Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Jan Vermeer

L’amore triste del Nord

Geometria della ragione borghese

Nei quadri di Vermeer sono sempre le donne, mai gli uomini, a guardarci negli occhi. E lo fanno con occhi silenziosi, morbidi, a volte tristi. Gettano il loro sguardo al di là della scena di cui sono prigioniere; anzi al di là della stessa tela che le inquadra, e fissano il pubblico col silenzio della loro anima in attesa. A ben vedere il loro mistero sta in gran parte nell’impossibilità di svelare se stesse ed aprirsi alla gioia prima che questa attesa (infinita) giunga al termine.

Il loro svelamento a se stesse e al mondo circostante e il relativo riconoscimento da parte degli altri resta in sospeso, congelato in una magica atmosfera, e la tristezza dei volti e dei corpi statici e inerti deriva dalla consapevolezza di dovere vivere per sempre in questa impossibilità.

Gli uomini sono presi da se stessi, dalle azioni della vita pratica (gli affari, il commercio, la posizione sociale...), e fra queste, come fosse un qualunque atto pratico, quella di trattare un contratto di matrimonio o di concupire un corpo. In verità, gli uomini di Vermeer sono troppo presi dal pragmatismo delle loro azioni per trasmettere altro che la loro compunta assenza di umanità.

Dobbiamo rendere a Jan Vermeer questo grande merito, di aver disegnato la geometria della ragione borghese in uno dei suoi punti di massima concentrazione, e di aver collocato al suo interno un’anima femminile imprigionata, serrata dai rigori delle convenzioni, e proprio per questo carica di un pathos intenso e commovente. Un pathos infinito quanto la sua misteriosa attesa, che non giungerà mai a termine.

La signora del virginale

“Signora ritta al virginale” (1670 — 71), olio su tela, di Jan Vermeer

Guardiamo quest’opera. Il quadro s’intitola Signora in piedi di fronte al virginale, conosciuta anche come Signora alla spinetta. È un dipinto autografo di Jan Vermeer, realizzato nel 1670, con tecnica a olio su tela, misura 51,7 x 45,2 cm., proprietà della National Gallery di Londra. La firma dell’autore compare sullo strumento musicale, che non è una spinetta, come suggerisce il titolo apocrifo, bensì un virginale.

Facciamo una minuziosa analisi iconografica, come si farebbe (o si dovrebbe fare con un sogno). Vediamo ogni particolare della scena.

Al suo interno, il quadro esposto sulla parete frontale a sinistra, viene generalmente indicato come una pittura vicina alle maniere dei pittori tedeschi Allart van Everdingen (1621-1675) e Jan Wynants (1630-1684). Il grande quadro posto in alto e leggermente a destra, raffigurante un Cupido, viene riportato anche nel Gentiluomo e ragazza con musica.

La struttura semantica dell’opera è tanto semplice all’occhio quanto complessa nei riferimenti intellettuali. La ragazza (o signora che sia) è colpita dalla luce del giorno attraverso la finestra alle sue spalle. Il volto ne viene rischiarato solo in parte, perlopiù resta adombrato e volto all’interno. La ragazza è ben vestita, di famiglia borghese abbiente, e ci guarda. Ci guarda con uno sguardo composto, come la postura del corpo, ma anche stupito, forse estraniato da un lieve velo di tristezza.

È una ragazza seria, pronta per una visita, in attesa. Offre al visitatore occasionale, cioè allo spettatore del quadro, pittore o spettatore che sia, il ritratto sonoro della sua anima attraverso la musica che accenna distrattamente allo strumento. La esegue senza molta attenzione, con l’abilità tradizionale della ragazza da marito; niente di più e niente di meno. Intanto la scena parla per lei e dice ciò che lei non può dire.

Il quadro sulla parete frontale vicino alla finestra ha lo stesso tema della riproduzione sulla parete interna del coperchio dello strumento: una grossa nuvola copre una bassa collina. Forse una allusione alla fertilità. Molto più interessante il grande quadro di Cupido in alto sulla destra.

Nel quadro, il dio dell’amore (Eros per i greci, Cupido o Amore per i latini) è rappresentato in una posa sensuale e impertinente e, a differenza della ragazza, si muove. Impugna con una mano un arco senza freccia (la freccia è stata già scoccata?) e con l’altra mostra enigmatico una carta da gioco. Inoltre, come la ragazza, ci guarda dritto negli occhi.

Si tratta di un tema pagano, ma variato secondo una simbologia rinascimentale: il corpo infantile del dio è animato da un moto irrequieto, come l’amore che evoca, la sua freccia è partita e ha colpito qualcuno. La carta da gioco sta a indicare l’assoluta arbitrarietà degli eventi che seguono allo sprigionarsi del desiderio. Un azzardo, dunque, regola le faccende d’amore. La ragazza, prigioniera di una ragione borghese, che la vincola all’attesa di un pretendente o che il marito rientri in casa, “sa”, conosce (per puro istinto femminile) la potenza drammatica del vero desiderio. Per quanto sia intrappolata dai mobili che le si adunano interno come una famiglia gelosa o una ronda di soldati, per quanto la sua morbidezza sia umiliata dalle rigorose linee del pavimento e della finestra, qualcosa di lei sfugge: il desiderio d’amore, la voglia segreta di giocare il tutto per tutto.

Per dirci tutto ciò, Vermeer adotta una simbologia pagana. Se fosse cristiana, penseremmo a una tentazione diabolica.

