Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Autolesionismo ed introversione

Il bisogno di farsi male

Dipinto di Henning von Gierke basato su “La camera”, di Balthus

Cos’è l’autolesionismo

Definizione e descrizione clinica

Glossario: autolesionismo

La parola “autolesionismo” deriva dal greco autòs, se stesso, e dal latino ledere, ferire. Essa indica l’atto attraverso il quale un individuo si provoca intenzionalmente del male, sia in senso fisico che in senso morale.

L’autolesionismo come difesa dal legame

Tu non puoi più farmi del male!. Quante volte abbiamo sentito l’amante deluso urlare questa frase al suo oggetto d’amore, divenuto per qualche rovescio della sorte il suo peggior nemico. Soggiogato e portato alla sofferenza dalla dinamica amorosa, l’innamorato rinnega il suo amore, allo scopo di difendersi da esso.

La dinamica della sofferenza d’amore – del tutto evidente nel caso dell’innamorato compulsivo, sacrificale o comunque deluso – è una possibilità implicita in tutti i legami di forte intensità partecipativa. Nasce con la stessa nascita biologica e psicologica dell’essere umano, perché l’esistenza individuale è sempre e comunque legata a stati soggettivi di bisogno e alla loro soddisfazione, e gli stati di bisogno si traducono, nelle età giuste, in quelle complesse strutture di dipendenza e di interdipendenza che chiamiamo amore.

La sofferenza d’amore, dunque, così palese nelle età adulte, nasce con i legami primari – i legami con i genitori e i primi care takers, i portatori di cura – nella misura in cui tali legami implicano la relazione necessaria e spesso l’interiorizzazione dell’altro da cui dipende la soddisfazione di bisogni vitali, relazione tale da poter causare angoscia perdita, smarrimento, quindi sofferenza d’amore.

Una delle difese più ricorrenti da tale sofferenza è la negazione della dipendenza, perseguita nell’ottica del raggiungimento di una mitica invulnerabilità o, per essere più esatti, col perseguimento di una concreta e possibile insensibilità.

La negazione della dipendenza (ossia del bisogno che più caratterizza l’essere umano), irraggiungibile in termini assoluti perché nessuno può fare a meno di altri esseri umani, la si può perseguire solo per gradi e secondo modalità e stili soggettivi, quindi in termini relativi: secondo un ventaglio di possibilità che va da un estremo del controllo dell’altro fino all’estremo opposto controllo di sé.

Se osserviamo gli stili di difesa dalla dipendenza spostati verso il polo del controllo di sé possiamo vedere che una delle modalità oggi più diffuse ed efficaci è la contro-dipendenza (detta anche anoressia sentimentale o – come spesso la definisco io – autarchia affettiva (1), nella quale ci si attesta su una posizione di sufficienza rispetto all’amore. Un’altra dinamica di difesa vicina al polo del controllo di sé, dinamica più rara, benché in rapida espansione a livello giovanile e soprattutto femminile, è la sofferenza auto-inferta: l’autolesionismo.

Fenomenologia

La ricerca dell’invulnerabilità attraverso la pratica dell’insensibilità corporea e del rifiuto di ogni compassione per se stessi è una delle più drammatiche avventure della psiche umana. Frutto di sofferenze antiche e recenti causate da genitori rigidi e ossessivi o anche persecutori o da contesti educativi sadici e umilianti, il desiderio d’essere insensibile può produrre un inquietante paradosso. Giovani poco più che adolescenti, soprattutto ragazze, talvolta anche donne adulte, si provocano tagli in ogni parte del corpo mediante lamette, forbici o coltelli, si bruciano con cicche di sigarette, si fasciano i seni fino a farli dolere, si costringono a regimi dietetici spietati o a ingoiare cibi disgustosi inducendosi sofferenza.

Si tratta di una psicopatologia più diffusa di quanto di solito si pensi, che unisce il masochismo fisico (il piacere di farsi o di farsi fare del male) all’individualismo più estremo e solitario.

Detta autolesionismo nel linguaggio comune, essa viene siglata, nel lessico psichiatrico, come DSHS. Tra le adolescenti ha ormai raggiunto una diffusione analoga a quella dell’anoressia e fornisce alla ragazza che ne è affetta la stessa ambigua aura di diversità. Adotta tecniche – dal taglio alla bruciatura, dall’abrasione all’escoriazione, dalla flagellazione all’induzione forzata del disgusto – note (per tutt’altri scopi) alle sante dei secoli passati, in una mimesi parodistica della forza di carattere e della virtù.

