Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Intervista sulla dipendenza affettiva

A cura di Daniela Cavallini

Buongiorno Dott. Ghezzani, grazie per la Sua disponibilità ad essere intervistato. Ho letto con molto interesse il Suo ultimo libro, dal titolo L’amore impossibile ed ho riscontrato una modalità molto analitica, nell’affrontare la dipendenza affettiva, catalogandola in quattro differenti livelli.

Buongiorno a Lei, mi fa piacere rilasciare un’intervista allo scopo di aiutare i lettori a comprendere un problema, anzi una malattia, di cui si parla dalla fine degli anni ’80, la dipendenza affettiva.

“Dalianah Arekion”

Entro subito nel vivo del Suo libro, citandola: la dipendenza affettiva, uno stile di relazione caratterizzato da un drammatico e ossessivo desiderio amoroso. Chi patisce questa condizione ama con intensità parossistica anche nel caso in cui il partner designato frustri, rifiuti o persino sfrutti il sentimento di cui è fatto oggetto. Più l’amato si sottrae, più la passione si esaspera. Cortesemente, ci illustra questa dinamica – che oso definire perversa?

Amare fino al parossismo chi non ci ama. Si tratta di qualcosa di più del masochismo, che già è una patologia piuttosto grave. Il masochista sa di implorare l’attenzione di chi non lo ama, sa che ne ricaverà sofferenza, ma non può sottrarsi. Il dipendente affettivo non sa che l’altro non lo ama, quindi vive in un regime di autoinganno che può destabilizzarlo portandolo fino a provare i tormenti del sentimento di ingiustizia e della rabbia conflittuale, della depressione da crollo dell’autostima, della paranoia da gelosia, dell’odio vendicativo. Più che una perversione direi che è un disturbo bella percezione del Sé, quindi è un micro-delirio erotico. Il più delle volte è lieve, ma talvolta può raggiungere picchi di una gravità estrema.

Lei fa un distinguo fra dipendenza ed interdipendenza. Ci chiarisce questo concetto?

La specie umana è una specie interdipendente. L’interdipendenza è la cooperazione che ci lega tutti, gli uni agli altri. Siamo nell’utero materno, come embrioni, e già necessitiamo di una controparte organica. Poi, nasciamo e abbiamo bisogno di nostra madre o di altre figure nutrici. Siamo bambini e abbiamo bisogno di essere nutriti, curati e educati. Eppure, allo stesso tempo, come embrioni modelliamo coi nostri ormoni il corpo materno, come bambini guidiamo la madre e gli altri adulti con le nostre espressioni, gesti, vocalizzi; come adulti, per quanto dipendenti dalla società, noi diamo contributi, ci esprimiamo, siamo creativi. Ecco, l’interdipendenza è quella dinamica circolare, intersoggettiva, che fa sì che mentre gli altri sono in noi, anche noi siamo in loro, in modo efficace e produttivo. La dipendenza è tutt’altra cosa. Dipendere è soggiacere alla volontà dell’altro, annullare la propria identità, estinguere la sorgente che dall’interno del nostro psiche-soma genera di continuo la nostra differenza. Dipendere vuol dire che la nostra efficacia e il nostro contributo all’esistenza altrui, sono ridotti progressivamente. Come con una droga, alla quale non possiamo dire nulla. Alla fine, al grado massimo di patologia, l’unico modo per liberarsi è la morte.

“Donna con idolo”

Lei fa riferimento a ben quattro livelli di dipendenza affettiva, vale a dire: conformistica, conflittuale, riparativa, rivendicativa, oltre ad un cenno ad una quinta tipologia, che definisce “molto grave”, ossia la dipendenza delirante, della quale ne evidenzia i due sottotipi: maniacale e paranoide persecutorio. Ci illustra le differenze?

