1) Dieci anni dopo
Si ripubblica Le libere donne di Magliano; sono passati più di dieci anni dalla prima edizione. Il manicomio che fu scelto per occasionale teatro delle mie libere anime ancora si erge, monumentale bastione, nella pianura di Lucca.
Scrissi questo libro per dimostrare che anche i matti sono creature degne d’amore, il mio scopo fu ottenere che i malati fossero trattati meglio, meglio nutriti, meglio vestiti, si avesse maggiore sollecitudine per la loro vita spirituale, per la loro libertà. Non sottilizzai sulle parole, se era meglio chiamare l’istituto manicomio oppure ospedale psichiatrico, usai le parole più rapide, scrissi matti, come il popolo li chiama, invece di malati di mente. Correvo al mio scopo, tentai di richiamare l’attenzione dei sani su coloro che erano stati colpiti dalla follia.
Il ritmo del manicomio, dopo dieci anni, non è cambiato: la mattina alla solita ora, l’alba da poco sorta, si odono dalla mia finestra i passi del turno degli infermieri avviati alle loro case, stanchi per la veglia notturna; pochi minuti prima sullo stesso viale che conduce alla portineria superiore si era udito lo scherzoso vocio di coloro che entravano in servizio. L’ospedale si è aperto, ogni ora avrà la sua regolata vicenda.
Però il movimento, la novità, la grande novità, è dentro. Che cos’è? che cos’è stato? una rivoluzione? che cos’è tuttora? Dei giorni mi è sembrato di aver raggiunto quello che tante volte avevo acutamente desiderato, parlare con i malati, riprenderli, riagganciarli, portarli alla nostra verità, alla libertà nell’ordine, tra i dolci esseri umani.
Ci sono oggi delle pasticche, dei psicofarmaci, che hanno talmente cambiato i manicomi che in certi giorni addirittura non si riconoscono più, le urla sono taciute, i delirî rotti, le allucinazioni con i vetri affumicati. Ma dunque — delle volte mi dissi — quello che con il mio amico Cucchi una volta nelle corsie del manicomio di Bologna avevamo farneticato, che questo sarebbe stato il secolo della psichiatria, si è avverato?
Adesso accade che un uomo infuriato entra in manicomio e con poche pasticche, già il secondo o terzo giorno, si placa, fa come un tizzone immerso nell’acqua, che frigge e fuma, ma non più sfavilla l’incendio. E può accadere — non sempre, con discreta frequenza — che presto si ricostituisce, si stabilizza, ritorna ritto in piedi e esce come un uomo dal cancello dell’ospedale.
Questo è uno dei fortunati, che ha incontrato il suo preciso psicofarmaco. Ma altri, tanti altri, sulla soglia del manicomio, sembrano già guariti e non lo sono. Per questi il medico non imbroccò; ancora è tutto empirico. I psicofarmaci ebbero il potere di rompere le nebbie, non di purificare del tutto.
A questo punto ci vorrebbe l’aiuto da uomo a uomo, la psicoterapia, aggiungere ai psicofarmaci, che hanno portato sulla soglia, il nostro fraterno aiuto.
Io ho scritto in queste Libere donne com’era il manicomio dieci anni fa, quando i delirî urlavano, ho descritto le immagini, le furie, le depressioni, le ire, le ferocie, le aggressioni anche contro il proprio corpo.
E ora dunque, che cos’è successo? è una meravigliosa rivoluzione? una grande conquista del nostro tempo? L’oscuro e appassionato amore, il vilipeso sacrificio di tanti medici di manicomio che consumarono la vita in una speranza, in un folle tentativo, si è fatto verità?
Oggi succede che con alcune pasticche si riesce a parlare con i malati, si può spiegare loro cosa è successo, si può tentare di attenuare le nebbie che ancora fanno aureola intorno alle loro tempie. Ora sarebbe proprio il momento che anche i sani fossero consapevoli di quel che succede, e collaborassero e intervenissero — questi sani che a loro insaputa sono anch’essi fragili — per poter passare da uno stadio al successivo, dalle nebbie alla luce. E senza questo esterno aiuto sarà molto difficile si oltrepassi la soglia. Ora ci vorrebbero tanti più psichiatri, più infermieri specializzati, piú dedizione, più accuratezza, piú giornaliera pazienza, più denari, più denari, se è vero che i matti sono anch’essi creature degne d’amore, sono anch’essi cristiani. Se si pensa all’incontrario, allora lo si dichiari; si continui a tenere i pazzi in un oscuro antro, quasi abbandonato.
