Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Violenza di genere e femminicidio

Intervista di Cosima Borrelli al dott. Nicola Ghezzani per la rivista Extra Magazine

“Tarquinio e Lucrezia”

Cosima Borrelli: La violenza di genere, che nella sua forma più estrema sfocia nel femminicidio, pone in primo piano la drammaticità di un fenomeno che appare inquietante per le sue dimensioni. Cosa accade nella mente di un uomo che colpisce fino a uccidere una donna?

Nicola Ghezzani: Per aggredire un altro essere umano, fino a giungere all’omicidio, occorrono rabbia, furia, odio. Gli uomini che uccidono le donne hanno improvvisi accessi di rabbia, oppure un odio freddo e costante. In termini generali, l’omicidio – solitario o di gruppo – è un fenomeno diffusissimo, ma quello di un uomo nei confronti di una donna ha dei caratteri specifici. Al di sotto della rabbia e dell’odio l’uomo prova segretamente paura della donna. Ne ha paura perché essa gli appare d’un tratto come una figura antitetica rispetto al suo mondo, alla sua identità, alla dignità e alla sicurezza raggiunte. Quando la aggredisce lo fa perché si ritiene da lei “offeso”, persino “sfidato”, sminuito nel suo potere e nella sua dignità di maschio. In lui agisce un impulso vendicativo.

L’uomo che uccide la sua compagna la odia perché se ne sente offeso e vuole punirla. Si vendica con la sua soppressione. Egli talvolta è cosciente di ciò, altre volte invece ne è inconsapevole, e allora agisce in una sorta di raptus ipnotico.

CB: Dietro ognuno di questi terribili delitti ritroviamo spesso la stessa scena, l’assassino è quasi sempre il compagno, il marito, il fidanzato, il convivente, l’amante. Qual è la natura di questa debolezza maschile? Il problema è anche culturale?

Fotografia di Helmut Newton

NG: Innanzitutto non vorrei portare acqua all’ideologia che si è diffusa negli ultimi anni. Quando diciamo “omicidio” sappiamo che esso può avere mille cause diverse. Quando invece diciamo “femminicidio” la tendenziosa ideologia corrente ci spinge a immaginare un marito o un convivente crudeli che sopprimono una donna inerme e innocente. È una verità parziale, quindi falsa. La fenomenologia del femminicidio è vasta quanto quella dell’omicidio. Non è vero che l’omicidio della donna avviene sempre o quasi sempre o comunque più spesso fra le mura domestiche. Certo, quando avviene in casa fa molto più scalpore. Ma l’omicidio “legale” della donna nei regimi teocratici e quello per violenza singola o di gruppo in atti di criminalità sessuale, che avviene da sempre e ovunque nel mondo, lo effettuano maschi sconosciuti su donne sconosciute, solo perché sono donne, da predare, violare, punire, brutalizzare, uccidere. Si tratta di un vecchio e orribile codice sociale di sopraffazione.

Detto questo, entriamo nel merito: in famiglia accade perché il parente maschio si sente titolare di un diritto privato, di proprietà morale, sulla donna. Accade di solito in virtù di complesse dinamiche psicologiche.

L’angoscia di essere “tradito” – sia fisicamente che moralmente – può declinarsi nel maschio dominante come gelosia morbosa, angoscia di abbandono, rabbia per essere stato messo in grave difficoltà; l’atto libero o orgoglioso della donna viene interpretato come una sfida che disseppellisce l’insicurezza dell’uomo e lo costringe ad agire in modo punitivo, per reprimere l’angoscia di essere un debole. È noto il caso delle ragazze musulmane segregate in casa e uccise nel caso si innamorino di un occidentale; non troppo diverso è il caso della donna di qualunque etnia, di solito giovane, che alza la testa contro l’uomo, dichiara di volerlo lasciare, talvolta lo tradisce con un altro uomo, e per questo viene uccisa.

CB: Esiste un motivo specifico per questo dilagare della violenza contro le donne? Può l’uomo di oggi fare fatica ad accettare il mutamento di identità sociale ed emancipazione della donna nella nostra società? Può percepire questo come “minaccia” in un certo senso alla sua stessa virilità?

