana costituisce un’unità biologica coerente, dunque un’unica “razza”. Allo stesso tempo la paleoantropologia ha dimostrato la comune origine della specie, dunque di tutte le “razze”, in un unico luogo geografico, l’Africa, datandone l’apparizione intorno ai centocinquantamila anni fa. Comune origine e possibilità riproduttiva fra i diversi gruppi umani dimostrano che quello di razza è un concetto ingiustificabile su un piano biologico. Per essere chiari: il concetto di “razza” non ha alcun fondamento biologico.

Non di meno, sappiamo che è possibile operare una segregazione genica degli individui fino a produrre tipi somatici diversi. Le vecchie razze, di cui oggi si è rivelata la totale artificialità – sommariamente: la “bianca, “la “gialla”, la “nera”; scientificamente: la caucasica, la mongolica, l’africana – derivano da una millenaria segregazione genica dei rispettivi biotipi: gli africani in Africa, i mongolici in Asia, i caucasici nel medio oriente e in Europa. Nel corso della storia e in piccole aree geografiche questi biotipi sono venuti a contatto, ibridandosi fra loro e dando luogo a popolazioni meticce. Il mediterraneo, la Mesopotamia, la valle del Gange sono stati forse i primi luoghi dove s’è realizzata una prima, estesa apertura genetica. Ma ancor di più in America, lo schiavismo inglese, spagnolo e portoghese ha messo a contatto popoli europei del Nord e del Sud, popoli autoctoni americani (nel centro e nel Sud America) e popoli di origine africana, creando il più vasto meticciato della storia. La conseguenza è che oggi nel continente americano si sta realizzando il più immenso esperimento di fusione genetica mai visto da occhi umani, che coinvolge più di un miliardo di persone. (Esperimento, peraltro, perfettamente riuscito, come dimostrano la bellezza di questa nuova umanità e la varietà e ricchezza della cultura da essa generata).

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Mentre la separazione della prima unità umana – dall’Africa – è da considerarsi occasionale, separazione e segregazione per gruppi sono da considerarsi fenomeni culturali. Dunque quello di “razza” è un concetto nato per giustificare la pratica dell’isolamento genetico per gruppi.

Un concetto laico di “razzismo”

Dunque il concetto di razza è oggi superato? Direi di no. Nei confronti di questo termine di quello correlato di “razzismo” dovremmo avere una posizione più scientifica, quindi laica, moralmente neutra.

Per “razzismo” dovremmo intendere tutte quelle pratiche culturali, politiche e sociali mediante le quali un popolo persegue e ottiene la propria segregazione genetica rispetto agli altri popoli. Adoperato in questi termini, il concetto di razza è stato analizzato, nei suoi effetti pratici, da Michel Foucault e incluso nella categoria generale della “biopolitica”. Qualunque popolo che si rifiuti alla propria apertura al “mercato genetico”, nel quale si hanno scambi genici riproduttivi sulla base di criteri di valore universali, mette in atto una particolare forma di biopolitica e nello specifico fa pratica di razzismo.

Il rifiuto di aprirsi allo scambio genetico può avere motivazioni sia difensive che espansive. Il razzismo difensivo è tipico di tutti popoli a rischio di scomparsa, i quali, per difendere la propria identità e specificità, accentuano il significato culturale dei matrimoni endogamici.

Fotografia di Theodor Herzl

Razzismo – o nazionalismo – difensivo fu quello che portò Theodor Herzl, alla fine dell’Ottocento, a rinnovare la lingua ebraica ricavandola dai testi sacri e a fare opera diplomatica perché fosse possibile la creazione di uno Stato di Israele. Secondo la sua visione “profetica” (difficile chiamarla in altro modo, visti gli eventi che seguirono), lo Stato di Israele avrebbe dovuto accogliere tutti gli ebrei di Europa, ponendosi così a difesa di un popolo – caratterizzato più in senso etnico-religioso che biologico – esposto da sempre ad immensi massacri ovunque, ma soprattutto in Russia, in Polonia e in Germania. Allo stesso titolo andrebbe classificato come razzismo difensivo il segregazionismo genetico degli otto, nove milioni di ebrei di Israele che si sposano e si riproducono perlopiù secondo una rigida filiazione religiosa; segregazionismo resosi necessario dopo l’olocausto di sei milioni di ebrei da parte dei tedeschi e la minaccia di un nuovo olocausto da parte dell’islamismo radicale, che sta loro alle porte.

