Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Derealizzazione e rirealizzazione esistenziale

Descrizione del fenomeno

La parola derealizzazione definisce già di per se stessa l’oggetto di cui intendiamo parlare: si tratta di un sintomo totalizzante, che altera la percezione e il sentimento della realtà, quindi tende a trasformare col tempo l’intera visione del mondo. Chi soffre di questa alterazione emotiva percepisce il mondo come estraniato da un velo distorsivo: quindi distante, remoto, strano, inerte, artificiale, arcaico, morto o immerso nell’atmosfera di un sogno. Gli aggettivi abbondano perché ciascuno deve inventare un suo vocabolario personale per descrivere qualcosa che non è esperienza comune e viene vissuto di solito nel più totale isolamento.

“Il velo nero”

A un’attenta analisi della descrizione del fenomeno fatta da diversi soggetti1 è relativamente agevole riscontrare che il comune denominatore è l’apatia emotiva cui si sovrappongono spesso e in modo consequenziale sia il panico che la depressione. Il primo effetto della derealizzazione è un distacco emotivo, una anestesia emotiva (una sorta di massiccia apatia), la quale, venendo avvertita dal soggetto come “anormale”, induce reazioni di panico e, col tempo, esiti di tipo depressivo.

La funzione del sintomo

Ogni sintomo, a mio avviso, ha una funzione specifica, conseguita al prezzo di una più o meno grave minorazione della soggettività. Una fobia ha la funzione di limitare la vita del soggetto nel perimetro delle sue paure; una ideazione ossessiva ha la funzione di controllarlo all’interno di pensieri fissi e atti rituali; una depressione lo denigra e lo punisce in modo attivo ed esplicito. Dunque, il sintomo assolve sempre ad una funzione di controllo. Ebbene, da questo punto di vista, anche la derealizzazione sembra avere una sua “funzione”: quella di imporre al soggetto una emozionalità apatica inibendo emozioni vitali sempre in procinto di affiorare; ciò allo scopo di instaurare un controllo totale sulla sua vita emotiva. Questa mia tesi ha un riscontro plastico, persino “plateale”, in uno dei sintomi correlati più singolari: la sensazione di essere fuori dal proprio corpo e di osservarsi dall’esterno, come per effetto di una visione extracorporea o di una telecamera in azione. In questo caso, il controllo ha raggiunto la sua massima espressione.

Per capire meglio questo mio punto di vista “dialettico” (il sintomo assolve sempre ad una funzione di controllo) entriamo in una metafora. Immaginiamo di essere di fronte ad uno schermo e di assistere ad un film accompagnato da una colonna sonora. Immaginiamo ora che la proiezione del film ci stia inducendo una serie di suggestioni e riflessioni sulla nostra vita o su qualche importante evento occorsoci di recente. La riflessione comincia a turbarci, a indurre dubbi su di noi o su qualcosa di amato o sul senso delle nostre azioni e dell’intera esistenza, ed ecco che un compagno di visione, accortosi del nostro turbamento, impugna il telecomando e annulla l’audio (scompare la colonna sonora musicale e i personaggi muovono le labbra senza che noi se ne possa comprendere il senso); in più distorce le immagini: alcune sono remote, altre rallentano, altre ancora mutano la tonalità cromatica, che diventa più grigia, più monotona... Se noi non siamo coscienti della manovra fatta dal nostro compagno di visione e sollevando lo sguardo di là dallo schermo percepiamo il mondo intorno a noi allo stesso modo di come accade sullo schermo ecco che possiamo avere una reazione di panico. La sensazione di avere un disturbo neurologico o di impazzire si impone; e se dura a lungo, questa viene compendiata da un’angoscia di impotenza che si muta presto in disperazione e depressione.

