Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Franz Kafka, il condannato

Franz Kafka ha lasciato che la sua anima gravitasse là dove altri preferiscono non gettare nemmeno uno sguardo: in quel luogo a metà fra la vita e la morte, dove la vita scompare e sembra un miraggio inaccessibile, e dove la morte evoca e suscita i suoi funesti simboli.

Foto di Franz Kafka

Di fatto, Kafka dovette sentirsi, ancora in vita, come un morto vivente. La famiglia non lo aveva mai accettato del tutto: troppo strano, introverso, intellettuale, per esserne accolto a pieno titolo in una famiglia semplice e attiva. Celebre a questo proposito la Lettera al padre, nella quale il giovane Franz esprime al genitore tutto il suo odio represso, ma anche – e contraddittoriamente – l’oscuro sentimento della propria indegnità a vivere, a sentirsi vivo fra i vivi: la condanna che egli stesso si commina, proprio mentre accusa l’altro e sembra condannarlo. Intimorito dal suo stesso ardire, Franz non regge alla condanna nei confronti del padre e lo salva condannando se stesso. Un sottile masochismo che accompagnò tutta la sua vita.

Il padre era un uomo forte e sano e un commerciante di spirito granitico. E sentiva con orgoglio la sua vocazione di patriarca. Dunque, come poteva avere buoni rapporti con quel figlio così gracile, silenzioso, subdolamente critico? E soprattutto, come non essere irritato che il suo unico figlio maschio lo tenesse a distanza senza gradirne l’eredità?

Il sentimento di indegnità che Franz sperimentò a confronto con il padre fu totale e devastante: il racconto La metamorfosi, nel quale il protagonista, Gregor Samsa (suo alter ego) si sveglia trasformato in un enorme insetto, subito nascosto e mal sopportato dalla famiglia, è l’emblema dell’atroce sentimento di indegnità – e di estraneità – che pervase come un’ombra implacabile la mente di Kafka ogni giorno della sua breve vita.

Ebreo di una cultura patriarcale in cui si riconosceva, egli fu tuttavia riottoso a sostenere l’amore di una donna e il peso di una famiglia. Sicché, incapace di legarsi a una donna e averne un figlio, Kafka si pensò meno uomo degli altri uomini e meno vivo degli altri vivi. Come un “selvaggio” studiato da Levi-Strauss, egli convenne con se stesso (e con chi lo condannava) che colui che non ha donna, figli e famiglia e non accetta il suo ruolo all’interno della catena genealogica non è da accogliere fra i “degni”, dunque è meno vivo di loro. È come un bambino inetto, come un adolescente non ancora “iniziato”, è come un morto senza eredi e che nessuno onora. Vive nell’ombra e fra le ombre. Ed ecco spiegato il mondo di spiriti di Kafka: erano le uniche presenze che si degnassero di fargli compagnia.

Il sentimento di inesistenza fattuale (una sorta di assoluta derealizzazione) lo fece sentire un soggetto nullo, impotente di fronte alla realtà materiale cui gli altri – i forti, i vivi – appartenevano. Il mondo intero divenne allora un muro impenetrabile, un cancello chiuso, una porta sbarrata, un labirinto senza uscita, un messaggio che non arriverà mai.

A Kafka non servì l’ebraismo, che lo recluse in uno spiritualismo senza via d’accesso al reale; e nemmeno la letteratura, che lo imprigionò in un mondo di spettri più reali del reale. Avrebbero potuto salvarlo il sionismo, che non praticò mai in modo attivo, o l’anarchismo, che fiancheggiò da giovane e solo per un breve periodo. Gli mancò qualcosa che gli aprisse una porta sulla rabbia identitaria che aveva dentro di sé e che volle ignorare, ostinatamente, fino alla morte. Non amò una donna che avrebbe potuto riconoscere il suo diritto all’esistenza; non dichiarò la sua aderenza politica al popolo di Sion; non dichiarò la sua segreta identità anarchica, il suo odio per l’oppressione. Morì come un signor nessuno, come un’ombra anonima e senza peso, a trentanove anni, di tubercolosi.

Kafka è così unico e così grande perché nessuno vorrebbe fargli compagnia o competere con lui per il suo Regno; nessuno vorrebbe contendergli la sua “santità”. Solo Omero, Virgilio e Dante hanno vissuto il loro personale viaggio negli inferi, ma per uscirne subito, ed edificati, migliori, più forti. Chi, se non Kafka, vorrebbe vivere l’intera vita nel mondo delle ombre, e fino ad una vera morte, finalmente liberatoria?

Kafka non ha rivali nel suo genere perché nessuno come lui ci ha saputo mostrare la perfetta innocenza dell’escluso, ma anche e allo stesso tempo la sua personale costruzione dell’inferno.


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