“Signora alla spinetta” (1660), olio su tela, di Jan Vermeer

Mettiamo a confronto quest’opera con una della stessa epoca, intitolata Signora alla spinetta. In questa seconda scena, la ragazza è vista di spalle, prigioniera di mille riquadri (i marmi del pavimento, la spinetta, le due finestre, i quadri, lo schienale della sedia, lo specchio...). Una viola (dalle forme femminili) è gettata per terra, nessuno la suona. L’uomo accanto, fissa la donna con oggettiva indifferenza. Elegante, poggia un braccio sullo strumento, e l’altra mano sul pomo di un bastone. È un puritano e ascolta la musica della sua ospite (che forse intende sposare) pensando ad altro. Nello specchio il volto della ragazza è vago, quasi cancellato. In questo quadro non ci guarda nessuno. La vita è assente.

L’anima femminile e il rimosso della società

Virginale è il nome generico di una famiglia di strumenti dalla forma genericamente rettangolare, più piccoli e semplici rispetto al clavicembalo e dotati di una sola corda per ciascuna nota, disposta parallelamente (virginale) o angolata (spinetta) rispetto alla tastiera, lungo il lato più esteso dello strumento.

L’origine del termine non è chiara, ma viene spesso collegata al fatto che lo strumento era suonato in famiglia dalle donne giovani delle famiglie stesse, e che questa attività musicale facesse parte delle doti (e della “dote”) di una brava ragazza di buona famiglia. Se forse era destinato a fare da sfondo grazioso al corteggiamento del pretendente e poi alla vita familiare, esso si prestava a fare eco ai sentimenti femminili.

Prigioniera negli spazi domestici di una casa agiata e serena come un cardellino in una gabbia d’oro, l’anima femminile può esprimere il suo canto di richiamo attraverso la musica, e, in un quadro, attraverso il suo sguardo silenzioso.

In entrambi i quadri qui riprodotti, l’anima femminile (intesa alla relazione, quindi all’amore) è protetta dalla possibile violenza del mondo esterno, ma è altresì imprigionata come un qualunque animale domestico nel recinto della ragione borghese (maschile), ed è pertanto esposta di fatto ad un altro genere di violenza, più sottile e destinato a restare invisibile ai committenti dei quadri. Onore al merito di Vermeer di aver catturato e fermato nei secoli questo sguardo in cui l’implorazione è modesta e trattenuta e non di meno viva e commovente.

Adoperiamo ora il concetto junghiano di Anima e proviamo ad osservare le opere di Vermeer in questa luce. Secondo Carl Gustav Jung l’Anima incarna il lato femminile inconscio di ogni uomo. E per maggiore esattezza essa rappresenta il “rimosso” psichico di un individuo di sesso maschile (o di un’intera cultura maschile) proiettato nella figura femminile. Allora, in questo senso possiamo affermare che le ragazze dei quadri esaminati incarnano sia l’Anima di Jan Vermeer sia quella di chiunque provi lo stesso sentimento di una vitalità e di un amore prigionieri di una ragione inflessibile, impossibilitato a esprimersi.

Sempre seguendo la suggestione junghiana, potremmo affermare, in un senso non del tutto metaforico, che se non queste figure femminili non facessero le loro commoventi apparizioni gli uomini del Nord descritti da Vermeer (e dal Rinascimento fiammingo) sarebbero persone senz’anima. Uomini cinici e avidi, pervasi di individualismo e annoiati della vita. È questa anima femminile, segregata nella sua prigione d’oro, che ci ricorda che specie umana è sensibile per natura ed è capace di trascendersi in passioni estatiche, amorose ed altruiste.

Nel mio linguaggio, il linguaggio della Psicologia dialettica, l’io soggettivo e culturale contempla in una sua icona drammatica l’immagine rovesciata (dialettica appunto) dei suoi bisogni rimossi. La ragazza-tipo dipinta da Vermeer è l’io complementare, l’io antitetico, dell’io individualista e privo di passioni che domina l’identità nordica di quegli anni (che ha perdurato invariata fino ad oggi). Più l’io si vuole chiuso e individualista, più rimuove rimuove da sé un io alternativo complementare che raccoglie le istanze umane di apertura e di fusione duale o collettiva.

Lo sguardo malinconico e prigioniero della giovane signora del virginale è l’elemento inconscio dell’io razionale che domina la figurazione astratta, logico-matematica, dei quadri, che Vermeer sa ritrarre con mirabile lucidità, come lo vedesse riflesso in uno specchio. Ed è appunto questo l’elemento che può scatenare l’eros, la cui icona è nascosta nel quadro appeso alla parete. Come ho spiegato nel libro La paura di amare1, è l’io antitetico, cioè l’inconscio, che si innamora. Non è mai la nostra volontà a farlo. Si innamora, chiede ascolto, solo ciò che sfugge al ferreo controllo dell’io. Ci si innamora, come dice Alberoni2, solo quando le condizioni sono mature, ma lo sono innanzitutto nell’inconscio.

Cosa nasconde la ragazza del quadro di Vermeer? Nasconde l’eros, che si svela in forma simbolica nel quadro alla parete; e soprattutto cela la ferita che la freccia ha lasciato nell’anima. Nasconde il pathos di una natura umana relazionale costretta a inibirsi al contatto veritiero, autentico. Nasconde dunque un inconscio saturo di passioni represse, prigioniero di una ragione pragmatica che umilia la natura umana; un inconscio che anela alla liberazione.

Un quadro va interpretato come un sogno.


Bibliografia

  1. Nicola Ghezzani, La paura di amare, Franco Angeli, Milano, 2012.
  2. Francesco Alberoni, Innamoramento e amore, Garzanti, Milano, 1979.