Una forma patologica di autocontrollo

“Caduta fatale del pilota Karl Buchstätter”

Restando alla metafora del televisore, sarebbe un errore pensare che l’apparecchio è rotto: perché in realtà c’è un manovratore che ne sta alterando le funzioni! Allo stesso modo, nei sintomi d’ansia non dobbiamo pensare di avere una malattia neurologica o una patologia biochimica “intrinseca” (cioè connaturata al nostro cervello). Il punto è che una parte della nostra psiche sta distorcendo le percezioni di un’altra. Questa distorsione è psicologica, ma come ogni fenomeno psicologico ha un interfaccia nei flussi elettrici e biochimici del cervello. Se siamo in preda ad una qualunque reazione da ansia o da panico “normale”, cioè suscitata da un evento ansiogeno oggettivo, i nostri sistemi neurologici (elettrici e biochimici) si modulano secondo questa reazione. Purtroppo, nelle nevrosi d’ansia il movente ansiogeno – il “grilletto” dell’ansia – è nascosto e finché resta tale i sintomi continuano a imperversare.

La derealizzazione va spiegata allo stesso modo. La derealizzazione inibisce e ottunde una serie di emozioni viscerali (paura, rabbia, odio, ansia, gioia, piacere, desiderio, frenesia...) e impone al suo posto le emozioni sociali di autocontrollo. La percezione emotiva viscerale di sé e del mondo è infatti atona e vuota e il rapporto con la realtà manca di qualunque apporto “istintuale”.

Il più delle volte, infatti, il derealizzato (come l’ossessivo e il depresso) è del tutto incapace di “eccessi”. Questa limitazione delle emozioni vitali dimostra che la derealizzazione funziona all’interno di un sistema di auto-regolazione. Nel momento in cui l’individuo sta per andare incontro a un forte squilibrio emotivo, il sintomo lo riequilibra in modo automatico e obbligato. Poiché ogni sintomo ha una funzione (cioè ogni sintomo è allo stesso tempo un sintomo ed un meccanismo di difesa), anche la derealizzazione va vista come una difesa, che favorisce le emozioni di autocontrollo inibendo e deprimendo quelle viscerali. Purtroppo, essendo un atto difensivo inconscio, può generare nella coscienza ansia e reazioni di panico2.

Una testimonianza

Faccio un esempio. Un bambino viene invitato da bambini più grandi a visitare l’arnia delle api di un giardino vicino casa. Il bambino è affascinato dall’avventura e, anche se ha un po’ paura e qualche senso di colpa, perché i genitori gli raccomandano di non fare cose pericolose, non vuole sfigurare con i compagni. Si avvia in direzione dell’arnia, ma in quel momento le api lo attaccano. Potrebbe urlare, fuggire, scacciare le api con le mani; ma prova ansia, tanta ansia che si rifugia in una percezione nella quale tutto sta accadendo come in un sogno. Il velo onirico lo difende dall’esplosione della paura (forse anche dai sensi di colpa, perché seguendo gli amici nell’avventura ha disobbedito ai genitori) e lo rende, in un certo senso, invulnerabile, impenetrabile. Se poi però racconta l’accaduto agli amici o agli adulti e ne riceve stupore, allora comincia a sentirsi anormale.

La storia appena raccontata è una versione semplificata di una testimonianza reale tratta da un forum. Eccola:

Ero un bambino di dodici anni. Una sera mi trovavo ad una festa di compleanno. Eravamo in tanti lassù in montagna. Mentre stavo mangiando, alcuni amici mi chiamarono e mi dissero: vieni abbiamo trovato un alveare con delle api enormi! Io incuriosito (pur avendo paura delle api) li seguii.

Ci ritroviamo di fronte un alveare alto almeno un metro e mezzo, pieno zeppo di vespe enormi!

All’improvviso non so cosa succede, queste escono fuori e incominciano a inseguirci! Io urlo, comincio a correre e mi rifugio in una casa. Da quell’urlo qualcosa ha cominciato a non quadrare dentro di me e ho cominciato a sentire e vedere le cose in modo strano: mi sembrava tutto un sogno ed ero agitatissimo. Non capivo e non sapevo nemmeno descrivere che cosa avessi.

Essendo piccolino, alla fine gli adulti che erano lì si sono dispiaciuti e hanno cercato di calmarmi dicendomi che era tutto finito. Ma io non potevo dire loro come mi sentivo perché temevo che mi portassero in ospedale. Eppure morivo dalla voglia di far loro capire che in quel momento non era per le api che ero spaventato, ma per quegli strani sintomi!

