Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Antonio Scurati

Il sopravvissuto

(Romanzo, editore Bompiani, anno 2005)

Fotografia di Antonio Scurati.

Il romanzo di Antonio Scurati Il sopravvissuto nasce da un impulso che esplode per intero nelle prime trenta pagine: un impulso violento, di cui lo stesso autore è in parte inconsapevole. Si tratta di un impulso non solo violento, ma anche e soprattutto cieco, opaco, bruto; un impulso di cui l’autore – dopo averlo fatto interamente suo per una ventina di pagine – si vergogna al punto di passare il resto del romanzo nascosto dietro lo sguardo tormentato di un semplice spettatore. Insomma, Antonio Scurati, dopo aver creato una situazione di altissima incandescenza, se ne separa quanto basta per prendere una distanza di sicurezza. Dunque, pur con grande perizia tecnica, getta il sasso e nasconde la mano.

In principio, nell’avvio limpido e folgorante, l’autore (lo scrittore) sta tutto nel corpo di un giovane, tenebroso massacratore, tale Vitaliano Caccia, ventenne, il quale il giorno del fatidico esame di Stato (dove il suo destino di bocciato è già deciso) raggiunge l’aula dell’esame armato di pistola e fa strage di sette esaminatori sugli otto presenti.

Lo seguiamo un passo dietro l’altro, un gesto dietro l’altro, nella fredda, spietata esecuzione del delitto, ipnotizzati dalla sequenza. Poi, veniamo di colpo allontanati dalla scena dalla metamorfosi dell’autore (che da scrittore diventa spettatore). Compiuta la strage, l’autore fa scomparire l’omicida e sviluppa il romanzo sui dubbi morali di uno spettatore, che, nella fattispecie, è l’unico docente scampato, il sopravvissuto appunto: tale professor Andrea Marescalchi, il quale sin dall’inizio, pur dietro il velo di una generica pietà, prende le difese del giovane mostro.

A dire il vero, la complicità fra i due sembra essere reciproca: il professore difende il giovanotto nell’esatta misura in cui il giovanotto ha difeso lui, salvandolo dal massacro. Al momento in cui potrebbe – e, secondo ogni logica, dovrebbe – ucciderlo, egli non gli punta addosso l’arma con cui ha compiuto il massacro, ma un dito, l’indice. Poi, va via, lasciandolo illeso. Lo salva, dunque, ma per chiamarlo, per il resto dei suoi giorni, ad essere il testimone privilegiato dell’evento.

In un paese allucinato del Nord-Est, dove i maiali hanno luoghi di raccolta non più brutti dell’edificio prefabbricato che fa da scuola ai giovani, un ragazzo uccide tutti i suoi esaminatori, tranne uno (quello che più degli altri sembra stare dalla sua parte), costringendolo così a domandarsi per sempre perché.

Nelle pagine dai toni tragici e grotteschi del romanzo, lo scrittore dapprima si identifica con il giovane assassino, poi sceglie di narrare il resto della storia dal punto di vista dell’attonito sopravvissuto: di colui che non sa – e che è costretto pertanto a chiedersi perché. Da questo basilare rifiuto dello scrittore a identificarsi con l’omicida, a far parlare lui, a vivere accanto a lui, prende le mosse l’intera struttura del romanzo: che è storia del tormento morale dello spettatore sviato nelle serpentine dell’ipocrisia.

In verità, il professore tenta di darsi delle spiegazioni, fra le quali la più avvincente è che sia stato lui stesso a imbeccare il ragazzo fornendolo del ruolo del giustiziere. Giustiziere ora del disordine in cui giace la scuola, ora del tradimento dei giovani (e della giovinezza) di cui sarebbero rei gli insegnanti, ora della futilità dell'insegnamento a fronte dell’inafferrabilità del mondo contemporaneo. Tutte ipotesi che lasciano il tempo che trovano. Andrea Marescalchi, il professore, non se ne lascia convincere. La violenza resta enigmatica, senza risposta. Fino alla fine del romanzo.

In verità, anche quella di Edipo è storia di una violenza enigmatica, cui l’attore, l’omicida, non sa e non può opporre nulla, rivelandosi così da carnefice apparente vittima designata di un destino atroce. Ma la differenza fra il tragico antico e quello moderno è assoluta. Sofocle dà al coro la parte che gli spetta: quella di approfondire il senso delle domande, la cui risposta non è mai sottratta ai protagonisti: uomini e dei. Scurati, invece, fa parlare il coro, solo il coro, in continuazione: il romanzo è il commento al delitto, la lunga coda di una piccolissima cometa, subito remota. Altra differenza: Sofocle avrebbe fatto emergere pian piano l’ordine della legge, contro il disordine causato dall’omicida. Scurati lascia ogni cosa abbandonata al disordine dell’evento, caricandolo per di più di un grottesco che lo fa apparire irredimibile.

