Nicola Ghezzani

Foto di Nicola Ghezzani

Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

L’ossessione della maternità

Non ogni donna ha un’attitudine alla maternità. Che esista un “istinto materno” in ogni singola donna è un arbitrio sociale. Per quasi tutti i popoli antichi la maternità era l’obbligo di pressoché ogni donna, di solito facilitato da modelli sacri: le dee madri. Rifiutare la maternità era dunque una colpa “civica” oltre che “religiosa”. Oggi, anche nell’Occidente moderno, da quando i valori del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo sono stati “naturalizzati” (cioè interpretati come “naturali”), si ritiene che l’impulso psicologico alla maternità risponda ad una norma biologica, cioè che sia un “istinto”. Di conseguenza, le donne che non avvertono in se stesse questo “istinto” vengono percepite come psichicamente “anormali”, cioè affette da una “perversione” morale o affettiva.

Immagine di donna gravida

D’altra parte, se la maternità fosse un istinto biologico universale, tutte le donne sentirebbero un identico impulso a restare incinte, a partorire e ad accudire con amore il proprio bambino. Ma non è così. Mentre ogni bambino, per istinto, gira il viso verso il seno o il biberon per nutrirsi, non ogni donna desidera restare incinta, partorire e accudire un figlio. Con ogni evidenza, esiste una quantità di donne che non desiderano avere figli né vogliono accudirli, anche se percependo questo desiderio negativo e questa incapacità spesso si vergognano e si sentono in colpa.

Ogni donna nasce con una personalità distinta, e come tale ha la facoltà di scegliere, secondo la sua natura psicologica (caratteriale), se avere un figlio oppure no. Alla specie homo sapiens non interessa che ogni essere umano si riproduca, ma che a farlo sia il gruppo etnico (che è la sua unità biologica minima), e che ognuno, all’interno dell’etnia, svolga una sua funzione, più o meno utile. Questa inconscia “intelligenza di specie” agisce nel senso di generare un numero indefinito di donne dotate di eccellenze affettive e intellettuali che non si sentono affatto “destinate” alla maternità, ma che, se lasciate libere, troverebbero altri scopi, non meno degni, alla loro vita (come dimostrano le tante scienziate, artiste, intellettuali, religiose, patriote, donne impegnate negli affetti e nei valori che non hanno avuto figli e non ne hanno sofferto).

Immagine di donna che legge

Purtroppo, le culture religiose (perlopiù eredi delle società patriarcali arcaiche) insistono che la natura della donna sia di generare figli e non per esempio affetti, amori, ambienti, oggetti, idee, opere d’arte, sistemi sociali e di valori. La gran parte delle culture religiose e purtroppo anche tante teorie psicologiche colpevolizzano l’impulso di tante donne a vivere secondo scopi personali che non includono la maternità. Questa insistenza, interiorizzata come codice psichico normativo, diventa in molte donne una vera e propria ossessione, portatrice di incertezza, ambiguità e patologia. Quelle che esitano a lungo e superano la fatidica soglia biologica (40/50 anni) senza avere figli, spesso si colpevolizzano per la loro scelta, che talvolta negano, come se fosse stata provocata da fattori casuali e indesiderati, talaltra riconoscono come propria ma ripudiano su un piano morale. In entrambi i casi l’esito è una depressione. Altre donne, prima della soglia fatidica, si ostinano nel tentare approcci sentimentali fallimentari o percorsi medici costosi e devastanti pur di sentirsi “normali”. Altre ancora, impongono ai loro compagni, anche non amati, una una vera e propria “estorsione biologica”, e questi diventano padri a loro volta non volendolo. Naturalmente anche in questi casi l’esito è la depressione, il conflitto, l’occultamento di una bassa autostima e di una identità interna percepita come negativa.

Non di rado, l’immagine interna negativa genera in queste donne gelosie ossessive, persino paranoiche: l’idea che il compagno desideri una donna più giovane, più fertile, più femminile, più materna. Altre volte, se il compagno non c’è, l’idea di essere destinate al ripudio da parte di qualunque uomo e di chiunque, parenti e amici, quindi di essere condannate ad una solitudine senza scampo.