Mi feci forza e mi feci riportare a casa dal papà di un amico. Per tutto il tempo finsi di stare meglio ma dentro morivo dalla paura. Per me era tutto un sogno! Proprio un sogno!

Poi arrivo a casa faccio di fretta le scale. I miei mi vedono entrare e sorridono pensando che la festa sia finita. Io allora racconto loro cosa è successo. Ma loro non mi capiscono e di conseguenza io sto male tutta la notte. Poi mi addormento e il giorno dopo quella “brutta cosa” non c’è più.

Purtroppo però, di tanto in tanto, questa si ripresentava a sorpresa: era orribile: sentivo un velo che calava su di me, i movimenti delle persone erano strani, le voci erano strane, cosi strane che mi dava fastidio sentirle e non riuscivo nemmeno a guardare le persone negli occhi. Ma io nascondevo tutto per paura! Mi chiudevo in camera e piangevo mentre tremavo dalla paura! Poi il sintomo cominciò a presentarsi ogni giorno; i miei non mi capivano, cosi non dicevo nulla, pensavo succedesse solo a me e cercavo di farmi forza e andare avanti. Non avevo nessuno! Impegnatomi con perseveranza, un giorno si alleviò tutto. A quattordici anni e mezzo la derealizzazione era sparita!

Purtroppo, però, negli ultimi anni ho avuto altre disavventure e da circa due anni e mezzo è tornata ed ora ne soffro di nuovo ogni giorno.

Nel seguito della vita reazioni difensive del tipo descritto possono diventare così estese e massicce – sia come intensità che come durata – da configurare una effettiva patologia del rapporto fra emozioni vitali e autocontrollo. La mente ha preso ormai una certa direzione, un certo stile difensivo, e ogni volta che le emozioni raggiungono un livello di soglia, la reazione di derealizzazione si impone come un meccanismo automatico, generando a sua volta panico o depressione o, talvolta, anche uno stato di apatia generalizzato (una sorta di atarassia emotiva diffusa).

Claudio. Storia di un paziente

Un mio paziente, chiamiamolo Claudio, soffriva di derealizzazione sin da piccolo. Era il figlio unico di una coppia di persone perbene, ma fra loro molto conflittuali. Quando litigavano alzavano talmente i toni da minacciarsi reciprocamente di morte. Cosa che nessuno dei due avrebbe mai realizzato, ma che veniva presa sul serio dal figlio, che ne era terrorizzato. La conseguenza fu che, sin da piccolissimo, Claudio fece di tutto per non alterare ulteriormente il clima emotivo domestico e divenne il classico “bravo bambino”: studioso, responsabile, forzatamente calmo. Sviluppò quello che Winnicott chiama un falso sé ed io definisco io alienato. In questa alienazione Claudio aveva esaltato i suoi bisogni di appartenenza familiare, compiacendo le aspettative dei genitori, e aveva inibito i bisogni di opposizione e individuazione che gli avrebbero comandato di urlare la sua protesta, di chiedere affetto, di vivere in modo vitale, senza paura di disturbare.

Cresciuto divenne un “bravo ragazzo”, studioso e molto inibito con le ragazze. Le drammatiche esperienze di derealizzazione che aveva avuto da bambino (ogni volta che padre e madre esplodevano in conflitti furiosi) tornarono a imporsi ogni volta che avrebbe voluto allontanarsi da un gruppo di amici ormai inadeguato o quando il desiderio sessuale lo avvicinava a una ragazza. Cioè ogni volta che egli stava per diventare aggressivo (abbandonare un gruppo) o veniva attratto su una piano erotico il sintomo lo bloccava! Dunque, la derealizzazione lo “proteggeva” sia dall’aggressività che dalla sessualità.