NG: Vorrei fare una distinzione chiara e netta fra potere e virilità. L’uomo che arriva a picchiare o uccidere la propria donna lo fa solo in apparenza per difendere la propria virilità (e in qualche psicopatologia egli ritiene di farlo davvero per questo: minacciato da insicurezza e da impotenza). Ma in realtà l’uomo difende sempre il suo potere, surrettiziamente identificato con la virilità. In termini sani, maturi, la virilità si configura come un rapporto con se stesso e con la partner sorretto da un principio etico. La virilità non va confusa né con il potere né con l’erotismo consumatorio: l’uomo virile è profondamente morale, non agisce mai in modo da danneggiare la donna né soverchiandola col suo potere, né seducendola col sesso, profittando di un bisogno romantico della donna o di una sua propensione alla trasgressione. Quindi la violenza alla donna avviene sempre come esercizio di un potere isolato o di branco, non come espressione di virilità.

La violenza si esercita sempre come una forma di punizione: un potere (di un marito che si sente messo in ridicolo o in gravi difficoltà economiche, di un partner che ha paura di restare solo, di un branco di maschi che si sentono offesi dalla libertà di una ragazza che va in giro a viso scoperto o con il corpo fasciato da un bel vestito) si sente messo in minoranza, si sente costretto all’angolo, e reagisce con un automatismo punitivo. Il potere insidiato ricava sempre un “piacere” perverso nel trovare una classe “colpevole” da assoggettare.

Non c’è dubbio che la violenza viene scatenata sempre da una qualche forma di emancipazione femminile. L’emancipazione femminile è un fenomeno antropologico e sociale sempre positivo perché riequilibra il potere generale. E noi siamo tenuti a difendere l’emancipazione femminile anche in quei casi particolari in cui la donna sbaglia: cioè quando provoca la reazione dell’uomo con atteggiamenti sfidanti e con la derisione. Sarebbe meglio che la donna non agisse mai in questo modo, perché offende la sua stessa intelligenza, ma talvolta lo fa. In questi casi, l’uomo virile è in grado di reggere l’offesa; purtroppo, l’uomo insicuro si sente minacciato nel suo potere e quindi reagisce con la violenza.

CB: Secondo lei, le donne possono cogliere dei segnali prima dell’instaurarsi di un evento senza ritorno? È quindi possibile una qualche forma di prevenzione? Quali consigli darebbe ad una donna vittima di violenza psicologica o fisica chiusa nel proprio silenzio?

Fotografia di Helmut Newton

NG: In casa i segni sono sempre palesi. Nella coppia c’è un crescendo di litigi, l’ira viene frenata a stento o esplode in raptus improvvisi in cui vengono presi di mira oggetti cari alla partner... Se la ragazza è una minore, il padre la segrega, la insulta, la minaccia. Purtroppo, molto spesso la donna, quando è una fidanzata, una convivente o una moglie, coglie sempre con molta esattezza i segnali del crescendo di follia; ma un’antica cultura della sopportazione e una moderna cultura della provocazione e della sfida la spinge a sottovalutarli e a restare col suo compagno, esponendosi così al momento fatale.

Come ho scritto nel mio libro Volersi male, nel quale racconto e analizzo alcuni casi di questo tipo, la donna resta incredula del potenziale aggressivo del maschio; talvolta resta passiva per puro masochismo, altre volte per un ostinato spirito di rivalsa si oppone con gli atteggiamenti e col il proprio corpo – muto o aggressivo – e l’uomo a questo punto non ci vede più, trascende e colpisce.

Il consiglio che dò sempre alle mie pazienti è di chiudere il rapporto ai primi cenni di minaccia e di violenza e di rifarsi una vita. Nei casi estremi è necessario pensare a una denuncia e a costruirsi una solida rete amicale e parentale di difesa.

CB: Prevenire la violenza di genere, proteggere le vittime e punire severamente i colpevoli. Sono questi i tre obiettivi fondamentali del decreto legge contro il femminicidio e la violenza sulle donne. Lei cosa ne pensa?