Ma, a ogni entusiasmo, come fanno le campane che gettano per le arcate suoni argentini o a martello, io in qualche giorno, lo confesso a mia colpa, a mia vergogna, a significare come noi umani siamo assaliti da troppi interrogativi, io in qualche giorno anche recente ho sentito gravare sull’ospedale un silenzio sospeso, come di vana attesa, come si fosse riusciti a portare i malati sulla soglia della nostra libertà, ma poi era tutto inutile, non si riusciva portarli francamente al di là, dar loro le ali, far battere tranquillo e sicuro il corso del loro pensiero. E rievocavo certe corsie dove i ricoverati avevano l’espressione lontana, i volti depositati tra le lenzuola come teste di bambola, addirittura a volte assomiglianti a nuotatori sott’acqua.
E allora, ormai nella china, ormai dirupando nel pessimismo, in quel cinismo che tanto è stato deleterio, tanto ha consunto le nostre fibre, mi sorgevano in ridda le veementi interrogazioni contro quel dominio chimico, contro le pasticche cariche del psicofarmaco, capaci di mettere un’altra camicia di forza, forse a nostra insaputa per i malati più dolorosa. E mi sorgeva la prima sferzante domanda: «Ma prima i malati, i folli, non erano più felici?». La pazzia è davvero una malattia? non è una delle misteriose e divine manifestazioni dell’uomo? Non esiste per caso una sublime felicità che noi chiamiamo patologica e superbamente rifiutiamo? Mi ricordavo, per esempio, quasi che un’immagine all’improvviso raggrumasse tanti anni di visioni manicomiali, mi ricordavo, vedevo davanti a me, la G., la marinara, che veniva da Viareggio, dalla darsena, dove abitava; entrava nel prato delle agitate e finalmente si sfogava, era lei, si dichiarava tutta, montava sugli alberi, cantava, agilissima, una corsara, un’eroina, tersa nei lineamenti arrossati, fuoco negli occhi, una bandiera di oppressi che infine si distende nella aperta luce, essa infine libera nel suo regno, nel manicomio.
E subito, all’opposto, mi si alzava allora il ricordo del malato R. che arrivò grondante di colpe, disperato: Sono io il colpevole, mi merito più della morte, frustatemi, seviziatemi, non c’è fantasia che possa servire a punire le mie ignominie
e continuò tutta la notte e il giorno dopo. Fu curato con i psicofarmaci, e miracolosamente il suo dolore morale perse le punte, i contorni, si fece sempre più come un blocchetto di ghiaccio su una mensa estiva. E il quarto giorno, come uno che dall’animo si è sgravato di un enorme peso, con che piangente grazia mi ringraziò.
E allora le mie vele, dopo l’insulsa bonaccia, riprendevano vento. Si doveva credere, la vita è sempre stata una battaglia, niente si conquista con la viltà, con l’ignavia, sempre c’è il pericolo, il rischio, ci sono le punte, le spine come l’ebbe la corona di Gesù. Il nostro dovere è stare attenti, acuti, sorvegliare noi stessi come i malati, non abbandonare alla deriva la nostra anima, che cosí tenteremo di salvare anche quella dei malati. Con lo stesso ardore dobbiamo essere armati di critica e di speranza, se no cambiamo mestiere e disputiamoci con volgare furbizia il commercio nel mercato.
E ora, se un piccolo potere ha la letteratura — e mi piacerebbe avere il diritto di dire la poesia — questo libro davvero si ripubblica per domandare ai sani se non sia giunto il tempo di aiutare chi è sulla soglia, in bilico se rientrare nel mondo o invece ripiombare nella caverna. Per i sani è giunto il momento di fare il loro dovere verso i folli. E, per aiutarli, è semplicemente necessario aumentare il numero dei medici, il numero degli infermieri specializzati, è necessario costruire piccoli ospedali per modo che ogni malato sia una persona e non un numero pressoché anonimo, è necessario e obbligatorio innanzitutto non dare soltanto il denaro ma partecipare, sorvegliare, criticare, appassionarsi a ogni passaggio di questa meravigliosa impresa contro la pazzia, la più misteriosa dea che esista nel mondo.
Ma ritorniamo alla nostra giornaliera realtà, alla nostra consuetudine: il ritmo esterno dell’ospedale, nonostante la grande novità che c’è dentro, è però sempre lo stesso; un nuovo cappuccino qualche sera ci tiene compagnia, due nuovi giovani medici si sono aggiunti ai vecchi, prossimi alla pensione, e anch’essi hanno cominciato a usurare la loro mente a contatto con la follia. Le stagioni si susseguono. Molte infermiere di dieci anni fa non ci sono più, altre ne sono venute, giovani spose. Nuovi delirî di nuove malate hanno sostituito quelli che la morte spense. In questi giorni di febbraio piove ininterrottamente, dalle finestre si vede la silenziosa campagna.
Adesso sono venticinque anni che vivo tra i matti e la notte sempre più me li sogno: volti che vicinissimi mi ridono spastiche risate, parole mi arrivano distinte eppure non riesco a decifrare se sono di derisione o di richiesta di aiuto, donne mi piangono davanti con i capelli disciolti e so che non ho nessuna possibilità di consolarle.
Mario Tobino, Le libere donne di Magliano (1963)