Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Il sogno di Pinocchio

Un ricordo d’infanzia

Sono cresciuto immerso in uno strano mélange di caratteri: un padre calmo ma distante, quasi remoto, sprofondato nelle sue letture, e una madre ansiosa, di cui osservavo con meraviglia la progressiva scomparsa del corpo: sempre più rari i baci dell’infanzia, le carezze...

In quest’atmosfera emotiva, a tre anni feci un sogno.

“Pinocchio pensieroso”

Quello in cui trascorsi per intero la mia lunghissima infanzia era un appartamentino di tre camere situato al piano terra di una palazzina popolare. Dall’ingresso, subito sulla destra, si giungeva al soggiorno, la stanza più ampia della casa, uno spazio cinque metri per quattro con due finestre che davano l’una sull’interno soleggiato, l’altra sul cortile, che a sua volta s’affacciava sulla strada. Dritto di fronte all’ingresso, lungo non più di quattro metri, c’era la cucina, la cui unica finestra dava anch’essa sulla strada. A sinistra, invece, si apriva la zona notte: due camere da letto e il bagno, che si spingevano su un altro lato del cortile interno, dove erano due o tre alberi di grosso fusto, altissimi, circondati da un piccolo parco, e, al di là di questi, il muro di cinta.

L’appartamento, leggermente rialzato dal livello del suolo, affacciava su tre lati, ed era sempre illuminato e riscaldato dal sole.

Ma ecco che l’intera casa – nella scena di quell’antico sogno – è improvvisamente buia, come se le finestre siano chiuse, o come se sia notte. Io procedo lentamente, con cautela, forse perché non voglio farmi male o forse perché il buio mi insinua una certa inquietudine. Mentre cammino, il mio sguardo dondola assieme ai miei passi, poiché sono un bambino molto piccolo. Il soggiorno alla mia destra è buio. Sulla sinistra, la zona notte è ancora più buia. Solo di fronte a me, dalla cucina, vedo provenire un debole chiarore, che scopre appena, in una luce livida, lo stipite sinistro della porta.

Ed ecco che in quella porzione illuminata di spazio scorgo, malamente accasciato, un pupazzo, della grandezza d’un bimbo. M’avvicino e lo vedo meglio: è Pinocchio, il burattino di legno della fiaba, circonfuso da un’aura di mistero. Son colpito da ogni cosa di lui: dai suoi abiti d’un rosso acceso; dallo stato di prostrazione in cui giace la sua figura: le membra fragili appese al corpo tozzo, il naso lungo a forma di cono, lo sguardo rivolto al suolo.

D’un tratto, un’oscura sensazione attraversa per intero quella scena fino a pervadere acutamente la mia coscienza: è il dolore di mia madre che mi raggiunge da un luogo ignoto, da oscure profondità. È un mistero come quel dolore attraversi l’etere fino a raggiungere la mia mente. In sintonia, lo cerco e infine lo localizzo. Mia madre è prigioniera dentro il corpo ligneo del burattino. Muta, non può inviarmi altro che quell’insondabile vibrazione di dolore, come lo sguardo di un cane cui sia stato strappato anche il diritto di guaire. Io lo posso sentire solo in virtù di questa assurda confusione topologica, di questa magica telepatia.

Siamo di fronte, adesso: io pervaso da quel dolore, il burattino abbandonato a se stesso, senza speranza.

Certo è che in questa immagine io contemplo per intero, già da bambino, il mistero dell’amore: due cose in una: e non in una felice armonia, ma in una tragica separazione. Questa donna è prigioniera dentro un povero oggetto di legno ed io non so che fare né per liberarla – perché in effetti la amo e vorrei liberarla – né per distogliere lo sguardo dal suo destino, poiché questo destino io lo avverto invincibile e senza alcuna speranza.

È una fortuna, allora, ch’io mi risvegli.

È stato solo un sogno.

Non ho ancora tre anni.

L’occasione del sogno dovette essere relativamente banale. Mia madre mi leggeva i libri di favole che avevamo in casa. Dopo due figli più grandi, in casa c’erano già una quantità di libri per l’infanzia, e lei doveva solo scegliere tra quelli le erano piaciuti di più. Dunque Le avventure di Pinocchio era un libro che amava. Ed io nell’ascoltarla leggere dovevo aver avvertito in lei una certa identificazione con Pinocchio e di questa identificazione il sogno portava una traccia inconfondibile: mia madre ne era in qualche modo prigioniera.

Ma quali reconditi motivi si nascondevano dietro questa preferenza?