NG: Non posso che pensarne bene. Le leggi servono a orientare i comportamenti collettivi. Devono essere semplici, precise e molto ferme. La legge che mi ha citato è un ottimo esempio di buona legge.

CB: Dal “malamore” al femminicidio. Oggi viviamo realmente una sorta di analfabetismo sentimentale? Lei si è occupato di interessanti ricerche sull’amore e i disturbi dell’affettività. Sull’amore sano nelle sue potenzialità di unione duale e di attivatore della crescita personale. Che cosa contraddistingue un rapporto sano e come si sviluppa?

NG: Come ho scritto nel libro Quando l’amore è una schiavitù, l’amore patologico è contrassegnato da una sorta di oblio di se stessi. La donna dipendente affettiva non ha una percezione distinta del proprio Sé, del proprio valore e della propria dignità di persona. Si sente tutt’uno col partner indifferente o maltrattante perché questo è l’unico modello di amore che ella conosca.

La simbiosi masochista già vissuta con la propria madre (più di rado col padre) la spinge a cercare uomini freddi e anaffettivi come è stata la madre con lei, a temerli come divinità minacciose e a farsene asservire.

Per contro, i caratteri che contraddistinguono l’amore li ho descritti sia nei libri citati che in altri più specifici: i caratteri propri dell’amore sono la reciprocità, il rispetto, la confidenza, l’ammirazione erotica e affettiva, l’impulso alla generosità, il credere profondamente che la felicità del partner rinforzi la coppia e arricchisca e migliori la vita di entrambi. La chiave del vero amore è il sentimento della reciprocità, senza il quale ogni coppia può degenerare in una qualche forma asimmetrica di potere. Tuttavia, la reciprocità non va chiesta in modo coercitivo, bensì nell’esercizio paziente e costante dell’intimità e della confidenza.

CB: Gli interventi legislativi sono fondamentali per la definizione dei reati, per la tutela delle vittime e per gli interventi di sostegno alle stesse.

Donna condannata alla lapidazione

Accanto a questo è necessario però avviare una specifica attività formativa che consenta ai giovani una vera e propria educazione ai sentimenti, in grado di far superare gli stereotipi di genere. Quali strumenti si possono mettere in funzione e con quali finalità?

NG: Anche qui voglio contestare in modo chiaro e netto una mistificazione ed una retorica che si vanno diffondendo. No! Non è l’educazione scolastica che può migliorare la condizione della donna nel nostro mondo. Questo può valere per le scuole coraniche, dove si insegna che la donna deve essere segregata e sottomessa, non per le nostre scuole. Indicare le scuole come luoghi di “prevenzione del crimine” significa turbare e offendere i nostri ragazzi. Con queste prassi inquisitorie si scaricano di fatto le responsabilità adulte sui ragazzi in formazione.

Il problema è sempre istituzionale: le donne devono essere rispettate per costume e per legge nei luoghi di lavoro, nei luoghi pubblici, quando esprimono un’idea e quando passeggiano, nell’esercizio delle professioni e nelle attività ludiche, nelle palestre, nelle piscine, nei locali. Devono essere rispettate come artiste, scienziate, politiche, come accoppiate e come single, come eterosessuali e omosessuali; devono essere rispettate anche come prostitute! Esse devono avere una presenza crescente nel mondo sociale.

È dunque il costume generale, condizionato dalle leggi, che educa i giovani, non la scuola, dove dovremmo insegnare la bellezza della Venere di Botticelli, l’amore di Dante per Beatrice, quello di Petrarca per Laura, l’eccellenza pittorica di Artemisia Gentileschi, la potenza poetica di Saffo ed Emily Dickinson, l’intelligenza scientifica di Marie Curie, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack.

Nella scuola dobbiamo produrre e promuovere alta cultura, sempre e soltanto alta cultura, non ammonire con noiosi e presuntuosi sermoni che nascondono implicite e sgradevoli insinuazioni. I ragazzi non saranno mai violenti se il mondo adulto insegnerà loro, con l’esempio concreto, che la donna è pregiata e amata in tutti i luoghi pubblici e privati.