Lo psicoterapeuta dialettico dovrebbe essere in grado di leggere in queste drammatiche esperienze femminili il conflitto di valori che le sommuove. La teoria psicologica dovrebbe mettersi in grado di cogliere dati di semplice e immediata realtà culturale e sociale oltre che psicologica, per restituire alla paziente il diritto alla propria innata dignità e quindi a rivendicare come scelta ciò che i valori esterni (interiorizzati ma parassitari) le hanno imposto. Se la cultura corrente (interiorizzata nel Super-io) risponde al suo rifiuto di maternità con un giudizio ottuso e impietoso di “anormalità psichica” e di “difetto morale”, lo psicoterapeuta dovrebbe essere in grado di funzionare come "specchio dell’interiorità", cogliendo il valore intrinseco della persona che ha di fronte e la necessità di ripristinare sua libertà morale nei confronti della coercizione ambientale.

Immagine di donna alla finestra

Naturalmente, quanto detto finora non nega affatto che molte donne che diventano madri pur non volendo, possano scoprire inattese capacità materne e essere adeguate al ruolo più di altre che fanno della maternità uno status symbol. Ogni donna ha risorse sue proprie, e mentre alcune soffrono e sviluppano patologie se costrette a generare pur non volendolo, altre si scoprono adatte a vivere a pieno l’esperienza. Ma le grandi risorse femminili non autorizzano gli ideologi delle società patriarcali a perseguitare ogni singola donna con l’obbligo morale della maternità. L’insistenza delle culture patriarcali aveva un tempo la funzione di rendere la propria società competitiva con le altre sul piano della massa demografica; oggi assolve alla funzione di preservare la struttura della famiglia dall’assalto individualista dell’economia di mercato, inteso a frammentare le unità tradizionali: coppie, famiglie, clan e nazioni. Non di meno, questo comprensibile impulso in difesa delle unità affettive tradizionali non può essere fatto pagare alla classe femminile senza rispettare almeno questa acquisizione dell’etica borghese: che ciascun individuo è una persona distinta, con attitudini e scelte sue proprie. Il fatto che una donna che è divenuta madre per sbaglio o contro se stessa riveli attitudini materne non può essere assunto a modello di vita femminile: l’uso ideologico di questi casi finisce sempre con l’amalgamare le molteplici esperienze femminili sotto la dittatura di un’unico imperativo archetipo.

I molti destini dell’amore

Ho appena spiegato la mia idea che non tutte le donne possiedano un “istinto materno” e che questa mancanza non derivi necessariamente da una patologia psichica, bensì dal fatto che queste donne potrebbero avere altri scopi biologici ed esistenziali da scoprire e perseguire.

L’osservazione che il desiderio sessuale non miri unicamente alla riproduzione è ormai acquisita quando parliamo di omosessualità. Benché ci siano ancora molti talebani della riproduzione o persone semplicemente poco colte o poco riflessive che pensano che l’omosessualità sia una malattia, noi oggi, come comunità scientifica, sosteniamo che l’omosessualità sia un fenomeno naturale, ossia che nasca semplicemente da un uso non riproduttivo della sessualità e dell’amore. Ma ciò che si ammette per gli omosessuali si fa ancora molta difficoltà ad ammetterlo per gli eterosessuali e soprattutto per le donne, che, secondo la mentalità corrente, dovrebbero essere tutte, una ad una, animate dall’impulso riproduttivo. Questa ignoranza a carico delle donne dipende da almeno tre fattori:

  1. le comunità omosessuali sono più attive di quelle di cultura femminile (non solo “femminista”) nel rivendicare i propri diritti;
  2. la maggioranza delle donne sono lusingate dall’essere individuate come le depositarie della funzione riproduttiva, nonostante alcune di loro non desiderino affatto esercitarla;
  3. la società intera preme in modo invisibile ma ossessivo su tutte donne perché siano assoggettate allo scopo riproduttivo e si sentano in grave difetto se non lo realizzano.
Immagine di una bambina indiana