Mia madre era la figlia di una numerosa famiglia matriarcale. Seconda di cinque femmine e di un solo maschio sopravvissuto (un secondo fratello era morto da bambino per una malformazione cardiaca), era stata rifiutata alla nascita da una madre che avrebbe voluto un maschio. Il padre, sempre assente per lavoro e poi travolto da un fallimento aziendale che lo portò a morte a cinquant’anni, non valse a compensare quel primitivo sentimento di rifiuto. In più, di carattere introverso, si era sentita a disagio in una famiglia pragmatica di armatori impegnati nell’impresa e nel commercio.

Il sentimento di una condanna sospesa sul suo capo raggiunse l’acme quando abbandonò la famiglia a diciannove anni per seguire il fidanzato (un giovane del nord) girovagando per l’Italia negli anni della guerra. Il senso di colpa per quella distanza, la delusione di essere stata trattata con alterigia dalla sorella di mio padre, e l’incapacità di adattarsi alle città del nord, le indussero il desiderio di fare rientro a sud.

Negli anni, sviluppò un nodo complesso di ansie e di paure e per tale motivo preferiva uscire di casa accompagnata da mio padre; in chiesa, dove entrava da sola (fra noi era l’unica “credente”), sostava vicino all’ingresso sì da poter fuggire al primo accenno d’ansia. E lì sostava lontana dall’altare, quasi in esilio, in un misto di timore e tremore, come abbandonata dalla Grazia e in perenne preghiera di essere riaccolta nel suo abbraccio.

Aveva gravato su tutti noi con la sua depressione. La sua presenza in casa era una continua e silenziosa richiesta di sostegno e di conforto: per lei, avremmo dovuto vivere sempre uniti, mossi da un muto, automatico bisogno di unità nell’amore.

Il sogno, di una infinita complessità, mi rimase oscuro per decenni. Cominciai a intuirne il significato solo da adulto e dopo molti anni di attività psicoterapeutica. Mi diceva che in molte persone, in mia madre in modo evidente, l’interdipendenza umana, il fatto che abbiamo bisogno degli altri per vivere, induce un immenso sentimento di delusione. Per costoro l’amore è solo un escamotage per continuare a vivere.

Nel sogno mia madre mi trasmetteva l’idea che, un Altro la governava come un burattino, e che da questa condizione di inerzia vitale doveva essere salvata. E implorava me di farlo. Ma poiché la sua delusione era totale, io sarei stato per l’intera vita schiavo del suo bisogno di essere salvata.

Come si evince dal sogno, io a tre anni, di fronte al messaggio di mia madre, sono addolorato della mia impotenza; eppure son rimasto fermo nel rigettare questa angoscia, questo dolore, son rimasto fermo nel rifiuto di soccombere alla tetra morale dell’amore come coercizione.

Il sogno mi fa vedere – e sentire – ciò che io in quel momento non sono già più: prigioniero dell’obbligo morale d’essere nella vita null’altro che un soccorso o un soccorritore.

E questo a soli tre anni.

Ammetto la mia impotenza e pongo in essere un non-agire attivo, che produce l’immagine di un sogno, cioè un complesso evento psicologico che impegna il pensiero e mira a liberare il corpo da una possibile schiavitù d’amore.

Io le sto di fronte e benché avverta il suo dolore non mi muovo. Certo, mi so impotente: come faccio io, che sono solo un bambino, a salvare mia madre? Ma allo stesso tempo mi difendo dall’insondabile mistero, mi difendo da qualcosa che so inguaribile, inafferrabile e perduto. So che la donna che mi sta di fronte è paralizzata nella sua infelicità, non è in grado di muovere il suo corpo, di animarlo di amore, di libertà, di passione, di esprimere al figlio la gioia di vivere e di amare.

Una donna bloccata che chiede al figlio uno sforzo sovrumano, uno sforzo impossibile: di restituirle – lui che è solo un piccolo bambino – una gioia che malevole entità psicologiche le hanno sottratto, chissà quando e perché...


Ma solo superati di molto i cinquant’anni capii fino in fondo (il fondo che mi parve di riuscire a cogliere da quel momento) la reale portata di quel sogno infantile.

Mia madre era diventata con gli anni una donna depressa. Il suo stato d’animo cupo e pessimista si era manifestato con il progressivo insorgere di un pensiero, un pensiero che le aveva rivelato il senso del mondo e della vita. Certo, la sua era solo una interpretazione, una “visione del mondo”, non di meno per lei era assoluta certezza. Era nata da una madre forte e severa, che l’aveva rifiutata; poi a undici anni aveva visto il padre ammalarsi e morire di un tumore polmonare, dovuto alla massa di sigarette fumate per contenere l’ansia del fallimento economico (un uomo di appena cinquant’anni che era stato allegro e vitale); e aveva visto disperdersi il patrimonio di famiglia: le molte imbarcazioni, il palazzo sul lungomare e la villa fuori città, la carrozza coi cavalli, che tanto le piaceva, e l’allegria della famiglia che dal fallimento e dalla morte del padre fu devastata e spenta. Allora dovette sorgerle in cuore un pensiero infallibile sull’essenza della vita: siamo solo burattini nelle mani del destino. Per quante speranze possiamo avere, per quanti sforzi possiamo fare, per quanto possiamo penare e soffrire, il destino è indifferente, agisce come una immensa e fredda potenza distruttiva. Decide per conto suo e noi umani non abbiamo alcun potere su di lui. Questo pensiero dovette essere scacciato perché non annientasse il fragile animo di una bambina; ma riemerse con gli anni, quando scoppiò la guerra, quando lasciò la famiglia per seguire il tenente pisano di cui s’era invaghita, quando fu umiliata dalla sorella di lui, quando dovette piegarsi alla vita umile del dopoguerra, quando tornò a sud e non ebbe una soluzione ai suoi mali.