Ossessionate dai loro rituali che combinano l’esaltazione del autocontrollo col masochismo psichico e fisico (di cui ho scritto nel mio libro Volersi male), riescono infine a escludersi dalla vita sentimentale simulando l’inviolabilità e raggiungendo l’insensibilità.

Dice una ragazza affetta da tale disturbo: Ho capito che lo faccio per allontanare gli altri... Avendo tante cicatrici sul viso e sul corpo, finisco per fare ribrezzo e così mantengo gli altri a debita distanza. In un certo verso la cosa mi rassicura, data la mia paura degli altri. È come se fosse una barriera di protezione. In sostanza il motto dell’autolesionista potrebbe essere: Sono io a farmi del male, non tu!

Si tratta dunque di una patologia dell’identità affettiva e di genere caratteristica di donne giovani e insicure, che va sottratta alla solitudine e affidata alle cure della psicoterapia, e, laddove possibile, accolta in gruppi di auto aiuto, perché si sviluppi un’identità femminile matura, capace sia di autonomia che di relazione.

Una valutazione psicosociale

Una ragazza, che ha dialogato con me tramite e-mail, descrive con precisione la funzione difensiva dell’autolesionismo (d’isolamento e rivendicazione autarchica di controllo su di sé):

Mi sembra che tutto sia cominciato intorno ai 16 anni, quando ho cominciato a sentire dentro di me una strana sensazione, come di disagio, una velata malinconia. Il rapporto con i miei genitori non è mai stato dei migliori. O meglio, in famiglia non ci sono gravi problemi ma a volte litigavo di brutto con i miei, soprattutto con mia madre, che ha una visione della vita diametralmente opposta alla mia. Poi per altri motivi (amicizie, mancanza di amori, e altre cose), ho cominciato a sentirmi triste, sempre, ovunque e comunque.

Questi “sfoghi” sul mio corpo non sono mai seguiti a delle liti, non sono mai stati degli sfoghi di rabbia immediata. Mi ritrovavo magari a graffiarmi con le unghie dei piccoli brufoletti o imperfezioni che sentivo sulle braccia o sulle gambe, cose che mi hanno sempre dato fastidio e irritato, e da lì mi provocavo tante piccole ferite, tanti piccoli graffi, ma tutto ciò di solito avveniva in momenti in cui non avevo pensieri per la testa oppure quando mi sentivo... non so... stufa di tutto. Ciò accade anche oggi. Quando sento dentro di me come un insostenibile fardello e non ho voglia di fare niente, allora comincio a stuzzicarmi. Odio sentire le croste dei graffi sul mio corpo, sicché mi graffio nuovamente per toglierle... Inutile dire che mia madre ha sempre trovato le mie magliette piene di macchie di sangue, ma mi dice semplicemente che s’è rotta le scatole di lavarle, non che le importi qualcosa del mio malessere.

La giovane autolesionista è molto esplicita: dapprima c’è una tristezza di tipo depressivo, che potrebbe spingerla a chiedere contatto affettivo a qualcuno, a cercare un senso della vita fuori della sua stanza, del suo isolamento, o anche indurla a protestare nei confronti del mondo in cui vive. Questa tristezza tuttavia urta contro la barriera di una delusione, di una mancanza di fiducia in sé e negli altri. Poi, da quel momento, si avvia come per forza d’inerzia la pratica autolesionista: la ricerca di dolore, la sensibilità autoreferenziale, l’imbruttimento del corpo.

L’effetto è che la ragazza si isola (il dolore contrae l’io; la sensibilità chiusa nell’io esclude la relazione col mondo; l’imbruttimento genera vergogna e bisogno di nascondersi), e cessa di desiderare un contatto ritenuto inutile.

Autolesionismo ed introversione

L’autolesionismo, dunque, coincide con l’affermazione di una personalità sempre più introversa e solitaria, che radicalizza questi suoi tratti allo scopo di non dipendere da nessuno.