Voglio precisare che la mia idea che non tutte le donne siano per natura predisposte alla riproduzione è un argomento scientifico, non politico, né tanto meno ideologico, e che poggia su 35 anni di studi e di esperienza psicoterapeutica. Il punto della questione è se l’esistenza dell’organo genitale femminile e della particolare conformazione fisica della donna implichi in tutte le donne l’esistenza del cosiddetto “istinto materno”. L’idea che la donna, disponendo di un organo riproduttivo e di organi nutritivi complementari, non possa non essere determinata da essi – cioè che l’organo determina la funzione e la funzione domina l’individuo – dal punto di vista biologico è superata. In realtà gli organi di ogni specie, ma soprattutto delle specie complesse (come homo sapiens) svolgono diverse funzioni, e ciascun individuo, distintamente da ogni altro individuo, può farne un uso soggettivo. L’organo genitale serve a riprodursi? Questo è ovvio. Ma serve “solo” a riprodursi? Anche gli uomini hanno organi genitali, eppure ben pochi fra essi affermano di avere un "istinto paterno". Anche l’uomo ha i suoi ormoni sessuali e i suoi desideri sessuali, non di meno sono davvero pochi gli uomini che affermano di aver sentito sin da bambini un incoercibile impulso a generare figli.

Negli esseri umani è difficile distinguere il dato naturale dall’educazione sociale che l’individuo riceve dalla nascita alla morte. Dunque per mettere ordine nella complessa questione natura/ cultura mi lascio soccorrere da due concetti avanzati della riflessione biologica moderna.

Il primo concetto va sotto il nome di exattamento. L’exattamento è un concetto utilizzato per descrivere un particolare tipo di evoluzione delle caratteristiche degli esseri viventi e deriva dall’espressione inglese exaptation, introdotta da Stephen Jay Gould ed E. S. Vrba. Secondo questa moderna concezione biologica un organo nasce con una funzione e ne acquisisce nel tempo altre diverse da quella originaria. Nell’exattamento un carattere nato per una particolare funzione ne assume una nuova, indipendente dalla primitiva: un classico esempio è costituito dalle piume degli uccelli. Un tempo, quel particolare tipo di dinosauri da cui sono sono evoluti gli uccelli aveva un piumaggio che serviva loro da isolamento termico; nel tempo questo piumaggio assunse la funzione del volo. Un altro caso è quello delle pieghe laringee, comparse per impedire che, in occasione del vomito il rigurgito del cibo entrasse nei polmoni. Le pieghe laringee sono state cooptate nel corso dell’evoluzione per produrre suoni, poi, negli animali superiori e nell’uomo in particolare, si sono trasformate nelle corde vocali, utili a generare un linguaggio, pur mantenendo la loro funzione originaria. Anche il palato e la bocca, che originariamente avevano la sola funzione di consentire la nutrizione, si modellarono nel corso dell’evoluzione per produrre il suono e la parola. Detto in termini semplici: la bocca non serve solo per mangiare, ma anche per parlare, sorridere, baciare...

Vale anche per la sessualità. È nata per la riproduzione (benché in verità anche gli animali la usino in molti modi eterogenei) poi ha acquisito caratteri sempre più eterogenei. Si è svincolata. Per molti, uomini e donne, la sessualità non è finalizzata alla riproduzione, ma alla ricerca del piacere fine a se stesso o alla costruzione di relazioni d’amore. E l’amore a sua volta ha molti e diversi destini.

La coppia omosessuale innamorata dimostra la futilità dell’idea che l’eros serva alla sola riproduzione; ma anche la coppia di anziani innamorati, settuagenari o ottuagenari, dimostra che la sessualità non è in diretto rapporto con la riproduzione. E gli animalisti? Accetterebbero forse l’affermazione che il loro amore per gli animali sia solo amore sublimato per i bambini che non hanno avuto o che dovrebbero avere? Ovviamente no!

Il mio secondo argomento biologico, convalidato ormai da gran parte della comunità scientifica, è la cosiddetta “evoluzione per gruppi”: la specie umana evolve per per gruppi, non solo e non tanto per individui. Ciò vuol dire semplicemente che alla specie non interessa che si riproduca ciascun singolo individuo umano, ma che a farlo siano i gruppi nel loro complesso. Ciò implica di necessità – secondo il principio di “variabilità individuale” – che sebbene la maggior parte degli individui tenda a riprodursi, esistano individui che non si riproducono perché non vi sono particolarmente predisposti dalla natura. Questi individui non sono anormali e malati, perché alla specie interessa che il gruppo, non ogni individuo, si riproduca. Questi individui, se non colpevolizzati possono esprimersi in una quantità infinita di attività significative; oppure rivendicare la semplice dignità di esistenza come “persona”, la quale ha valore anche se ha attitudini medie e non eccelle in alcunché di specifico.