Pinocchio bambino

Burattini nelle mani del destino, franti dalla sua potenza, gettati per terra e poggiati allo stipite di una porta. Inerti, sconfitti. Pinocchio comincia a prendere in giro il padre non appena ha coscienza di sé, quando il padre lo sta ancora modellando. Forse pensa di essergli superiore. E gli si ribella. Ma alla fine, quando il mare inghiotte quel suo umile padre (come accadde al padre di mia madre, ucciso dalla sua attività di armatore), Pinocchio va a salvarlo per diventare infine un bambino vero, cioè rassegnato al suo destino, con l’unica consolazione dell’amore. È questo che la fatina (una donna) cerca di fargli capire. Al dolore di vivere non c’è scampo: è inutile che ti ribelli, che fai il matto o il perdigiorno; come i carabinieri che sono sempre sulle tue tracce, il destino ti riacciuffa sempre.

Diventando donna, mia madre lo accettò, ma solo con immensa paura e dolore; e chiese anche a me di farlo. Ma io ero piccolo, ed ero animato da uno spirito mercuriale, divino, da un bisogno frenetico di attività del corpo e della fantasia. In più ero un maschio e non potevo piegarmi.

E la allontanai.

Da ragazzo, a diciannove anni, perché si consolasse, le regalai tutti i miei quadri, ma la lasciai per sempre e andai via.

Sono i pensieri che formano il nostro carattere, non il contrario. A un certo punto incontriamo pensieri che ci folgorano (pensieri che sono semi di significato generati dall’umanità nel corso dei secoli) e che una volta penetrati in noi forgiano dall’interno il nostro carattere e con esso il nostro destino. Al pensiero di mia madre che siamo solo burattini nelle mani del destino, ovvero degli eventi e della forza materiale delle cose, io opponevo una intuizione: siamo anime elette cadute per caso in questo mondo, ossia: abbiamo una scintilla divina, creatrice, che è nostro dovere tenere sempre accesa. Siamo esseri intelligenti, vita attiva, e non possiamo lasciare il mondo così come l’abbiamo trovato. All’essenza tragica di mia madre, opponevo una intuizione epica.

Quando le civiltà incontrano il pensiero del destino, muoiono. Come accadde alla civiltà greca, che rimase intrappolata nel paradosso, espresso nelle sue tragedie, di un destino infinitamente superiore non solo all’uomo, ma agli stessi dei, che ridono degli esseri umani che tentano di cambiarlo. La civiltà occidentale è nata inglobando e superando, come possibile, la vetta tragica segnata dai greci. È in questa suggestione che io, dopo quel sogno, ho continuato a vivere.


Quali effetti ebbe su di me la depressione materna?

Un burattino, è chiaro, è un oggetto inanimato. Può essere mosso da una volontà umana, atteggiato in scene fantastiche, ma, sebbene interrogato, accarezzato, amato, battuto, picchiato, non è in grado di rispondere. Chi si trova di fronte a un burattino, chi ha solo un burattino come interlocutore, sa che non può avere risposte e che pertanto deve apprendere a fare da solo. Irritarsi e addolorarsi per l’opaco silenzio dell’oggetto non basta; occorre difendersi dalla carenza, scaricare la tensione che si accumula, simulare un gioco, stando in un corpo che si muove o nella propria mente, nella propria fantasia. Occorre anche imparare presto a distinguere fra amore e non amore, fra vita e morte.

Ci sono stati d’animo per via dei quali una persona in carne e ossa può assumere le apparenze di un oggetto inanimato. I versanti fobici degli stati ansiosi e le depressioni (fenomeni psichici accompagnati dalla paura del contatto con la vita emotiva propria e altrui) spingono la persona che li vive a limitare gli scambi col mondo e a inibire la propria attività emotiva sia intrinseca che di risposta a stimoli esterni. Il risultato è che il corpo di queste persone si ritira e diviene più parco e rigido in ogni sua manifestazione.