La persona autolesionista introversa considera la sofferenza come un dato esistenziale non solo ineludibile, ma anche immancabile e costante (e in ciò rivela una certa disposizione alla depressione e al masochismo morale); ma proprio pertanto tale sofferenza deve essere amministrata per intero dal suo io. L’autolesionista introverso non sopporta che la sofferenza – che colora per intero la sua vita – possa derivargli o essergli imposta da qualcun altro. Egli deve infliggersela da sé: secondo modalità e gradi che la sottraggano alla casualità esteriore e la conducano e la confinino nell’ambito della scelta soggettiva. Mi do la sofferenza che voglio, dice il soggetto autolesionista. Poiché la vita è sofferenza, sarò io, non tu, a scegliere quale e quanta me ne darò!

Spesso questa patologia, soprattutto quando si manifesta in fase giovanile, coincide con il rifiuto di una condizione di vita ipercontrollata o iperprotettiva, dovuta a famiglie che controllano la morale dei comportamenti dei figli o proteggono il loro corpo (lo custodiscono come un valore sacro) ignorando o mistificando l’esistenza di una sensibilità e di una psiche meritevoli di attenzioni quanto e più dei comportamenti esteriori e del corpo. In questo caso, il giovane autolesionsita “gusta” la sofferenza come un viatico alla consapevolezza di possedere un mondo interno, non solo un corpo esteriore dominato dagli altri.

Altre volte, l’autolesionismo coincide con una condizione di indigenza o di marginalità nella quale la società – quella che ho chiamato, sulla scorta degli studi di Illich, la “società terapeutica” o “anestetica” (2 e 3) – impegnata nel valore dell’assistenza fisica, viene ripudiata con odio sulla base della sua inettitudine a coltivare i valori della psiche e della sensibilità morale. L’autolesionista, che in questo caso è più impulsivo e conflittuale del giovane introverso e raffinato, si fa del male perchè il dolore o il danno autoinferto lo “risvegliano” e gli restituiscono la sensazione di una proprietà di sé.

L’autolesionismo come tendenza epocale

Intesa come protesta di categoria (di alcune frange giovani o di marginali) l’autolesionismo da solitario e nascosto può divenire un fenomeno trendy, di tendenza, e come tale esibito (almeno nei suoi stili e nei suoi risultati ultimi).

Coltivato come una forma di moda e di comunicazione interpersonale, l’autolesionismo non è allora più da considerare una semplice psicopatologia bensì una forma complessa di perversione morale, gli strumenti della cui risoluzione dovranno pertanto essere non solo psicologici ma anche di carattere psico-sociale, politico e culturale.

La patologia rivela, dunque, una grave lacuna culturale: la società attuale si mostra esperta nella gestione fisica delle persone (sacralizzando il concetto di salute del corpo e di amore di sé), di fatto però fingendo di ignorare che la salute del corpo è un effetto della sua libertà; e che la libertà del corpo coincide sempre con una coscienza personale in grado di opporsi in modo fruttuoso ai condizionamenti sociali.

In sintesi, ciò che manca al giovane autolesionista è il pieno sentimento del diritto a opporsi al dogma sociale che comanda la fruizione passiva del benessere fisico piuttosto che l’analisi profonda del malessere psichico, sia personale che collettivo. Da una parte la sua famiglia vive immersa in una psicologia di beni e di sicurezze fisiche; dall’altra, la società intorno lo espropria del corpo (come fa con tutti), per metterlo a servizio dell’industria del benessere, delle politiche sociali e di una medicina sempre più invasiva e coattiva. In questo panorama di controllo assoluto dei corpi a tutto sfavore del rispetto per la psiche individuale e la dignità della persona – che comprende il diritto di proprietà sul corpo personale – l’autolesionista gioca la sua partita di resistenza: un lento, inesorabile teatro della violenza e della provocazione.

In questi casi, il dialogo psicoterapeutico o sociale dovrebbe essere in grado di accettare la sfida della libertà (il diritto di farsi del male) che l’autolesionista lancia ai suoi interlocutori e far sì che avvenga un ribaltamento dei valori: che si dia parola e dignità ai dolori sepolti, che si valorizzino i contenuti introversi, che si rafforzi l’identità soggettiva, in modo che il controllo su di sé invocato dalla patologia sia il prodotto di una mente ferma e consapevole, piuttosto che della compulsiva capacità di infliggersi il dolore fisico.


Bibliografia

  1. Nicola Ghezzani, Quando l’amore è una schiavitù, Franco Angeli, Milano, 2006.
  2. Nicola Ghezzani, Autoterapia, Franco Angeli, Milano, 2005.
  3. Ivan Illich, La nemesi medica, Red, Como, 1991.