Studente universitario di eccezionale intelligenza, aveva anche una vita domestica disordinata e confusa, nella quale oggettivava la sua inquietudine e il suo bisogno di ribellarsi al codice morale rigido e ossessivo che sviluppato sin dall’infanzia. Insomma, una parte di sé – che Winnicott chiamerebbe il vero sé, Jung la sua ombra e Luigi Anepeta ed io chiamiamo io antitetico – fremeva per rompere il rigido ordine della sua identità: l’immagine artefatta del bravo ragazzo timido, inibito e perbene. Claudio aveva dunque una personalità scissa: era sì modesto e inibito, ma allo stesso tempo ospitava dentro di sé una parte ribelle.

Si laureò in Ingegneria edile e trovò subito lavoro. Ma nonostante i suoi meriti crescenti continuava ad essere il bravo ragazzo di sempre, timido e modesto. In più aveva problemi nell’area della vita sessuale e del sentimento. Ogni volta che era interessato a una ragazza o una ragazza si interessava a lui, egli si sentiva costretto dai suoi principi morali a considerarla una potenziale moglie, da trattare con rispetto e di cui assumersi la piena responsabilità. A questo punto, soffocato dalla trappola psicologica da lui stesso creata, veniva travolto da un’ansia tremenda che pian piano si trasformava in derealizzazione. Per uno strano paradosso, queste inibizioni non esistevano quando era all’estero per lavoro: allora si sentiva letteralmente un altro: riusciva ad essere seducente e a condurre una vita brillante.

In Claudio esistevano dunque due tipi diversi di emozioni: quelle dominanti facevano di lui un bravo ragazzo modesto e responsabile, obbligato a farsi carico dei bisogni altrui; le altre, tanto segrete da manifestarsi solo all’estero, miravano a liberarlo di questo bagaglio rendendolo invece libero di vivere una vita all’insegna dell’edonismo. Ma quando veniva a contatto con le sue emozioni vitali ribelli, ecco che scattava l’ansia, la quale, anziché dare luogo a un attacco di panico, si cristallizzava nell’irrealtà. Era come se una voce fuori campo gli imponesse nella mente un canto ipnotico: Controllati! Controllati!... La vita è solo un sogno....

Dopo un lungo periodo durante il quale analizzammo le sue complesse difese dalla vita emotiva profonda, venne inviato di nuovo all’estero per seguire un importante lavoro. Qui conobbe Cindy, una ragazza dalla personalità un po’ squilibrata (sposata e trasgressiva), ma di bellezza straordinaria che, conoscendo bene gli uomini, individuò in lui un valore che lui stesso stentava a riconoscersi. Dopo una serie di tentennamenti i due divennero amanti. Il rapporto fu per Claudio una sorta di folgorazione. Capì che gli veniva riconosciuto a pieno un fascino umano e intellettuale straordinario, che, per di più, Cindy lo invitava a mostrare e usare senza remore per vincere le sue battaglie e avanzare di rango sociale.

Questa improvvisa crescita dell’autostima però rivelò a Claudio il “difetto” caratteriale che aveva da sempre ospitato dentro di sé senza rendersene conto. Egli aveva sviluppato una segreta fantasia maniacale, l’impulso a vivere una vita egoistica di puro godimento, sbarazzandosi del peso degli affetti. Cindy, pur essendo morbosamente legata al marito che tradiva, professava questa ideologia, sembrando a tratti una meravigliosa puledra spronata fino alla follia e destinata a precipitarsi in un baratro.

La fantasia liberatoria di Claudio era antica: risaliva alla sua sofferta infanzia coi genitori, che amava, ma che pure avrebbe voluto abbandonare; e all’adolescenza, nella quale era stato costretto a misurarsi con coetanei indifferenti allo studio ma in apparenza più “vincenti” di lui. La somma di queste sofferenze aveva portato Claudio a sviluppare un io antitetico inconscio – che si era manifestato all’estero e poi nella relazione con Cindy – inteso a fare di lui un individuo egoista, amorale e finalmente libero!