Il bambino empatico che abbia una madre o un padre in queste condizioni avverte che alla base di questa singolare apparenza, dietro maschere di serenità o di rabbia, c’è sempre una invincibile tristezza. Sicché, per quanto egli sia vicino con la mente, non può fare altro, per salvarsi, che tenersi fisicamente lontano. Sente che in quel rapporto non gli è dato di esprimere le sue passioni e le sue proteste. Sente che l’altro, nello stesso momento in cui lo rifiuta, gli chiede l’ossigeno di devozione di cui ha bisogno per vivere e che pertanto lo ricatta.

Il corpo inanimato, dice René Spitz, porta con sé i semi del dispiacere, perché quando l’impulso aggressivo non può più essere scaricato verso l’esterno, esso produrrà invariabilmente una tensione interna, che potrà variare dai noti sintomi della noia, dell’irritabilità, dell’agitazione, a manifestazioni più gravi1. Chi si trova prigioniero di un corpo inanimato, bloccato, non può esprimere i suoi sentimenti, quindi scivola in disturbi più gravi.

Al bambino che ha contatto con questi corpi repressi e senza passioni non resta altra strada che tenersi alla larga, se non vuole cadere nella stessa depressione, quindi diviene dinamico e attivo più di quanto lo sarebbe per sua natura per scaricare nella motricità quanto non riesce a far vivere nella relazione. Se può, cerca rapporti più sani. Infine, sviluppa un mondo interno di pensieri e fantasie che suppliscono almeno in parte alla carenza emotiva. Il corpo prende altre direzioni, trova altre vie; il cuore impara a rifugiarsi nella mente, nella fantasia.

Non di meno, anche per questo bambino, la restrizione del corpo e dell’anima nello spazio dell’azione impulsiva o della fantasia è, di fatto, una rinuncia a vivere in modo pieno. Senza una madre pulsante di emozioni, senza un corpo vivo che risponda con l’amore e la rabbia, con la gioia e la tristezza, con la calma e la frenesia, con lo struggimento della più viva commozione, l’io del bambino non può compiacersi delle sue emozioni, quindi si irrigidisce, evita la conoscenza degli affetti che il corpo materno si rifiuta di veicolare… diventa insensibile, mira a non farsi più ferire dalla distanza e dalla frustrazione.

Buon allievo della lezione materna mi accingevo a diventare un bambino disattento al proprio corpo – che infatti esponevo a continui rischi e a un’infinità di traumi e di piccole ferite – e ignaro delle innumerevoli sfumature del sentimento. Incapace di vivere l’abbandono alla tenerezza mi scontravo col suolo in cento diverse forme di corsa, di volo e di caduta. Restio a chiedere amore rubavo baci furtivi a una piccola amica della mia età o mi innamoravo della giovane madre di un amico. Inabilitato a vivere nel corpo la ressa confusa dei sentimenti, mi rendevo sempre più esperto a leggere la mente, a capire il mondo adulto da una mimica facciale o da un semplice gesto.

Da sempre, dacché ho ricordi, davo per scontata la mia abilità a percepire con misteriosa intensità ogni più piccola variazione degli stati d’animo altrui, a leggere nelle menti come in un libro aperto...

Questa mia singolare attitudine era dunque, allo stesso tempo, una abilità di ordine superiore e una carenza. In quanto abilità essa mi portò a osservare il mondo adulto, a valutarlo e a studiarlo, poi a confrontarmi coi libri in fuggevoli sessioni di lettura, quindi con la letteratura mondiale (gli scrittori, così attenti anche loro alla vita emotiva dei loro simili, mi si rivelarono persone con un bagaglio di esperienza analogo al mio...), ad amare le arti nelle quali gli artisti avevano raffigurato il complesso mondo affettivo dell’umanità; quindi a tentare io stesso la via di un contatto con le mie nascoste emozioni mediante quelle stesse forme simboliche.

E così, a cominciare dai dodici anni e con mezzi molto empirici, scrissi poesie e racconti, dipinsi quadri, presi appunti di psicologia e antropologia, ascoltai quelle musiche che nessuno mi aveva insegnato a comporre.

Un giorno non lontano, per una attrazione fatale del destino, di questa mia attitudine all’empatica lettura della mente mi disposi a fare una ragione di vita e, col tempo, la mia maggior fonte di sussistenza, diventando uno psicoterapeuta.

Ma per l’altro versante, quello della carenza, mi spinsi, per il restante corso della vita, ad abbandonare quando possibile il rifugio incorporeo del pensiero introverso – che come un fratello gemello accompagnava la mia vita di bimbo attivo ed estroverso – e a scoprire per esperienza diretta quelle emozioni che la lettura apatica del cuore altrui aveva confinato nello spazio privato della mente.


Note

  1. 1, p. 208.

Bibliografia

  1. René Spitz, Dialoghi dall’infanzia, Armando, Roma, 2000.