Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Intervista sulla timidezza

con Valeria Pini per “La Repubblica — Salute”

(riadattata e pubblicata nel gennaio 2012)

Gentile professor Ghezzani, ho letto il suo libro A viso aperto e vorrei farle una breve intervista sulla timidezza.

Le mando varie domande, Lei scelga quelle che la ispirano di più e se può mi risponda con un linguaggio “parlato”.

Si può essere “prigionieri” delle emozioni? Come aiutare una persona troppo timida? A che eccessi può portare la timidezza (se magari può citarmi qualche caso particolare).

Non direi tanto che possiamo essere prigionieri delle emozioni, direi piuttosto che sono le emozioni ad essere prigioniere dentro di noi. Il patrimonio delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti è sempre molto più ampio, eterogeneo e contraddittorio di quanto la nostra coscienza ordinaria riesca a integrare e contenere. Siamo pieni di rigidità morali e di paure, quindi controlliamo e limitiamo il libero flusso delle nostre emozioni. E questo è proprio ciò che accade al timido, che ha una estrema paura (una “fobia”) dei suoi contenuti emotivi e proietta sul “pubblico” di fronte a lui, sugli “altri”, il suo timore di essere mal giudicato. Sa o intuisce di avere emozioni, sentimenti, pensieri che lo fanno essere “diverso” rispetto al contesto e ha il terrore che gli altri se ne accorgano.

Il limite patologico massimo cui può giungere la timidezza è la cosiddetta fobia sociale, che è un disturbo d’ansia. Esistono timidi – che in realtà sono appunto fobici sociali – che si chiudono in casa e escono il meno possibile. Una mia paziente, per esempio, angosciata di avere una estrema sensibilità che l’aveva fatta sentire diversa in famiglia e poi sul lavoro aveva pressoché disimparato a parlare. Viveva in una sorta di mutismo e di esasperata solitudine interiore. Non arrossiva nemmeno più, tanto poche erano le occasioni nelle quali si esponeva. Ha cominciato a guarire quando le ho consigliato di dare spazio alla sua vocazione poetica. Oggi scrive, frequenta altri poeti e ha ritrovato la sua socialità naturale.

Esistono vari tipi di timidezza? Esistono ad esempio persone timide che aggrediscono? Oppure timide solo in alcune situazioni. Mi può citare qualche timido celebre nella storia?

Esistono almeno tre tipi diversi di timidezza: la timidezza propriamente detta, che ci porta ad arrossire o balbettare di fronte a qualcuno, ma che non danneggia in modo grave la nostra dimensione sociale; esiste poi la fobia sociale, che invece è un disturbo di una certa entità, tale per cui la vita sociale è limitata, non si hanno amici o partner sentimentali, non si danno esami o non si fanno concorsi perché si ha paura dell’incontro con il professore o il selettore, talvolta ci si chiude in casa depressi. Poi esiste l’introversione, che è una particolare forma del carattere e dell’intelletto, nella quale l’individuo sta meglio con se stesso che con gli altri, ha un suo mondo interiore ideale e spesso sviluppa intensi interessi culturali.

Nel mio libro A viso aperto fornisco una accurata descrizione di queste differenze. Nello stesso libro cito il celebre caso di Leonardo da Vinci, che scrisse gran parte dei suoi pensieri a solo uso personale, avvertendo una sostanziale repulsione per l’ignoranza dei suoi simili. Leonardo è stato un introverso che ha superato in modo adeguato la fase della timidezza. Emily Dickinson invece rimase timida e fobica fino alla morte, pian piano si chiuse nella sua camera dalla quale uscì sempre di meno. Le sue poesie vennero conosciute solo dopo la sua morte. Tra i moderni, mi vengono in mente (fra i moltissimi esempi possibili) gli scrittori Franz Kafka, Jerome Salinger e Dino Buzzati, gli attori Montgomery Clift e Anthony Perkins, il cantautore Fabrizio De André, che ogni volta che doveva andare sul palco aveva una crisi d’ansia e la famosa Mina (Mina Mazzini) che da una certa data in poi non è mai più comparsa in pubblico.

Siamo tutti timidi? Su 10 persone quante possono essere considerate timide e quante lo sono in modo patologico?

La timidezza è universale nella misura in cui tutti abbiamo un qualche timore del giudizio altrui; ma tocca un 5% circa della popolazione a un livello che può essere definito patologico. In fondo la timidezza è un disturbo d’ansia e come tale coinvolge una buona parte delle persone affette da disturbi d’ansia. Accade spesso che, per esempio, una persona che soffre di attacchi d’ansia e di panico sia anche timida o abbia qualche forma di fobia sociale e che un soggetto ossessivo, con pensieri “strani” e distonici che lo tormentano, tema il giudizio altrui.