Razzismo difensivo è stato quello dei movimenti afroamericani – come quelli un tempo famosi dei “musulmani neri” o quello ancora più radicale di Louis Farrakhan – che hanno enfatizzato la purezza estetica ed etnica del tipo biologico africano per difendersi, secondo una logica speculare, dal razzismo imposto per secoli dai “bianchi” americani ai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. Per quanto in alcuni alcuni dei loro esponenti abbiano raggiunto toni di notevole violenza, non v’è dubbio che si sia trattato di un razzismo utile alla definizione di un orgoglio etnico della minoranza afroamericana e di suo un rilancio culturale.

Fotografia di Louis Farrakhan

Ma fanno oggi razzismo difensivo anche i popoli autoctoni dell’America del Nord (i cosiddetti “indiani”), i quali da pochi anni stanno tentando sia di recuperare le tradizioni ancestrali, sia di ripristinare una moderata endogamia, allo scopo di sottrarsi all’assimilazione forzata e alla scomparsa identitaria imposta loro, per due secoli, dai popoli anglosassoni e latini.

Ma accanto ad un razzismo difensivo (in qualche modo più “politicamente corretto”) esiste anche un razzismo espansionistico (talvolta anche aggressivo) di popoli affermati e potenti. Razzismo espansionistico, a tratti aggressivo, può essere definito oggi quello islamico. Il radicalismo islamico contemporaneo espande con molta energia la propria identità in due direzioni, all’interno e all’esterno. All’interno, negli stessi paesi islamici, impone una riproduzione intensiva delle famiglie e dei gruppi più tradizionalisti (come avviene, su diversa scala, anche in Israele), e agisce per espellere i popoli di diversa religione. All’esterno, nei paesi europei, da un lato promuove l’emigrazione di centinaia di migliaia di giovani maschi, dall’altro costringe le poche femmine nate in loco o emigratevi al seguito dei genitori a contrarre matrimoni rigorosamente endogamici, pena il boicottaggio familiare e la condanna alla violenza fisica, con l’esecuzione di vere e proprie condanne a morte.

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Esiste anche una biopolitica razziale cinese, meno “in punta di codice”, come quella islamica, ma non meno dura, legata com’è da un lato al militarismo, dall’altro alla continuità della tradizione. Nel senso del militarismo è sufficiente pensare alla “cinesizzazione” forzata del Tibet e della Mongolia, attuata manu militari, e alla conseguente riduzione in miseria e in schiavitù dei figli di quelle nazioni. Nel senso della tradizione, è sufficiente valutare che il flusso migratorio della popolazione cinese sfavorisce l’emigrazione di singoli individui e favorisce invece quella di vaste comunità familiari, allo scopo di impedire le coppie “miste” e promuovere, in terra straniera, i matrimoni endogamici.

Possiamo intendere tutte queste pratiche come razziste o, più semplicemente, razziali, nella misura in cui sono intese a chiudere il pool genetico di un popolo al fine di massimizzarne le sue possibilità di riproduzione, espansione biologica e antropologica e il suo successo nella competizione globale.

Politiche razziali e competizione globale

Per decenni è stato pensiero comune che in epoca di globalizzazione la biopolitica razziale sarebbe andata incontro a una progressiva riduzione, fino alla sua scomparsa. Nei fatti è accaduto il contrario. Il regime di feroce competizione economica instaurato su scala planetaria, ha fatto sì che i popoli riscoprissero il forte “valore aggiunto” costituito dal pensiero etnico-razziale.

La Cina fa del suo familismo e del suo sistema industriale e commerciale la chiave vincente sia della produzione interna che, soprattutto, della conquista di nuovi mercati. La Germania fa del suo essere un popolo omogeneo, pressoché mai ibridato con popolazioni straniere, e del suo essere sistema, la forza propulsiva della sua economia di produzione e di mercato. I paesi islamici, che non fanno conto di alcuna potenza industriale (salvo quella finanziaria che deriva ad alcuni di essi dal possesso del petrolio), fanno dell’espansione demografica il loro cavallo di battaglia, sia all’interno, dove le piazze vengono riempite da immense masse di giovani in rivolta, sia in Europa, dove gonfiano le periferie urbane facendo delle loro folle di emigrati una massa di manovra per innescare rivendicazioni locali in vista della creazione di un califfato esteso su tre continenti e regnante su più di un miliardo di persone. Gli stessi Stati Uniti ospitano al loro interno due “nazioni” distinte e con distinti interessi: una – l’abbiamo citata – è il melting pot – il “crogiolo” – razziale che, come in Brasile, ha creato, il più vasto e democratico meticciato del pianeta; l’altra è quella estesa ed omogenea nazione anglosassone che va dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, al Canada, all’Oceania.

Per contro, a fronte di queste vaste nazioni a forte politica espansiva, esistono nazioni sempre più deboli, alcune delle quali sfavorite dal fatto di non essere nemmeno consapevoli della loro attuale posizione di grave inferiorità.