Quando si rese conto di ospitare dentro di sé questa poderosa fantasia, i sintomi di ansia e di derealizzazione si attenuarono fino a scomparire. Ciò dipese senz’altro dalla rinascita della sua vitalità, ma ancor più dalla consapevolezza che questa vitalità non poteva essere spesa contro gli affetti e il comune senso della vita. Claudio non voleva né sbarazzarsi dei genitori, né mandare all’aria decenni di studi e di paziente lavoro per scivolare su una china di esaltazione maniacale: e i suoi sintomi gli avevano inibito proprio questo tipo di fantasie. L’ansia segnalava sia l’angoscia d’essere intrappolato nelle relazioni che di rivivere il bisogno rabbioso di recidere ogni legame e di “esplodere”; la derealizzazione veniva a sedare ogni tipo di vitalità, quindi di conflitto e di ansia. Sintomi terribili, ma il cui fine era in fondo quello di costringerlo a non commettere atti malvagi, contrari alla sua natura sensibile.

Psicoterapia dialettica

Nella psicoterapia dialettica dell’ansia patologica vanno tenuti presenti tre passi fondamentali.

Il primo passo consiste nel segnalare al paziente che i suoi sintomi non sono disfunzioni neurologiche, ma sono al contrario iper-funzioni, perché hanno una paradossale “utilità” psichica. I sintomi servono a controllare un conflitto affettivo e morale nascosto. Con la loro violenza e imperatività costringono l’individuo a “sedare” ogni impulso alla crescita personale e a “regredire” in una condizione di passività. Ciò allo scopo di non far precipitare il conflitto inconscio a livelli percepiti come più drammatici.

“Uniti nella pace”

Il secondo passo consiste nell’individuare il conflitto psicologico inconscio. Il più delle volte la persona ansiosa cela fantasie di attacco ai legami: ai vecchi legami familiari (una madre oppressiva, un padre autoritario, una famiglia condizionante...) e/o ai legami sociali contratti nella vita adulta: un gruppo di amici che professa una ideologia in cui non ci si riconosce, un ambiente lavorativo nel quale si viene svalutati e sfruttati, un capufficio, un leader o un’autorità di cui non si ha più stima, ecc. L’attacco ai legami viene registrato dall’inconscio soggettivo non solo come atto “contro-natura” , contrario cioè alla sensibilità di base del soggetto stesso; ma anche come atto suicidario, perché va a intaccare e disgregare le reti affettivi e sociali nelle quali e delle quali egli vive.

Il terzo passo è l’analisi e la soluzione del conflitto. Una volta individuato il conflitto inconscio, questo va “analizzato”, “sciolto” nelle sue componenti, capito e possibilmente mediato. Un conflitto non va mai affrontato con pensieri o atti che trascendono le qualità umane e morali del soggetto. Insomma, non si può diventare più deboli o più cattivi di ciò che si è: ognuno ha la sua esatta misura.

Svelare il nucleo conflittuale e la repressione di questo nucleo operata dai sintomi deve dunque assolvere allo scopo di sostituire la presa di coscienza allo strapotere delle dinamiche inconsce e di rendere così superflua la persistenza dei sintomi.

Quindi alla derealizzazione si oppone nel tempo una ri-realizzazione esistenziale nella quale l’individuo riscopre la sua piena vitalità, ma nella cornice di una diversa empatia: nella luce di una sensibilità umana che non può essere mai tradita.


Note

  1. Nella mia pratica clinica ho seguito ormai molte decine di casi di derealizzazione completa e centinaia di casi di disturbi d’ansia accompagnati in modo più o meno occasionale dallo stesso sintomo.
  2. Questa tesi sulla funzione paradossale dei sintomi è descritta ampiamente in tre mie libri, cui rimando: Uscire dal panico 1; Volersi male 2; e La logica dell’ansia 3. C. G. Jung ha descritto questa funzione equilibratrice dei sintomi nei termini di una compensazione dell’atteggiamento cosciente da parte dell’inconscio. Luigi Anepeta ne ha fatto il cardine della sua scienza, la Psicopatologia strutturale dialettica.

Bibliografia

  1. Nicola Ghezzani, Uscire dal panico, Franco Angeli, Milano, 2000.
  2. Nicola Ghezzani, Volersi male, Franco Angeli, Milano, 2002.
  3. Nicola Ghezzani, La logica dell’ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.