Poscritto

Un codice mentale tribale

Non appena ho riletto questa breve intervista per pubblicarla qui sul mio sito, mi sono venute in mente una considerazione, che aggiungo volentieri.

Il fenomeno dell’omicidio femminile (il cosiddetto femminicidio) è stato presente in tutte le epoche storiche e presso ogni popolazione, soprattutto in quelle dove il potere maschile era esplicito, manifesto e violento I riscontri storici e antropologici sono impressionanti. Oggi se ne parla con rinnovato vigore per tre motivi.

  1. Innanzitutto per lo scandalo di un delitto così atroce in una civiltà come la nostra che ha abiurato – almeno formalmente – la violenza. A fronte di tante dichiarazioni di bontà e generosità sociali nonché di parità fra i sessi gli omicidi di donne continuano ad essere frequenti e particolarmente vili.
  2. Il secondo motivo è che il femminicidio, oltre ad essere quel ripugnante delitto di genere che sappiamo, è anche una delle variazioni del non meno ripugnante delitto del forte contro il debole. In questo caso si appaia all’infanticidio e alla violenza nei confronti degli infermi e degli anziani.
  3. Infine, ultimo motivo della sua dolente attualità, il femminicidio rivela lo scandalo del delitto compiuto in famiglia, dal marito o dal fidanzato o dall’amante nei confronti della compagna e persino del padre nei confronti della figlia e del figlio nei confronti della madre.

La principale variabile da valutare rispetto al delitto classico, di pura prepotenza, è la collusione che in non pochi casi la donna mostra di avere col suo carnefice. Spesso vittima e carnefice hanno condiviso un matrimonio consolidato dalla nascita di figli, una lunga relazione erotica, il facile perdono ai primi atti di violenza, e persino la provocazione della sfida aggressiva e dell’ostentazione di libertà da parte femminile quando infine lei non ne poteva più. Una collusione che lascia intravedere i codici di quel sadomasochismo morale che ho descritto nei libri Volersi male, Quando l’amore è una schiavitù e L’amore impossibile. Questi codici mentali segnalano che la coscienza maschile e femminile è strutturata da sistemi di valori che fanno della donna una schiava affettiva oppure una ribelle destinata alla perdizione e alla punizione; sistemi di valori non diversi da quelli tribali islamici o induisti o centroamericani che danno a ciascuno – maschio e femmina – un ruolo cui solo una coscienza morale e culturale nuova e dirompente, in qualche modo rivoluzionaria, potrebbe porre rimedio. L’inconscio è meglio visibile se facciamo un passo indietro nella storia o a lato nella geografia: in passato il dominio dell’uomo sulla donna era assoluto e incontrastato, come lo è ancora oggi nei regimi teocratici totalitari e in quelli criminali.

Dunque ai fini di una politica di prevenzione del delitto di genere occorrerebbe tenere ben presenti i seguenti fatti:

Donna con il burqa
  1. la predisposizione del carnefice alla violenza celata da una carattere fragile e narcisista;
  2. la possibile collusione della vittima celata dalla idealizzazione del partner e del rapporto e dalla devozione servile interpretata come amore;
  3. il codice mentale maschilista di uno o di entrambi, che dando alla coscienza femminile un’espressione negativa (rabbia cieca, sfida, provocazione libertaria anche sessuale ecc.) favorisce il delirio di punizione maschile;
  4. la persistenza in menti apparentemente evolute di codici giuridici tribali patriarcali che una coscienza libera dal relativismo morale è in grado di individuare in società a noi contemporanee: nella lapidazione e nella fustigazione islamiche; nell’obbligo islamico del burqa; nel rito africano dell’infibulazione; nella deturpazione del volto con acido in uso in India; nell’esecuzione criminale della prostituta disobbediente così frequente negli ambienti dell’immigrazione in Europa ed endemica in Centro America.

Il superamento sociale, oltre che psicologico, del femminicidio presupporrebbe pertanto un’analisi accurata dei codici mentali e sociali di un certo mondo arcaico tuttora vivo nelle pieghe della cultura occidentale, che solo una rimozione collettiva rende ancora impenetrabili all’analisi.