Molte nazioni europee e l’Italia in modo particolare (che non hanno compreso la terribile sfida aperta con la globalizzazione) stentano a riconoscersi in ciò che sono diventate: gruppi etnici e culturali sempre più esigui, deboli e a rischio di estinzione. Come i popoli baltici, gli ucraini e i moldavi che furono “russificati” con la violenza in percentuali vicine al cinquanta per cento, come i tibetani e i mongoli sempre più massicciamente “cinesizzati”, allo stesso modo i popoli deboli europei (fra i quali l’Italia) rischiano il completo assorbimento da parte di popoli più forti, con la conseguente scomparsa dei loro caratteri culturali e sociali identitari.

Per quanto mi riguarda io sono dell’idea che la segregazione genetica in corso nel mondo, nata come reazione alla sempre più massiccia e turbolenta globalizzazione, impoverisca la specie umana sia in senso biologico che culturale. Personalmente, sono favorevole alla più ampia apertura di tutti i popoli del pianeta al mercato genetico e alla selezione biologica per valori universali, che l’estensione mondiale dell’area di scambio riproduttivo va rendendo possibile. Solo l’apertura e lo scambio genetico mondiale consentirebbero alla specie di riconoscersi come specie e di pensare e di lottare come un’unica entità concorde per la propria sopravvivenza su un pianeta che la competizione economica va spingendo in direzione di uno squilibrio ecologico sempre più grave. La società americana, sia nord che sudamericana, società meticcia su forti basi statuali democratiche, che impongono la parità fra i sessi e l’equilibrio fra le etnie, ci si pone dinnanzi come il modello più auspicabile.

Perché questa libera area di scambio genetico umano si possa materializzare dovrebbero realizzarsi alcune circostanze favorevoli: ne cito tre fra le più importanti.

“La nascita di Venere”

La prima circostanza riguarda la libertà femminile e la libera circolazione delle donne nella società mondiale globale. Se la libertà femminile e la libera circolazione delle donne fossero ovunque possibili, si verificherebbero un paio di conseguenze di enorme portata. Innanzitutto osserveremmo il decrescere del potere maschile generico, e più in particolare di quello sacerdotale dei culti religiosi più integralisti, il cui strumento primario di azione nella società è il controllo della popolazione femminile; poi, la diffusione di quel modello di bellezza che riconosce la donna come “sensibile”, “vulnerabile”, “graziosa”, ma anche intelligente e consapevole del proprio valore, che dall’Occidente moderno si è esteso a tutto il mondo, inglobando pian piano le variazioni che su esso hanno giocato ora la raffinata cultura giapponese e asiatica tout court, ora quella vitalista africana e afroamericana. In sintesi, la libertà della donna comporterebbe l’evoluzione dell’umanità in direzione di una crescita dell’armonia per gruppi, dell’equilibrio sociale e dell’attenzione alla preziosa unicità di ciascun individuo.

Un altro fondamentale fattore che renderebbe possibile la creazione di un libero scambio genetico fra i popoli potrebbe essere la riduzione del grado di diversità rivendicato dalle varie religioni e della loro conseguente volontà di prevale in quanto “verità rivelate”. Fintanto che i popoli del mondo, e in particolare quelli che condannano a morte i rei di apostasia, non vorranno definire i valori di una morale universale, il mondo resterà diviso fra popolazioni di culto diverso e costretto al conflitto permanente. Per contro, se le verità poste come assolute venissero diluite in una sapere spirituale o filosofico universale, lo scambio genetico fra i popoli risulterebbe immediatamente favorito.

Infine, un analogo discorso può essere fatto a proposito di quei regimi economici e politici che incrementano le differenze di ceto fra le varie classi sociali. Se queste differenze fossero diminuite o scoraggiate del tutto, i matrimoni fra individui di diverso ceto e di diverse popolazioni si moltiplicherebbero.

La mutazione globale è dunque possibile, non di meno è ancora molto improbabile. Troppe resistenze si oppongono alla libertà femminile in tutti i popoli e sotto diversi regimi economici e religiosi; troppe resistenze alla creazione di un sistema valoriale di base sufficientemente comune a tutta l’umanità; troppe resistenze alla riduzione dei privilegi sociali. La realtà che constatiamo a livello globale è che i popoli più aggressivi segregano le loro donne ed esercitano su di esse un controllo totale, al fine di conservare e laddove possibile espandere il potenziale biologico della propria etnia; le religioni più aggressive riaffermano in continuazione la validità assoluta dei propri principi e inneggiano, in modo più o meno esplicito, alla guerra di religione; i popoli privilegiati, e soprattutto quelli che sono giunti di recente al benessere, non mostrano la minima intenzione di condividere i loro privilegi. Anzi, più i popoli sono numerosi e potenti più mirano a battere la concorrenza, ad assimilarne la ricchezza e ad asservire ai propri fini i territori degli sconfitti e la loro forza lavoro. Da quanto si riesce a vedere, sembra che la guerra economica – portata avanti con ogni mezzo, anche violento – abbia sostituito lo strumento delle grandi guerre nazionali e mondiali. Solo a tratti è possibile intravedere in ordine diverso, nel quale si tenta di proporre nuove visioni dell’ordine globale.