Il tragico moderno, dunque, ci condanna alla domanda, perché lui stesso non può darsi una risposta. In realtà, vuole restare al di qua della risposta, al riparo da essa: egli coltiva la sua debolezza. La debolezza dell’intellettuale, che sta muto di fronte ai fatti perché rifiuta di prendere posizione. E poiché La risposta viene solo dalla posizione del soggetto di fronte alla realtà, restando ambiguo lo scrittore si preclude ogni risposta. Attende la pioggia come un assetato in un deserto, o aspetta che venga Godot come Vladimiro e Estragone nella pièce di Beckett.

Più sta al di sopra (o al di sotto) delle parti, meno l’intellettuale è in grado di fornire le condizioni per l’avvento di una risposta.

Ma quel delitto può avere una risposta almeno da parte nostra, da parte del lettore?

Essendo io un’intellettuale che ama il rischio, che non teme di compromettersi perché ritiene di essere già stato irrimediabilmente compromesso dall’evento della nascita, provo a dare una risposta. E dico: conflitto di classe mistificato, sviato dalla coscienza, e perciò più doloroso, anzi angoscioso.

Quale conflitto? Il malessere del Nord-Est, il malessere dei “ricchi” e dei loro figli, dimostra che essi – questi ricchi produttori e i loro “privilegiati” figli – sono sì ricchi, ma non sono affatto potenti. Nello specifico, essi sono – e sanno che resteranno sempre – anonimi, ignoti, sconosciuti. Sanno che non potranno mai partecipare ai processi decisionali che presiedono non solo al destino collettivo (della nazione, della polis), ma persino al loro stesso destino personale.

I figli del nostro benessere industriale sanno che potranno diventare ricchi, forse anche più dei padri, ma a patto che non rivendichino mai potere. E parlo di un potere specifico: il potere di determinare i destini, sociali e personali. Questi ragazzi sanno che non saranno mai chiamati a decidere alcunché. L’omicidio, allora, il suicidio, l’atto eroico nichilista, non sono altro che l’aborto informe, mostruoso del tentativo di darsi un volto, un nome, un’identità; in una parola: un potere.

Sanno di essere impotenti, ma non sanno fino a che punto. Avere una moto o soldi da spendere li fa sentire liberi, pur non essendolo affatto; e questo genera in loro un senso di pericolo, di minaccia: genera angoscia. Uno stato d’animo fosco, opaco, che non ha nemmeno la luce arida della disperazione.

Ed è proprio questo stato continuo di angoscia che rende certi personaggi contemporanei così terribilmente kafkiani.

Perché, in sostanza, quale era l’angoscia di Kafka? L’angoscia di Kafka era quella dell’ebreo assimilato che intuisce il pericolo, ma, proprio in quanto assimilato, non crede ai suoi occhi e a quell’angoscia non sa dare un significato; avverte l’odio intorno a sé, ma non sa dargli un senso, un’origine, un nome. Il nome corretto era antisemitismo e il concetto che stava per definirsi era uno solo: soluzione finale. Fu l’olocausto a consegnare a uomini e donne come Kafka – assieme all’identità di ebreo e alla necessità di una nazione ebraica, Israele – la chiave della prigione di angoscia in cui erano reclusi e a mostrar loro la porta cui quella chiave avrebbe dovuto applicarsi per poter fuggire. Solo a quel punto l’angoscia, il terrore senza nome, il panico di un orrore inafferrabile, scomparvero d’incanto, per lasciare il posto alla drastica chiarezza della lotta.

Qual è dunque la lucida intuizione che sfugge ai giovani figli del nostro tempo rispetto alla loro invisibile lotta? Semplicemente una: l’avere il coraggio di dirsi: Sì è vero siamo ricchi, ma lo siamo come maiali: ingrassiamo a beneficio d’altri.

Affermazione che libererebbe anche l’intellettuale della sua peculiare impotenza: il suo bisogno di “stare al gioco”, la sua incapacità di segare il ramo sul quale si è seduto finalmente a scrivere.

Chi siano questi “altri”, cui producendo e consumando (ingrassando) conferiamo potere, è la prima domanda che dovremo porci; diversamente il rischio sarà quello di prendersela ancora coi professori (meri simulacri del potere): come accade al piccolo Edipo di provincia, Vitaliano Caccia, di cui il romanzo di Scurati racconta con stupore e con orrore (e con indubbia maestria) la muta, indicibile sofferenza.