Possiamo parlare di patologia quando il timore del giudizio è paralizzante e impedisce alcune funzioni vitali: fare una visita ad amici; mangiare in compagnia; firmare dei documenti sotto gli occhi di una figura istituzionale; corteggiare un possibile partner; fare un esame o sostenere un’interrogazione; presentarsi a un concorso; parlare in pubblico ecc.

È importante educare i bambini a non essere timidi? Oppure cercando di intervenire li si rende infelici?

L’educazione dei bambini dovrebbe essere comunque affidata all’empatia e al massimo rispetto possibile della loro singola e irripetibile personalità. Quando ci si accorge che un bambino cresce timido, lo si dovrebbe innanzitutto capire nelle sua qualità più soggettive, poi capire nelle sue paure, infine lo si potrebbe aiutare a esporre le proprie qualità e rinforzare così l’autostima. Forzarlo a essere estroverso e socievole in modo generico può comportare un grave danno, primo perché lo si induce a credere che così com’è è inadeguato e “sbagliato”; secondo perché lo si espone all’angoscia della performance.

Non si deve pensare alla timidezza come a una “malattia” ma come a una forma di insicurezza nell’autostima, quindi tutto ciò che favorisce l’amore del bambino per se stesso è ben fatto. Il bambino deve sentirsi accettato e amato in se stesso, non confrontato a uno standard sociale e giudicato sulla base di esso.

Come “scongelare” il timido? Come si procede nella terapia? Esistono consigli utili o regole da seguire?

Nella mia psicoterapia della timidezza consiglio innanzi tutto di non esporsi in modo cieco e forzato alla comunicazione. Dico che il mondo interno deve essere protetto dal timore del giudizio.

Quindi:

  1. raccogliersi in se stessi e se necessario chiudersi ancora di più;
  2. capire quale giudizio si teme da parte degli altri;
  3. rovesciare il giudizio e scoprire quali qualità positive il giudizio morale interno tende a squalificare (sei troppo sensibile; sei un fallito; sei goffo; sei brutto ecc. dove la sensibilità, il bisogno di sottrarsi a una competizione, di sottrarsi al ricatto dell’immagine sociale ecc. devono essere rilette come qualità positive e di natura critica);
  4. riprendere ora la vita sociale solo secondo le qualità così scoperte (se sono sensibile svaluterò o anche scarterò le persone insensibili; se non amo competere svaluterò o scarterò i tipi troppo competitivi);
  5. scoprire qual è la socialità cui mi dispongono le mie qualità (i sensibili non competitivi potrebbero essere persone squisite, che sanno riconoscersi fra loro). A questo livello si possono creare o scoprire gruppi di appartenenza cui prima nemmeno si pensava;
  6. proiettare le proprie qualità positive ed eventualmente o nuovi gruppi di appartenenza nel “futuro”, cioè nella prospettiva di un mondo migliore, nel quale le qualità scoperte siano accolte e rese parte del progresso umano e sociale.

Esistono cose che lo psichiatra può chiedere al timido di fare per superare le sue paure (come nel film Emotivi anonimi), come ad esempio invitare una ragazza o affrontare il capo?

A volte è necessario “esporsi” alle proprie paure, ma solo quando il desiderio raggiunge una soglia critica, quella della “passione”, cioè della “necessità morale”: se amo davvero quella ragazza o devo chiarire la mia posizione etica con il capo allora posso attingere a una forza morale che travolge le limitazioni del mio io. Se questa forza travolgente non si manifesta è inutile forzarsi; il timido deve chiedere a se stesso la maggiore autenticità possibile e deve muoversi in modo sincero (prima di imparare a mentire come tutti gli altri: l’autenticità non deve essere a sua volta una forzatura ma una opzione possibile, una facoltà a disposizione dell’io).

“Aldous Huxley” (1936), fotografia di Cecil Beaton.

Nella nostra società la “socializzazione” è considerata importante. È per questo che gli introversi soffrono di più?

Certo. Gli introversi soffrono perché la socializzazione che viene proposta è di solito superficiale. Direi che è banale comunicazione, non vera e autentica socializzazione. In linea di massima si tratta di una socializzazione improntata alla logica della “competizione” e della “vendita”, tipica della nostra attuale società liberale e neoliberista.

La socializzazione dell’introverso è invece selettiva e profonda, basata su vere affinità reciproche di gusti, di sensibilità e valori.

Nella società dell’apparire, dello strillare e spesso della volgarità, come può un timido farsi avanti senza comunque perdere la sua particolarità?

È chiaro: mirando a trasmettere il suo pensiero e il suo sentimento piuttosto che l’enfasi e il tono della voce. Non è importante tanto “esserci”, quanto piuttosto la qualità della presenza. Non è importante imporsi, ma proporsi.