La dipendenza conformista
La dipendenza conformista è la più elementare: è il difetto di base alla sua origine. Ci si sottomette nella speranza di poter così ottenere amore. È un livello quasi infantile di dipendenza, un livello ingenuo. Perché il dipendente conformista rimuove di continuo i segni del proprio disagio, idealizza il proprio partner come farebbe un bambino con un adulto ammirato, e si adatta a quella che è la convenzione sociale generale o alla convenzione specifica della coppia.
La dipendenza conflittuale
La dipendenza conflittuale nasce nel momento in cui il dipendente si accorge dell’iniquità del rapporto, della asimmetria profonda e si arrabbia. Sviluppa a questo punto quello che io ho chiamato Io antitetico, un Io opposto alla convenzione cui era stato sottomesso nella prima fase, quella conformista. Sicché il rapporto diventa un’altalena continua di dedizione, ribellione, conflitto, senso di colpa e nuova dedizione in un loop che sembra non dover finire mai.
La dipendenza riparativa o depressiva
La dipendenza riparativa, ossia depressiva, consegue alla fase del conflitto permanente. Il dipendente si convince, dopo tanti litigi, che in lui c’è qualcosa che non va, qualcosa di molto negativo. Possono riemergere vecchie mappature neuronali, vecchi ricordi di stati di abbandono e di sfiducia. E il dipendente è ormai un depresso, che si sente condannato alla sofferenza d’amore e alla solitudine.
La dipendenza rivendicativa o persecutoria
Nell’ultima fase (ancora nevrotica, prima di scivolare nella psicosi), il dipendente, come la Fenice che risorge dalle sue ceneri, esce dalla depressione con una carico di odio inestinguibile. A questo punto è certo che il suo amato è il responsabile della sua intollerabile sofferenza, che lo ha sempre ingannato, che lo tradisce, che è un individuo perverso e disumano. Sicché, la dipendente donna di solito reagisce con una persecuzione costante e capillare, fatta di accuse continue, di controlli, di appostamenti, se può si vendica: denuncia l’uomo alla moglie, oppure alla polizia, o ancora gli fa causa per dei danni che le avrebbe procurato,lo convince di essere un mostro di crudeltà, e lo fa con una tale perfida insistenza che l’uomo può arrivare al suicidio; il dipendente uomo invece diventa aggressivo su un piano fisico, sfidante, violento: è costui che, in casi estremi, può arrivare anche all’omicidio.

Esistono dei segnali d’allarme, palesi, manifestati da se stessi e dagli altri, riscontrabili anche agli occhi di chi non possiede la specifica competenza? Intendo dire, espressioni che possiamo considerare come prodromi, al fine di evitare di imbatterci in un rapporto malato o di crearlo noi stessi?

Innanzitutto il sospetto e la gelosia: il dipendente è assediato da dubbi continui su di sé, sulla propri avvenenza, sulla propria amabilità, quindi è sempre insicuro e geloso. Poi, la ripetizione degli schemi di comportamento, nel senso che si viene lasciati sempre allo stesso modo o si litiga sempre allo stesso modo e ci si ritrova sempre con una terribile solitudine in cuore. Infine, il prevalere della sofferenza rispetto alla gioia, l’amore è vissuto come un dolore insopportabile, come una malattia.

“Donna bendata”

Quale consiglio ritiene di offrire, in questa sede, a chi si trova coinvolto in una situazione del genere sopra descritto?

Di pensare sempre che se un comportamento genera insicurezza e bassa autostima, se genera tormento e rabbia e senso di solitudine e si ripete sempre nello stesso modo per anni, ebbene non si tratta di normale passione o di normale drammaticità della vita: si tratta di malattia. E la malattia deve essere affrontata come tale. Si spezzano i legami con l’agente patogenetico (come un raffreddato evita di esporsi ai venti freddi o un diabetico di ingerire zuccheri); quindi si deve saper chiedere aiuto: ad amici e amiche, e perché no anche parenti, esperti della vita, a un maestro di esistenza, a un gruppo solidale in cui sia possibile parlare della propria intimità, a non vergognarsi del fatto di soffrire di una patologia affettiva. Infine a rivolgersi alla psicoterapia, perché è l’unico mezzo che conosciamo, almeno qui in Occidente – e che ha una storia consolidata di ormai due secoli – per risolvere i “mali dell’anima”.

Dott. Ghezzani, La ringrazio e La saluto con viva cordialità.