In senso lato, si può affermare che chi segrega le donne, rivendica la verità assoluta della propria religione e difende il proprio status privilegiato resiste all’evoluzione della specie, che va in direzione della fusione del pool genetico universale e, forse, verso la creazione di nuove unità psicosociali. Non di meno, oggi come oggi, sembra sia l’intero mondo a voler resistere all’evoluzione umana: probabilmente perché le culture esistenti non sono all’altezza delle potenzialità intellettuali della specie umana, in larga parte latenti. La ricchezza intellettuale della specie si manifesta ancora in modo casuale, in rari e preziosi individui e in ancor più rari movimenti culturali.

Per ora, lo stato del mondo è tale che è consigliabile che ciascun popolo, se non vuole scomparire, faccia esercizio di analisi razionale e di un certo pragmatismo. Come studioso dei fenomeni sociali, mi limito a prendere atto che in quest’epoca di lotta cannibalica fra i popoli della terra, giocata sull’economia e sulla biologia (quindi sulla biopolitica), i popoli che ignoreranno la portata della competizione e della sfida globale scompariranno nel giro di pochi decenni e i loro figli saranno ridotti in schiavitù economica e culturale dai popoli vincenti. Con un immenso danno inferto non solo a tali popoli, ma all’economia globale della specie, impoverita di alcune fra le sue più ricche variazioni culturali e di alcuni fra i suoi figli più geniali.

Una carta per la difesa delle minoranze culturali

L’unica speranza che intravedo è che il processo di globalizzazione sia rallentato e monitorato da una sempre più attenta cultura universale.

La cultura universale dovrà dare al mondo l’opportunità di sviluppare una democrazia razziale che consenta la difesa dei popoli minoritari (fra cui l’Italia) a rischio di estinzione.

Isaac Bashevis Singer

La cultura universale esiste già in modo implicito ed ha già agito come tale. Per esempio, ha preservato almeno in parte il ricchissimo patrimonio letterario giapponese, sebbene nel suo complesso la cultura del sol levante, dopo aver subito la colonizzazione americana, tenda oggi a segnare ancor più gravi battute di arresto nei confronti della strapotente azione commerciale e culturale cinese. Ha realizzato una analoga opera di difesa nei confronti dell’immenso patrimonio musicale tedesco; ma non si può non ricordare che, per contro, ha lasciato perire gran parte della letteratura tedesca dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, rimossa e condannata all’estinzione. Allo stesso modo, ha difeso e salvato una cultura minoritaria come quella yiddish, nonostante l’assassinio di gran parte dei suoi membri, grazie al suo trapianto nella cultura ebraica planetaria e a premi sovranazionali come il Nobel alla letteratura conferito allo scrittore yiddish Isaac B. Singer.

Ebbene, nella linea di queste lodevoli iniziative con le quali si è evitata la scomparsa di porzioni rilevanti del patrimonio culturale universale e di lingue parlate da esigue minoranze, si dovrebbe istituire una carta dei diritti dei popoli a rischio di estinzione. In tale carta dovrebbero essere inclusi anche popoli fino a ieri considerati solidi e attivi, ma che i pessimi governi locali, le ideologie internazionaliste astratte e le minori potenzialità economiche confinano oggi nell’area dei popoli maggiormente a rischio.

“L’ultima cena”

L’Italia è fra le nazioni da considerare oggi minoritarie. L’abuso del suo territorio; la distruzione delle sue bellezze naturalistiche; lo stato di abbandono in cui versa il suo immenso patrimonio urbano, architettonico, museale e artistico; la deriva delle ideologie internazionaliste in una stanca rassegnazione nei confronti del dominio dei popoli stranieri; lo sconcertante abbassamento del grado di orgoglio nazionale; la creazione di una classe dirigente vessatrice e incolta; la distruzione mediante rapina fiscale dell’intero patrimonio d’impresa; la deriva culturale di vaste fasce della popolazione in direzione dell’opportunismo clientelare o della mera rassegnazione sono cause radicate di un drammatico e progressivo impoverimento della nazione.

La presa d’atto di questo singolare e tragico stato di cose – di un popolo di grandi tradizioni che si abbandona alla propria disfatta – deve spingerci a considerare quello italiano come un popolo minoritario, il cui straordinario apporto alla civiltà universale dovrebbe essere salvaguardato e protetto come una specie a rischio di estinzione.